Ospedale della Foglia

[Gestionale]

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  1. Arashi Hime
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    Y Danone
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    KONOHA HOSPITAL

    The very first requirement in a hospital is professionalism.




    Aveva sempre saputo che lavorare in ospedale era un incarico difficile e faticoso. Soprattutto faticoso.
    Era necessario molto auto-controllo…che lei non aveva.

    Era per questo che era diventata infermiera.
    Per imparare a correggere quel suo difetto.

    Capì che aveva fallito nell'intento quando udì quella domanda…
    …l’unica domanda che non pensava davvero di poter sentir uscire dalla bocca di un uomo tanto affascinante.

    “Dici che devo aspettare ancora molto?”



    In un attimo, la donna sentì tutto il sangue del suo corpo defluire al viso. E lei, accaldandosi, aprì la bocca, disperata.
    Oh no…stava davvero succedendo?!
    «I-io…non penso che sia giusto…» Gemette, stringendo le dita attorno al bancone sotto al quale si era rintanata. Batté le ginocchia le une contro le altre, tremando. «…n-non che io non v-voglia, ma…» Balbettò portandosi a quel punto le mani al petto. Evidentemente lo fece così forte che due bottoni della camicetta saltarono via. «…c-c-credo che dovremmo controllarci, almeno in pubb–…»

    “Io non è che abbia molto tempo da perdere.”



    C-cosa…?
    Cosa aveva appena detto quell’uomo dagli occhi profondi e dallo sguardo affascinante…?
    Non aveva tempo...da perdere?
    Stava forse dicendo che intendeva investire il suo tempo...su di lei?

    Oh no.
    Cosa poteva fare?!
    N-non poteva crederci!

    Portandosi le mani al viso, rosso acceso, la ragazza sentì qualcosa dentro di lei che si spaccava…e improvvisamente seppe. Seppe che non poteva opporsi. Che non avrebbe resistito oltre.
    Non poteva negare ciò che provava.

    Se lui la voleva, l’avrebbe avuta.

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    E così, quando la mano dell'uomo affascinante e misterioso scattò in avanti, abbassandosi verso il bancone sotto al quale lei ansimava in preda a sentimenti contesi tra colpa, eccitazione e desiderio, esitando per un attimo sulla ciotola delle caramelle, chiaramente un gesto per punirla di averlo fatto attendere tanto –inducendola così a credere che non l’avrebbe presa, o forse, al contrario, suggerendo possibili e stimolanti usi di quelle delizie su di lei–…la ragazza seppe che era giunto il momento.

    «E SIA! PRENDETEMI ALLORA! PRENDETEMI ADESSO!»

    E balzando in piedi si portò le mani a quello che rimaneva della sua camicetta, poi, senza esitazione, con un gemito di supplica che stava nascendole in gola, tentò di afferrare la mano dell’amministratore di Oto per condurla proprio sul suo molto scoperto decol–…

    «Chi diavolo ha messo la ninfomane alla reception?»



    A prescindere da come fosse andata la faccenda, l’ultima cosa che l'infermiera avrebbe ricordato era la voce di quella Dominatrix della sua datrice di lavoro…ah come le piaceva il suono sordo dei suoi eccitanti stivali di cuoio spesso che ticchettavano sul pavimento… quanto avrebbe voluto poter-…

    «Sedatela.»



    Non aveva nessun rimpianto.

    [...]



    Febh Yakushi (che poi, perché Oto doveva avere sempre questi nomi esotici?) non era proprio come se lo era immaginato.
    A prima vista sembrava un ragazzo di bell’aspetto... ma la “prima vista” con uno Yakushi era sempre un azzardo poco raccomandabile: se era infatti pur vero che appariva come un venticinquenne, poteva avere almeno cinque volte quell’età… e se era pur vero che appariva di bell’aspetto, il cervello non sembrava funzionargli molto bene. Come a tutti quelli di Oto, insomma.

