Villa MikawaResidenza di Aloysius Diogenes

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    Nei meandri di villa Mikawa


    Post 3 ~ Sogno

    In quell'istante, il mondo andò in fiamme. Il sangue vermiglio e oscuro travolse ogni cosa, mutando misteriosamente la sua natura al contatto con l'entità antica, l'intruso che viaggiava tra le dimensioni del tempo e dello spazio, della realtà e del sogno, alla costante ricerca di una porta lasciata aperta, di una soglia da varcare, foriero di lutti e sventure, di terrore e di morte. Accecata dalla luce rossastra, investita dal calore del fuoco sovrannaturale, Harumi si ritrasse, schermandosi il volto con le braccia, temendo che fosse giunta la sua ora. Polverizzata, lasciando dietro di sé niente più di un'ombra sulla parete. Non aveva mai pensato che quella sarebbe stata la sua fine, ma in fin dei conti c'erano modi peggiori per lasciare questo mondo. Eppure, nulla di tutto ciò accadde. Per la prima volta nella sua esistenza, trovò surreale il fatto di essere ancora viva. Le fiamme crepitanti intorno a lei avevano avvolto tutto: gli shinobi che giacevano al suolo nella stanza, i mobili, le pareti, i sotterranei e la Villa stessa. Ma la giovane kunoichi di Oto respirava ancora. Non solo, la sua pelle era appena tiepida, i suoi polmoni sgombri, i suoi occhi umidi. Semplicemente, quanto stava accadendo era privo di senso. Siamo ancora dentro un'illusione? O forse...è tutto un sogno? Il dolore che le artigliò il fianco nel pronunciare quelle poche parole si erse a duro diniego di quel pio desiderio, lasciando la fanciulla esterrefatta davanti all'ombra nera che emergeva dall'inferno. L'abominio avanzò verso di lei con una maestosa lentezza. Ad ogni passo, la ragazzina arretrava, fino a ritrovarsi appoggiata al moncherino di parete dietro di lei. Quando l'oscuro raccolse la spada da terra, un brivido freddo le percorse la colonna vertebrale per l'intera lunghezza, mentre la fronte le si imperlava di sudore. Come avevano anche solo potuto pensare di affrontare una calamità del genere? La giovane cercò con uno sguardo venato di disperazione Diogene, capoclan dei Mikawa, jonin di Oto, il Colosso, ma ciò che trovò la gettò nella più cupa disperazione. L'uomo, o il suo simulacro, stava immoto, con gli occhi appannati, persi a fissare un paesaggio remoto, più lontano di quanto la ragazza poteva concepire. Sola, era rimasta sola. Di nuovo. Chiuse gli occhi, preparandosi ad accettare la sua sorte. No, non era così. Harumi riaprì le palpebre. Non era sola. Le sue iridi brillavano, riflettendo la luce delle fiamme che la circondavano. Regolarizzando il respiro, tornò padrona di sé. Flesse le gambe, inarcò la schiena, pronta a reagire. Non poteva buttare via la sua vita. Non più. Con un'espressione terribile in viso, contrasse i muscoli, preparandosi a scattare. In quell'istante, l'ombra senza nome spalancò la bocca.
    L'occhio rosso la fissò, l'afferrò, la rivoltò e la lasciò senza fiato. Il tutto accadde in un istante. Una violenta fitta le pervase l'addome, poi un'altra ancora più forte. Il suo grembo ardeva come se il fuoco lo stesse consumando dall'interno. Lasciandosi sfuggire un gemito, la ragazzina si accasciò. Il chakra dentro ribolliva, ustionando ovunque scorresse, le trafisse l'intero corpo di spilli. Quell'energia che non le apparteneva si stava ribellando, cercando di scavarsi una strada verso la libertà attraverso le sue viscere. La testa della fanciulla si fece pesante, ancor più che per il dolore rampante, per la confusione che vi dominava. La sua mente stava venendo invasa da centinaia di sensazioni, ricordi, emozioni, che non erano i suoi. E tra tutte, si ergeva alta, immensa, la rabbia. Un odio atavico, impossibile da accumulare nella breve vita di un uomo, tramandato attraverso i secoli, accresciuto, coltivato, ed ora pronto ad esplodere. Harumi spostò le mani con cui si stringeva la pancia alle tempie, nel tentativo disperato di fermare quel vortice che la scuoteva con tanta foga da farle perdere l'equilibrio e financo i sensi, se la sua volontà avesse vacillato un istante soltanto. La giovane kunoichi di Oto si morse il labbro inferiore fino a farlo sanguinare, piantò i piedi, gridò, mentre copiose lacrime le scendevano incontrollate lungo le guance. Tutto, pur di rimanere presente a se stessa. Sarebbe bastato un istante, uno soltanto, per perdere tutto, per smarrirsi per sempre nell'oscurità. Sentiva il demone dentro di lei premere per uscire, sordo al suo pianto, cieco alla sua sofferenza, muto di fronte alla sua supplica. Che il due code ambisse alla libertà, poteva comprenderlo. Lo accettava. Ma non così, così era semplicemente...sbagliato. Matanabi, l'essere antico che aveva accolto dentro di sé, non l'avrebbe abbandonata in quel modo. Quella non era neppure furia cieca, era semplice istinto. Come se nella creatura fosse stato girato un interruttore, premuto un pulsante. L'occhio le aveva impartito un comando alla sua natura più ferale, oltre ogni possibilità di controllo da parte della ragione. Un'altra spinta, più violenta, fece riversare la ragazza al suolo, faccia a terra, boccheggiante. La sua coscienza non avrebbe retto ancora a lungo. Già si intravedevano le prime crepe, stava venendo spezzata dalla semplice forza bruta, la differenza tra di loro era semplicemente troppo grande. Harumi aprì la bocca, cercando di articolare una supplica, ma dalle sue labbra dischiuse non uscì che un rantolo afono, simile al sospiro di un'anima che abbandona il corpo. Un lampo di dolore improvviso, lancinante, dall'interno del cranio, le fece credere di morire. Si abbandonò con il fianco del viso appoggiato al pavimento freddo, le braccia ormai inermi abbandonate lungo i fianchi. Dagli angoli di bocca e occhi colavano lentamente lacrime, saliva e sangue. Un'altra convulsione, più debole, le scosse il busto. La fanciulla batte le palpebre un paio di volte, ma non riusciva più a mettere a fuoco. Il petto si alzava sempre più piano e le labbra rimaste socchiuse si increspavano appena ogni volta che esalava il respiro, contraendosi in una litania senza voce.

