Ospedale della Foglia

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  1. Arashi Hime
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    Y Danone
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    LABORATORY

    A scientist in his laboratory is not a mere technician: he is also a child confronting natural phenomena that impress him as though they were fairy tales.




    Lo chiamava “laboratorio”. In verità era solamente il sottosuolo dell'ospedale, chiuso da anni e anni prima di che lei lo trovasse.
    All'inizio del suo mandato come Primario e gestore dell'ospedale, curiosa come solo una donna può esserlo, Shizuka aveva girato tutta la struttura sanitaria, sbirciando in ogni stanza, conoscendo ogni singolo paziente e ogni membro del corpo medico-assistenziale. Si era ben presto fatta amare per l'allegria con cui intraprendeva ogni giorno di lavoro e lei, di rimando, si era innamorata presto di quel luogo che le riservava sempre qualche sorpresa durante le sue visite di controllo e valutazione per il piano di risanamento della struttura di cui si era fatta promotrice e prima attivista: una porta piena di lucchetti di un'ala scarsamente utilizzata, qualche stanza stipata di fascicoli abbandonati e gialli di decine e decine di anni prima, e ovviamente il grande casermone posto due volte sotto il livello del suolo.
    Iron Tobi Inuzuka si era rifiutata di dirle a cosa fosse stato adibito quel luogo prima che lei lo scoprisse e l'aveva messa a tacere seppellendola di libri da studiare, mentre lei, del resto, si era successivamente ben vista dal chiedere ancora informazioni per paura che la sua mentore potesse far sigillare il luogo dal corpo di esperti in Fuuinjutsu. In effetti, per qualche ragione, ne sembrava particolarmente angosciata, spaventata addirittura. Rammaricata come si può esserlo di un errore impossibile da cancellare.
    Per la verità quel posto era ben lontano da quello che la tradizione Horror avrebbe voluto e che avrebbe perciò potuto spiegare il comportamento flemmatico della Inuzuka: grande quanto tutta la pianta dell'ospedale, scavato nella roccia sotterranea da colpi secchi e arrabbiati di chissà quale attrezzo, non aveva niente di strano se non un'infinita serie di oggetti abbandonati. C'erano scrivanie arrugginite, lettini operatori rovinati con cinghie di cuoio lese e pendenti dai lati, attrezzature mediche dell'epoca dell'ultima grande guerra, e una pila infinita di archivi mangiati dai ratti datati a più di cento anni prima. Tutto lì. Niente schizzi di sangue sui muri, né seghe elettriche scheggiate, scheletri abbandonati o gli Dei sapevano solo cos'altro.
    Probabilmente era solo una cantina in cui la vecchia amministrazione aveva gettato vecchia robaccia che non aveva voluto smaltire per qualche ragione. E che lei aveva trasformato nel suo laboratorio.
    Mettere le lampade da sola le era valsa abbastanza scosse elettriche da credersi lobotomizzata, e certo trasportare di sotto tutto ciò che le poteva servire in modo pratico le era costata un'organizzazione di cloni degna della migliore infiltrazione in territorio nemico. Ma ne era valsa la pena.
    Trovare cadaveri su cui lavorare era sempre difficile a Konoha, soprattutto se gli Shinobi avevano famiglia o appartenevano a grandi Clan, ma poteva capitare anche, per pura fortuna, che ci fossero persone sole, di cui nessuno recriminava la salma. E che dunque Shizuka decideva si sarebbero sacrificate per la scienza prima di diventare concime per il campo santo.
    Ovviamente quella faccenda non era né divertente né eccitante, ma senza dubbio era utile. Aveva capito già da tempo che se avesse voluto potenziare le sue abilità mediche doveva studiare di più sul campo pratico e aveva dunque benedetto quella grande opportunità... l'unica pecca era che quel posto era così poco attrezzato e situato in un luogo che le impediva di fare la confusione che spesso le serviva, da limitarla molto nel suo lavoro. Se solo avesse potuto avere un laboratorio esterno al Villaggio, funzionale, efficiente...
    ...beh, anche quello sarebbe arrivato. Lo avrebbe trovato, se avesse continuato a cercare con quella sua tipica pedanteria. Gli Archivi storici, del resto, non mentivano mai.