    …E quel pensiero fu lo stesso, condiviso, che passò nella mente di tutti i presenti nella Grand Hall dell’Ospedale di Konohagakure no Sato quando una sola frase uscì di bocca al visitatore.
    Quella era l’unica cosa che non andava detta. Non a Shizuka Kobayashi. E non nel consueto periodo del mese in cui la sua famiglia faceva pressioni per vederla accasata.
    Era un errore da dilettanti, certo. Ma un errore fatale.

    “Certo che te li porti bene gli anni che hai, complimenti! Mai vista una vegliarda tanto tonica!”

    Silenzio.
    Nessuno si mosse.

    “Ero convinto fossi un’inserviente attempata, ma invece sei la Primario. Si vede che gli anni di esperienza pagano!”

    Sorridendo, Atsushi Kagure –rispettosamente fermo due passi dietro la schiena del suo Capo– annuì con cortesia dinanzi quelle che considerava sagge considerazioni. Con molta commozione guardò lo sconosciuto ragazzo moro, cui si inchinò brevemente, dopodiché però si voltò e a passo rapido e incalzante si diresse ad uno dei tavoli d’attesa della Sala. Con un gesto veloce della mano gettò a terra tutte le riviste mondane che vi si trovavano sopra, e sotto a quella pioggia di “Vanity Konoha”, “Kunoichi Moderna” e “Novella Infuocata”, capovolse il suddetto tavolo, dietro al quale si accovacciò, con le ginocchia strette al petto.
    Per qualche preoccupante ragioni molti imitarono il gesto, chi allontanandosi in un raggio di dieci metri, e chi uscendo proprio dalla Sala.

    Shizuka Kobayashi, invece, rimase immobile.
    Ferma di fronte a Febh Yakushi, la donna, dopo un primo momento di apparente esitazione, sorrise… ed era assolutamente bellissima, in quel momento. Dolce come una Dea misericordiosa e pia.
    Ma veloce come una donna. Una donna molto irritata e molto poco divina.

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    Alzando di scatto il bastone che teneva in mano, infatti, la Primario avrebbe tentato di battere il becco dell’anatra d’argento che troneggiava sul pomello sul cucuzzolo della testa del Jonin, evidentemente ignorando il fatto che questi –solo per il fatto di essere Amministratore– aveva abilità di certo superiori alle sue. I suoi occhi verdi saettarono, lampeggiando, e qualcuno disse in un secondo momento che in quelle iridi aveva potuto scorgere (seppur da distanza) un chiaro messaggio di morte.
    «Silenzio.» Ordinò, fulminea. Incredibile come avesse già eliminato ogni formalità. «Ho solo ventuno anni: sono ancora nel fiore della giovinezza. Non voglio sentirmi dare della “vegliarda” proprio da uno Yakushi.» Abbaiò, ferocemente. Per qualche ragione sentì una strana sensazione gravarle sul groppone, mentre la sua mente veniva affollata dall’ultima parola, una premonizione quasi, che sua madre le aveva urlato dietro quella mattina. Iniziava con la “Z” e finiva con la “A”, ma non era “Zucchina” dello sformato che le sarebbe piaciuto mangiare per cena… «Strano che tu non abbia imparato a rivolgerti alle donne in tutti i tuoi anni di apprendistato, Yakushi.» Osservò la dottoressa, mettendosi a quel punto a braccia conserte dopo essersi scostata con un gesto teatrale una ciocca di lunghi capelli castani dalla spalla. Alzò il mento in direzione dell’uomo, reclinando leggermente la testa di lato per poi sorridere sardonica. «…Ooooh, forse non hai mai avuto modo di scendere a patti con il gentil sesso, eh?» Stilettò dunque, impietosa. «A-ah…Brucia, eh? BRUCIA?» Ringhiò allora con orgoglio. E fu molto evidente, arrivati a quel punto, che quello era un confronto della peggior specie: due cretini che parlavano di nulla e pergiunta si offendevano da soli.
    [...] Viste le rispettive cariche di ciascuno, forse era arrivato il momento di chiedersi che diavolo stavano facendo i Kage dei Villaggi Accademici.