    Matanabi, perdonami se non ho avuto la forza di tenerti con me...in quel momento, quando per un istante ti sei fidato di me, ero così contenta...

    Madre, ti ringrazio per avermi donato questa vita...anche se per poco, ho cercato di viverla a pieno...sono perfino riuscita a farmi degli amici...

    Io...sono pronta.

    Harumi rimase muta, immobile, per interi, lunghissimi minuti. Era interdetta, incredula a tal punto da non lasciare spazio a nessun sentimento che assomigliasse alla felicità. Non riusciva semplicemente a credere di essere ancora viva. Certo, per un istante aveva sospettato che quello non fosse altro che un sogno, ma tutto ciò che aveva provato era così reale... Con una lentezza esasperante, la ragazza si tirò su a sedere, iniziando a prendere coscienza di ciò che la circondava. Un letto, sì, era adagiata su un morbido materasso, e sul suo grembo era scivolata la coperta che la stava coprendo. La stanza, si trovava nella Villa, l'edificio era ancora in piedi. E le voci, sì le riconosceva. Da quanto le si stavano rivolgendo? C'erano forse sempre state? Uh, dei volti. Ah, sì, se li ricordava. Da quanto la stavano fissando? Harumi non avrebbe saputo dirlo. Era confusa, stanca, ogni fibra del suo corpo urlava di dolore. Eppure, loro erano lì per lei. Le loro espressioni, i loro toni, tradivano una preoccupazione e un sollievo dettati da qualcosa di più del semplice senso di responsabilità, di dovere verso il Mikawa. Quello, almeno non se lo era sognato. Non era più sola.

    Sono tornata
    Sono a casa

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    Stringendosi nuovamente la coperta intorno al corpo, la giovane avrebbe sorriso tiepidamente agli astanti, rassicurandoli sulle sue condizioni e rispondendo a mezza voce alle domande che le venivano poste. Nel letto di fianco al suo, all'apparenza solo addormentato, era disteso il capoclan, mentre il Jaku era adagiato sul pavimento, circondato da diversi degli inservienti della Villa. La kunoichi si ritrasse impercettibilmente nel vederlo, ma Fyodor, con fare premuroso, la rincuorò, dicendole che non aveva più motivi di avere paura. La ragazzina si limitò ad annuire flebilmente, premiandolo però di un sorriso. Ciò che le era accaduto le appariva ancora surreale, ma più passava il tempo, più i particolari sfumavano e i ricordi si facevano incerti, come accade per i sogni subito dopo il risveglio. Alzatasi, Harumi mosse alcuni passi con circospezione, quasi non fidandosi delle sue stesse gambe. Con il massimo impegno, un passo alla volta, raggiunse la poltrona dove giaceva Eiatsu, anch'esso ricoperto da una calda coperta. Le occhiaie dell'uomo erano ancora più accentuate e tutto, in lui, testimoniava quanto profondamente fosse provato. Con timore, la fanciulla allungò una mano verso la sua fronte, sobbalzando al contatto con la sua pelle, senza però ritrarsi. Con estrema delicatezza, gli accarezzò i capelli, calmandosi a sua volta. Avrebbe voluto dirgli tante, tantissime cose. Raccontargli cosa aveva visto. Ma soprattutto, ringraziarlo. Rimase in silenzio, bloccata dalla timidezza, dall'inadeguatezza del momento, dalla presenza di molte altre persone oltre a loro. Tuttavia, in quel frangente, donò ad Eiatsu uno dei suoi sorrisi più belli, di quelli che valgono più di mille parole. I due accettarono di buon grado la bevanda calda offerta loro da una delle donne della Villa, e la kunoichi inspirò il tonificante vapore profumato che si levava dalla propria tazza. Da lì a poco, Diogene ritornò tra loro, animato come sempre dalla sua travolgente energia. Al jonin erano bastati pochi secondi per riprendersi, a differenza della genin, che si rendeva conto sempre di più dell'abisso che li separava. Con la potenza di un uragano, il Colosso prese subito le redini della situazione, non prima di aver severamente ammonito la ragazza di non allontanarsi. Harumi ricambiò il suo sguardo perentorio con occhi di un limpido quasi difficile da sostenere. D'accordo...aspetteremo qui... Lentamente, le sue dita continuarono a muoversi tra le ciocche di capelli.
     
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