Ospedale della Foglia

[Gestionale]

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  1. Arashi Hime
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    SISTEM OF DOWN

    Give me six hours to chop down a tree and I will spend the first four sharpening the axe.



    Era così un peccato: ventisei anni, amministratore e dunque shinobi potente, tutto sommato di bell’aspetto…
    …peccato. Peccato che fosse così psicolabile.

    «Prego Yakushi-sama, da questa parte.» Disse con gentilezza la Primario, aprendo la porta del suo studio. «Che tipologia di tè desideri?» Domandò mentre entrava. Poi, esitando un secondo, annuì. «Tè verde, penso sia un’ottima idea.» Insomma, aveva deciso lei.

    L’ufficio di Shizuka Kobayashi era una stanza grande, ma talmente piena di documenti da sembrare minuscola: la scrivania della ragazza, frontale rispetto alla porta, era ingombra di pile di fogli così come il lungo tavolo di legno massello alla sua sinistra, un tempo forse adibito alle riunioni del corpo ospedaliero, ma ormai ridotto a secondo ricovero di tomi medici, rotoli e archivi che sembravano troppo vecchi anche solo per rimanere integri. C’era anche una libreria, ingombra pure quella, e poi una serie di cose vagamente inspiegabili: un castello di carte alto come un bambino di sette anni e tenuto insieme da una dose cospicua di colla, una riproduzione in miniatura della grande muraglia del Paese dei Demoni, una vasca con dentro delle alghe marimo, e un orsacchiotto con una scodella di ramen vuoto in testa. Il tutto si trovava accanto ad una specie di poltrona a dondolo su cui una copertina rosa a coniglietti giaceva sopra ad un morbido cuscino di piume.
    «I miei pazienti più piccoli, sai, i bambini...» Commentò rapidamente, indicando all’ospite una delle due sedie vuote poste dall’altro capo della scrivania dietro cui lei si trovava. Dopo un attimo di silenzio in cui guardò fisso Febh in faccia, la ragazza riprese a parlare. «Mi dispiace per la confusione, purtroppo non c’è mai abbastanza posto per ciò che serve.» Si grattò la testa, sorridendo imbarazzata. Rimaneva un mistero come potessero servire la metà delle cianfrusaglie lì dentro.

    Quale che fosse il fatto, Shizuka si sarebbe messa a preparare il tè prendendo due splendide porcellane dipinte a mano e due scatole di legno laccato da cui estrasse delle foglie essiccate e dei biscotti, che dispose su un piccolo vassoio. Benché la preparazione fosse piuttosto insipida e ben lontana da quella tradizionale, come ci si poteva del resto aspettare da un ambito ospedaliero, la donna non mancò di disporre con ordine le tazze, i fazzoletti, i biscotti e gli zuccherini colorati tipici; suo malgrado tradendo un’educazione ben più che severa la quale, nemmeno in situazioni come quelle, sembrava abbandonarla.
    «Capisco le esigenze di tempo.» Rispose educatamente, quando l’interlocutore ebbe terminato di esporre lei i problemi riguardanti l’impellenza del suo arrivo ad Oto. Se avesse dovuto essere onesta, la sola idea di mettere da sola piede in quel Villaggio, in un momento come quello, la solleticava ben poco…ma non era solo una Shinobi, era la Principessa dei Kobayashi: le sue responsabilità non si limitavano alla vita sottobanco che conduceva per Konoha.
    Chiuse gli occhi, inspirando e trattenendo l’aria per qualche istante, poi, sollevando il vassoio, si voltò verso lo Yakushi, cui sorrise. Era bella, ma come poteva esserlo una vecchia storia, benché più affascinante che stuzzicante; una dote che non mancò di accentuare mentre ritornava alla scrivania, accanto alla quale si fermò.
    «Vorrei tuttavia puntualizzare qualche accortezza: capirai che se il tuo interesse è rispettare le tempistiche della tua tabella d’impegni, sicuramente di un certo spessore per un uomo nella tua posizione socio-politica, il mio è quello di rappresentare il mio Clan al meglio delle mie possibilità, potendo dunque dirmi all’altezza di accompagnare l’Amministratore del Suono in questo viaggio.» Disse, posando il vassoio sul ripiano in legno massello per poi portarsi una mano al generoso seno ed inchinarsi elegantemente al cospetto dello Yakushi. «L’invito che la Dinastia Yakushi rivolge per questa commissione commerciale la devo presumere destinata all’Erede dei Kobayashi, sbaglio forse?» Domandò quando si fosse riportata in eretta postura. «Ne consegue che io mi reco presso Oto come Principessa del Fuoco, non come Shinobi…beh, non che faccia molta differenza, giacché le mie abilità sono assai poco note ed apprezzabili.» Osservò con imbarazzo, congiungendo le mani in grembo con fare vagamente mortificato. «Secondo quanto etichetta e tradizione vuole, quindi, considererò me e il mio Clan come Ospiti della Stirpe Yakushi. È corretto?» Chiese con educazione, sorridendo. Rimase per un istante in sospeso, fissando i suoi profondi occhi verdi in quelli neri dell’interlocutore. «Per queste ragioni, da futura Capoclan, considererò la protezione e l’ospitalità della mia famiglia affidata alle sapienti mani della Stirpe degli Immortali: il nostro servizio, il migliore mai conosciuto, per l'accoglienza antica della Dinastia senza tempo.» Puntualizzò, adagiando il dito indice della mano sinistra sul tavolo, di fronte a Febh. Sorrise ancora una volta. «Sono queste le condizioni…ho capito bene, Febh Yakushi-sama?» E quella domanda ne conteneva in sé molte altre.