    «E dunque, Pochi, anche stamattina dormi, eh?»
    Disse baldanzosa Shizuka Kobayashi, entrando nel laboratorio quando ancora il sole non era sorto. Posto sotto la luce conica e gialla di tre lampadine mal installate, disteso su un lettino rugginoso e ben legato con cinghie di cuoio, il corpo di un uomo dai capelli cianotici giaceva inerte.
    «Come va? Io ho dormito solo qualche ora, stanotte... che fatica, eh, Pochi?» Borbottò la Chunin, avvicinandosi al letto e controllando le statistiche nei monitor delle attrezzature mediche: coma farmacologico indotto, attualmente irreversibile per la quantità di farmaci somministrata, ancora positivo. «Tu invece non fai che dormire, Pochi. Bell'amico che sei, eh.» Si offese la dottoressa, alzando una mano piena di canule del paziente e mettendosela sulla spalla. «No, no, non cercare di consolarmi Pochi...» Piagnucolò a quel punto, tastando il polso dell'uomo. Ritmo cardiaco nella norma, flusso sanguigno coerente con peso e fisicità. «Se mi volessi davvero bene, come io ne voglio a te, non dormiresti tutto il giorno. Mi faresti compagnia, piuttosto!» Lo brontolò, posando il braccio sulle coperte di cotone bianco immacolate e fissandolo malamente. «Come dici? Ti fa male la testa? Ah beh, con il trauma cranico che ti sei preso soffrirai molto di più quando e se mai ti farò risvegliare, credimi.» Commentò la kunoichi, annuendo gravemente. «Povero, povero il mio piccolo Pochi...» Gemette poi, posandogli con dolcezza una mano sulla fronte. In un'istante questa venne circondata da un bagliore blu elettrico ben compatto ma, nonostante tutto, ruggente e pretenzioso, e lei, socchiudendo gli occhi, scese rapidamente nel livello sottostante a quello visibile a tutti, quello cioè inconscio: coscienza stabile, psiche ferma, mente reattiva agli stimoli esterni indotti.
    Nel limite delle sue possibilità perché lo sconosciuto non si svegliasse né reagisse, Shizuka scese maggiormente in profondità nella mente di lui e cercò di offrirgli una sensazione di piacevole ristoro, di calore gentile, realmente apprensivo, davvero dolce. Cercò cioè, per quanto poteva, di alleviare la sensazione di freddezza che un coma indotto poteva indurre. Lo aveva già fatto da quando lo aveva condotto lì, con costanza e premura, di nascosto benché fosse da sola, spesso guardandosi le spalle per paura di trovarsi la sua Volpe a fissarla. Per qualche ragione aveva la mezza idea che lui non avrebbe approvato... ma lei, che agiva sempre e solo nel modo che riteneva giusto, non se ne sarebbe probabilmente curata. Neanche Raizen avrebbe potuto proibirle di curare i suoi pazienti come più riteneva doveroso fare, e la pietà, la gentilezza, si offriva a chiunque. Anche ad un nemico. Questo, almeno, era ciò in cui stava cercando di credere.
    «...Che hai fatto per finire qui, Pochi?» Domandò piano la ragazza, interrompendo a quel punto il flusso del suo chakra. Accarezzò la fronte del paziente, scostandogli un ciuffo di capelli ribelli dalla fronte. «Devi averla combinata grossa per far arrabbiare Raizen a quel modo, eh?» Chiese, calandosi verso il volto di lui. Fermò il suo viso vicino a quello del ragazzo, poi si girò e rimase in ascolto: respiro autonomo ancora regolare e potente. Tutto nella norma. «Di che villaggio sei? Che fai nella vita oltre che cercare di ammazzarti in terre straniere?» Domandò poi, riportandosi in eretta postura, sorridendo. Era veramente un tipo anonimo, ma se era stato piegato in quel modo dentro le mura e durante un evento grande come quello del giorno prima, non poteva escludere che fosse molto più di quello che sembrava. «Sarebbe bello se non dovessi ammazzarti, sai mi sono affezionata a te, Pochi.» Affermò con onestà la Chunin, passando frontalmente un braccio attorno alle spalle dell'uom. Strinse a sé il corpo e con l'altra mano si aiutò a porlo seduto, appoggiato a lei con la testa sulla sua spalla, stando attenta alle canule con minuzia meticolosa. Posò a quel punto una mano sui reni dello straniero e di nuovo lasciò che il suo chakra le circondasse la mano: reni in buona funzione, percentuale di totale ripresa 97% circa. «Potresti parlare con quel testone di Raizen e vedere un po' di chiarire le cose...» Gli consigliò seriamente, attivando nuovamente le cure mediche necessarie. Rimase così il tanto che bastò perché la percentuale di guarigione si chiudesse in un 100 perfetto, tenendo con delicatezza ferma la testa del paziente con la sua mano libera. Quando ebbe finito riadagiò l'uomo sul lettino. «Eeeh, insomma, lui ha la testa di legno ma non è un cattivo ragazzo. Ma soprattutto ricordati di portarmi fuori a cena se ti sveglierai mai, eh. Ci conto, davvero, ma stai attento perché mangio tanto.» E mai cosa era più vera... come testimoniavano le dieci scatole di ramen istantanei, vuoti, impilati sulla scrivania rugginosa sotto ad un tappeto di bacchette di legno sporche. «Beh, mi senti Pochi?! Oh, non mi rispondi mai, eh, che maleducato!» Si offese la ragazza, mettendosi a braccia conserte e alzando il mento nel dare le spalle al muto interlocutore.
    ...Ma la sentiva davvero? Capiva cosa stava dicendo?
    Il grande mistero del coma, quello.

    Sedendosi e prendendo un vecchio archivio polveroso sulle ginocchia, Shizuka Kobayashi si accoccolò sulla poltrona di pelle squarciata accanto al lettino del paziente e iniziò a leggere a mente, sbadigliando di tanto in tanto presa dal sonno com'era.
    Aveva pure fame, tanto per cambiare.
     
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