Villa MikawaResidenza di Aloysius Diogenes

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    Nei meandri di villa Mikawa


    Post 1 ~ Entità ancestrali

    La kunoichi di Oto aveva terminato di preparare i bagagli per la trasferta ad Ame, e stava attendendo l'arrivo del jonin a cui il capoclan dei Mikawa l'aveva assegnata oscillando pigramente le gambe, seduta su una sedia troppo alta nell'ampia cucina della Villa. Alzando lo sguardo sulla pendola a ridosso della parete, la ragazza si rese conto che le lancette si erano rincorse sul quadrante dell'orologio più a lungo del dovuto. Alzatasi di scatto, stufa di aspettare, inarcò la schiena all'indietro per sgranchirsi, tendendo le braccia al cielo. Fu proprio in quel momento che notò la tazza rovesciata usata a modo di fermacarte al centro della lunga tavolata. Infilato sotto il bordo un bigliettino, che la genin inesperta, mossa dalla curiosità, sfilò dopo aver verificato voltando rapidamente il capo che nella stanza non ci fosse nessun altro. Vergato di fretta, in una grafia a stento leggibile, Shinken le comunicava che sarebbero partiti l'indomani perché aveva dei non meglio specificati preparativi da ultimare. Sentendosi una stupida, Harumi ritornò in camera sua, sbattendo i piedi contro i gradini con più foga del necessario.
    Quando l'intera struttura aveva tremato, scossa dalle fondamenta, Harumi si era diretta agitata nel grande androne della villa, domandandosi se si trattasse di un terremoto o di un attacco. I servitori del Mikawa correvano in varie direzioni con una viva preoccupazione negli occhi, ma la ragazzina intuì che la maggior parte di loro si stava dirigendo verso i sotterranei. Non appena mosse anche lei un passo in quella direzione, tuttavia, venne trattenuta e gentilmente accompagnata verso il giardino prospiciente la tenuta, per la sua sicurezza dicevano. Rimase così in attesa, camminando in cerchio sul selciato di ghiaia in preda all'ansia. Con il sole quasi tramontato oltre l'orizzonte, la giovane rabbrividiva ad ogni refolo d'aria gelata che l'investiva, visto che era corsa fuori di casa prima di poter afferrare un cappotto. Stringendo le braccia intorno al busto nel tentativo di trattenere un po' di calore, alzò gli occhi sulle finestre illuminate dei piani superiori. Diverse ombre scure le attraversavano con una fretta poco tranquillizzante, venendo proiettate contro i raffinati tendaggi. Quando infine qualcuno venne a recuperarla era ormai gelata e la notte era scesa sul Villaggio del Suono.
    Con estrema circospezione e molta pazienza, era riuscita a scucire qualche parola su ciò che era successo nei sotterranei ad una delle dipendenti del Colosso. Quella, pur sorridendole con fare benevolo, non si era particolarmente sbottonata, limitandosi a spiegarle con lo stesso tono accondiscendente solitamente riservato ai bambini che qualcosa era andato storto, ma ora stavano cercando di porvi rimedio. Probabilmente era convinta che Harumi non stesse capendo la gravità della situazione, ma la kunoichi, per quanto giovane, per quanto inesperta, era inaspettatamente matura e sveglia per la sua età. E non sarebbe potuto essere diversamente, visto il destino malevolo che i kami le avevano riservato fin dalla nascita. Il padrone di casa, colui che l'aveva accolta dopo il suo arrivo ad Oto, sebbene non senza un secondo fine, giaceva convalescente e privo di sensi, attorniato dai suoi più fidi collaboratori che si stavano prendendo cura di lui, ma sembrava in procinto di rimettersi. Non appena le giunse voce che probabilmente da lì a poco si sarebbe svegliato, la giovane si domandò come potesse fare la sua parte. Come una grande famiglia, o un gruppo molto affiatato, tutti lì dentro avevano un ruolo e stavano svolgendo una mansione più o meno importante. Solo lei, l'ultima arrivata, stava in un angolino con le mani in mano, cercando per lo meno di non essere d'intralcio. Alla fine le venne un'idea, stupida forse, ma non era spaventata di essere rimproverata per quello, tanto era abituata. Qualsiasi cosa gli fosse accaduta, doveva essere debole e privo di forze, e di certo era a digiuno da un bel pezzo. Dunque, con tanta buona volontà, Harumi si mise d'impegno tra i fornelli.