    Qualsiasi sgarro nei confronti dei Kobayashi sarebbe stato addossato agli Yakushi. Ogni mancanza o pericolo cui l’Airone sarebbe stato sottoposto, sarebbe risultato un’onta per gli Immortali. La protezione e la sicurezza di ogni membro del Fuoco era responsabilità unica ed immancabile di Ogen Yakushi e chi sotto di lei militava, come Febh, amministratore e dunque rappresentante politico del suo Villaggio.
    In poche parole fare uno sgarbo ai Kobayashi o cercare di metterli in pericolo in qualsiasi modo era un errore imperdonabile che sarebbe stato pagato molto più che caro da Oto...
    ...Nonostante tutto non vi era niente di ostentato o eccessivo in quella richiesta: era dopotutto solo la prassi che chiunque conosceva, persino Febh Yakushi.
    «Per la lieta collaborazione dei nostri Villaggi.» Avrebbe concluso la donna, quando ebbe avuto modo di trovare un punto d’incontro. «Ma bando alle formalità, giusto?»

    Quando quel piccolo excursus fosse terminato, e solo dopo aver trattato per la sua giusta causa, la ragazza si sarebbe un attimo inchinata in segno di scuse e aprendo la porta del suo ufficio che affacciava nel corridoio, avrebbe creato due Cloni. Questi, una volta liberatasi dalla nube che li avvolgeva, si sarebbero divisi, ciascuno diretto in un posto diverso: uno a Magione Kobayashi –per avvertire di tutta la circostanza corrente, organizzare le carovane utili al caso da far partire quanto prima, e avvertire la dislocazione Otese dell’Airone– e uno verso l’Ufficio dell’Hokage. Qui il Clone, atteso il momento propizio, sarebbe entrato bellamente dalla finestra, incurante della burocrazia di permessi vari avrebbe parlato a Raizen.
    Di cosa, solo alla Principessa e alla Volpe era dato saperlo.