    Nonostante il primo incontro non fosse (forse) andato per il meglio (nonostante risultasse evidente una sorta di preoccupante affinità mentale orientata all'incomprensione e la stramberia), era chiaro che l’Amministratore di Oto non poteva essere cacciato ed era altrettanto chiaro che Shizuka avrebbe dovuto ascoltarlo. Cosa che fece con una certa perplessità nello sguardo.
    «Lettera?» Chiese infatti, dubbiosa. Esitò un instante, e alla fine parve realizzare. «Ah, ma certo, la missiva consegnata da quello strano fattorino… spero che i barbiturici che abbiamo somministrato lui per il suo problema di schizofrenia lo abbiano aiutato!» Esclamò con dolcezza la medico, congiungendo le mani in grembo. «In ogni caso, in merito a questa faccenda… temo che ci sia un equivoco: Mihoko Kobayashi –la destinataria della lettera in questione– è mia nonna paterna. Io sono Shizuka Kobayashi, sua nipote, unica Erede della Dinastia dell’Airone. La persona che volete, dunque, non sono io.» Osservò. Ricordare il testo della lettera la fece sorridere, costringendola a portare una mano di fronte alla bocca per nascondere il divertimento che poteva nascere in seno a chiunque nel capire quanto gli anni passassero lenti agli occhi di uomini immortali. «Non pensavo che un membro degli Yakushi sarebbe venuto personalmente, ad essere onesta. Avevo già avuto modo di parlare a mia nonna dell’accaduto e avevamo concordato insieme che–…» Ma a quel punto parve ricordarsi che si trovava nella Hall del suo Ospedale, e non nel suo ufficio. Visto e considerato che trovarsi nella più famosa struttura medica del continente non avrebbe già di per sé dovuto contemplare la presenza di ninfomani, schizofrenici, recidivi e corrotti, era meglio condurre l’Amministratore di Oto in un luogo un poco più “adeguato”. E offrire lui anche del tè, magari. Del resto le apparenze valevano molto nel rapporto tra Villaggi: se per prima non attuava quella verità, era inutile che insistesse a insegnarla a…
    «…quel grosso bue che mi ritrovo per Hokage.» Il sorriso di Shizuka Kobayashi si allargò nel ripetere quelle parole. Tanto da sembrare un girasole di fronte ai cocenti raggi estivi. «Vogliamo spostarci nel mio ufficio? Sarà questione di un attimo: invierò delle missive per le carovane di tessuti del mio Clan e preparerò le mie cose come rappresentante di Prima Linea dello stesso.» Propose, improvvisamente conciliante. «Credo che ci siano molte cose di cui possiamo parlare.» Fece presente. Era piuttosto curiosa la faccenda per la quale quell’uomo era il maestro del suo attuale maestro: se tanto le dava tanto, ora si spiegava molte cose. «In ogni caso non è possibile che io sia pronta in venti minuti.» Stroncò subito dopo, severamente. «Sarà mio piacere seguirti, ma dopo aver effettuato i doverosi preparativi e ovviamente dopo aver rispettato un po' di etichetta: non è di sempre ricevere la visita dell'Amministratore di Oto, messo speciale degli Yakushi. Nel rispetto tuo e del tuo Clan, è giusto che tutto sia perfetto.» Appuntò, stavolta con voce più gentile. Un po' perché iniziava a sentire gli sguardi della gente che le perforavano sulla schiena, un po' perché rammentò quello che Raizen le aveva detto l'ultima volta in merito all'educazione con i pezzi grossi del continente, e la minaccia che era seguita a quell'affermazione conteneva troppo spesso "prigioni" e "topi", tutto nella stessa frase. «Ci sono cose che devo sistemare, sono certa che capirai.»

    Una di queste, per esempio, era portarlo nell’ala opposta dell’Ospedale rispetto a quella dove si trovava il suo laboratorio. All’interno del quale Eiatsu Nai ancora dormiva un sonno indotto.

     
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