    La ragazzina, nel salire le scale, osservò il piatto adagiato sul vassoio, e non riuscì ad impedire alle labbra di incresparsi insoddisfatte. Ce l'aveva messa tutta, ma la cucina per lei era un territorio inesplorato quasi quanto la vita da ninja. Alla fine era riuscita ad ottenere una poltiglia dall'aspetto poco accattivante, ma dal sapore passabile. Continuava a ripetersi che l'importante era l'impegno, ma le sembrava una scusa, e di quelle per nulla convincenti per altro. Tra l'altro, da quando aveva preso quella decisione, provava un fastidioso seppur leggero senso di nausea allo stomaco, del quale non riusciva a comprendere l'origine. Non le passava neanche per la testa che il demone dentro di lei potesse trovare disgustoso quel suo comportamento, a maggior ragione considerando che il destinatario di quella premura era rivolta verso la persona vivente che più odiava al mondo, colui che gli aveva sottratto la libertà. Il due code aveva covato il suo rancore per anni nel corpo del suo precedente contenitore, ed anche dentro la nuova giovane forza portante quel tarlo non cessava di tenerlo sveglio: uccidere Diogene Mikawa era lo scopo della sua esistenza. Con tale malessere diffuso, le cui cause in realtà non erano del tutto imputabili alla creatura che albergava dentro di lei, la giovine continuò la sua ascesa verso la stanza dove si trovava allettato il Mikawa.
    Appoggiato il piede sull'ultimo gradino, Harumi intravide appena una figura massiccia di spalle, che le ricordava Diogene, allontanarsi lungo il corridoio in direzione opposta alla sua. Ah! Diogene-sama, come st... Niente, senza dare segno di udirla l'uomo era scomparso, scendendo a grandi falcate le scalinata dall'altro capo del piano. Sospirando, la ragazza avanzò comunque per inerzia fino a raggiungere la camera dal quale doveva essere uscito come una furia, a giudicare dalla porta spalancata. Gettando uno sguardo al suo interno, vi intravide una delle poche persone a lei note lì ad Oto che non facesse parte, non direttamente almeno, del personale di Villa Mikawa. Con un ritrovato sorriso, la kunoichi si introdusse ed appoggiò il vassoio ad un comodino, facendo oscillare lievemente l'acqua contenuta nella brocca. Buongiorno Kato-san... Come sta? Nella sua ambiguità, avrebbe lasciato che fosse lo Yotsuki a decidere chi fosse l'oggetto di quella domanda, se lui o il jonin. Se avessi saputo che ti trovavi ancora qui ne avrei preparato una porzione in più, ma visto che Diogene-sama sembra essersene andato puoi mangiarlo te. La fanciulla si sistemò una ciocca di capelli dietro la curva delicata dell'orecchio, sedendosi quindi sul bordo del letto disfatto. Non farti problemi, serviti pure! Spero solo sia buono... Harumi sarebbe quindi rimasta ad osservare per un poco lo shinobi in silenzio, sia che quegli avesse accolto il suo invito sia che fosse rimasto sulle sue. Avrebbe desiderato domandargli molte cose, ma per quel poco che conosceva il duro Kato dubitava che si sarebbe confidato con lei. Anzi, aveva il sospetto che il ninja del Suono non nutrisse una grande stima nei suoi confronti, e a volte pensava che avesse ragione a dubitare delle sue capacità. Con un'espressione un po' più malinconica, la ragazzina si sarebbe alzata visto il languire della conversazione, iniziando a rassettare il giaciglio. Sai, ieri ci siamo presi proprio un bello spavento, sembrava quasi un terremo... Improvvisamente la stanza sembrò girare intorno agli occhi di Harumi, che si appoggiò al materasso completamente stravolta, come se avesse perso l'equilibrio da ferma e stesse per rimettere. La sensazione a poco a poco andò a stabilizzarsi, diminuendo d'intensità, ma le tempie continuarono a pulsarle come se vi fossero due chiodi impiantati e doveva lottare contro il riflesso del vomito. Diversi piani più in basso, nelle viscere di Villa Mikawa, la barriera aveva ceduto.