    «Un’ora e mezzo sarà più che sufficiente: ci sposteremo io e te in anticipo, le carovane dei tessuti del mio Clan arriveranno in un secondo momento.» Disse, quando richiuse alle sue spalle la porta. «Mentre ne attenderemo l’arrivo potrei presentarmi ad Ogen Yakushi-sama, se tu fossi così gentile da introdurmi.» Un modo elegante per comprovare il suo treat e offrire i propri omaggi ad una delle donne più potenti delle Risaie. Educazione, etichetta e intelligenza: niente di più. «...Ma avremo modo di parlarne meglio in seguito, a breve i miei cloni porteranno quanto mi sarà utile per il nostro viaggio d’anticipo: così non risulterai in ritardo sulla tua tabella.» Fece presente, a quel punto ritornando al vassoio di tè e –tolte le foglie in effusione– riempire le porcellane. «E dunque, hai detto di essere il maestro del mio maestro, eh?» Chiese sorridendo. Era interessata, quantomeno perché aveva saputo di un solo “sensei” di Raizen, e si diceva che egli fosse stato il peggiore Shinobi di tutto il continente molti, molti anni prima… incontrarne uno che con ogni probabilità era anche peggio, e che soprattutto era vivo, non faceva che curare maggiormente la sua ferita interiore, che la vedeva allieva di un uomo dai metodi incomprensibili e dal carattere quantomai intrattabile (dramma che aveva reso anche lei, a sua volta, intollerabile. Gli Dei avessero avuto pietà del suo futuro allievo, qualora qualcuno fosse riuscito a sopravvivere ai suoi metodi).

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    Ci fu anche un’altra cosa che Shizuka Kobayashi trovò interessante: il racconto che Febh Yakushi le tracciò per filo e per segno.
    Per un attimo la Principessa tacque.

    Tacque. E sorrise.

    La sua espressione, gentile e accondiscendente, sembrava quella di una splendida Mononoke irradiata dalla benedizione del Cielo. E persino il tic nervoso che iniziò a pulsarle sopra l’occhio sinistro alla seconda volta in cui il nome di “Kiyomi” ricorreva troppo vicino a quello di “Raizen”, sembrava una lieta espressione della sua pia misericordia.
    «…oh, è così allora.» Disse con gentilezza la Principessa del Fuoco, prendendo una delle tazze di tè e posandola di fronte a Febh Yakushi. «Una permanenza ricca di avventure, Amministratore del Suono: una vera fortuna che ci fossi tu.»

    Per qualche misteriosa ragione, la tazza esplose.

    Calò il silenzio.

    «Accipicchia.» Disse la Kobayashi, sciogliendosi in un’espressione gelidamente mortificata. Senza fretta si apprestò a prendere un fazzoletto di cotone ricamato e accerchiata la scrivania ancora gocciolante, non ci avrebbe pensato un secondo a tamponare con dolcezza il viso di Febh Yakushi qualora questi glielo avesse permesso. «Non ci sono più le porcellane di una volta.» Commentò la donna, rammaricata. Asciugando con dovizia anche le ginocchia del Jonin. «Avrò modo di far chiudere quel ceramista. Odio quando ci sono cose sbagliate in quello che mi appartiene.» Aggiunse elegantemente. «Ti prego di bere il mio tè, Yakushi-sama.» Disse a quel punto, girandosi a prendere la seconda tazza. Questa rimase intera, ma stavolta il resto delle cose che si trovò accanto alle dita della kunoichi venne violentemente sbalzato lontano, inchiodandosi al muro o spaccando una finestra, per poi precipitare di sotto. E prendere in testa un poveretto di passaggio, tanto per dire. «Mi si è chiuso lo stomaco.»

    Intanto all’Amministrazione di Konoha qualcosa esplodeva violentemente.
    Per qualche misteriosa fortuna non era un muro, stavolta.
    Era una sedia.

    «Anzi, lascia stare Raizen!» Urlava una voce femminile mentre documenti e papiri schizzavano lontano in un trambusto generale e, al piano di sotto dell'edificio amministrativo, qualcuno sospirava mettendosi una mano al volto. «Faccio da sola!!» Un ruggito. «DEFICIENTE!»

    Tanto per dire, insomma.



    Edited by Arashi Hime - 8/6/2016, 01:19
     
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