    In una pausa tra un attacco e l'altro, la kunoichi si era tirata su in piedi ed era uscita dalla stanza ignorando ciò che succedeva intorno a lei. Vagando in uno stato di trance, solo parzialmente cosciente di sé, la ragazza si diresse con passo malfermo verso le profondità dell'edificio, richiamata da una voce che non ha voce, da un suono che non ha suono. Se avesse potuto descrivere quello che provava in quel momento, l'unica immagine che le sarebbe sovvenuta alla mente sarebbe stata un'enorme mano nera stretta intorno al suo stomaco che la trascinava lacerandole le carni. Non sapeva se erano passati anni o solo pochi minuti, ma quell'eterna discesa ebbe infine termine, e la forza portante del Suono avanzò come un sonnambulo attraverso il collegamento che conduceva alla stanza dove l'essere che aveva portato il nome di Jotaro Jaku aveva aperto una soglia, attraversando un confine che sarebbe stato meglio non violare. Sulla soglia, Harumi ritrovò con un immane sforzo la sua lucidità. Vide il Garth confrontarsi con quell'entità vestita di spoglie umane nell'unico modo in cui era capace: con la violenza. E vide riversi in uno stato pietoso i suoi sottoposti, tra i quali una delle pochissime persone che sembrava provare una forma di affetto nei suoi confronti. Eiatsu...sama... Con gli occhi che le lacrimavano ed il dolore sublimato al punto da non essere più percepito dal suo cervello che cercava di proteggerla, la kunoichi rivolse una mano verso di lui. Lentamente, pur resistendo appena una manciata di istanti, scivolò con le ginocchia sul freddo lastricato. La pietra le sembrava coperta di un fluido scuro simile alla pece, mosso da una sorta di risacca animata dal chakra che spirava impetuoso da quella creatura. Senza che se ne rendesse conto, si ritrovò con il volto appoggiato al pavimento, mentre la marea nera la sommergeva, entrandole dalla bocca, dalle narici, dalle orecchie, dai bulbi oculari, impendendole di respirare, di udire e di vedere cosa alcuna. Immersa nell'oscurità, nella mente morente le balenò un ricordo. Aveva già provato sensazioni simili, aveva già affrontato quella prova. Era stato il giorno in cui la sua anima si era fusa con quella del demone a due code, quando entrambi erano stati trascinati nelle profondità più sperdute di un odio ancestrale. Ma non c'era verso questa volta che riuscisse a riemergere, la forza di quell'entità ancestrale era inconcepibile e irraggiungibile per qualsiasi essere umano che non fosse sul punto di elevarsi a divinità. Ed Harumi precipitò nell'oscurità.
    I capelli della ragazza riversa al suolo iniziarono a mutare colore partendo dalle radici fino a giungere alle punte, diventando di un bianco abbagliante, simile a quello della neve. Sbattendo un paio di volte le palpebre, mise a fuoco ciò che la circondava, inarcando poi la schiena e stiracchiandosi con pigrizia. Le iridi gialle e dalla fessura ferina si rivolsero verso i due contendenti, più simili a mostri di quanto appariva lei, che demone era. Le labbra si allargarono in un sorriso lasciando scoperti gli incisivi affilati. A contornare la sua figura stavano due orecchie da gatto, che si contraevano ad ogni esplosione ed impatto causata dal Mikawa e dal Jaku, o di chi ne stava usando le sembianti. Nyahahaha La risata felina rimbombò tra le pareti sotterranee per diversi secondi, permeando l'ambiente. Appoggiata alla parete, la ragazza demone incrociò le braccia, tenendosi in disparte. Sembra proprio che tu abbia trovato un avversario alla tua altezza, spocchioso di un Mikawa, nya. Il sorriso sul suo volto sembrò accentuarsi, assumendo un'ombra sadica. Penso proprio che me ne starò qui in un angolino a vederti mentre ti fa a pezzi, nya. L'essere si guardò le unghie della mano con un fare piuttosto femminile, ma che probabilmente sottintendeva altro. Con gli occhi però, più del capoclan, scrutava il suo avversario. L'aria di superiorità con cui trattava il jonin e il modo in cui fronteggiava la sua nemesi gli erano grati, ma non riusciva a farsi piacere il suo chakra. Come un gatto che annusa con sospetto un cibo avariato, la forma ibrida del due code arricciò il naso. Eppure quell'odore, o per meglio dire colore, non gli era nuovo, doveva averlo già incontrato. In qualche tempo, in qualche spazio, lontano.


     
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