Perché non c'è altro posto a cui appartengo

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    九代目水影 - Kyuudaime Mizukage

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    Ritorno a Casa

    Dinanzi ad alte mura



    Le mura di Kiri erano sempre le stesse. Alte, inondate di acqua con un aspetto stranamente decadente. Non era una novità, Kiri era sempre stata un posto poco allegro sin da quando ci avevo messo piede. Le giornate soleggiate erano scarse, le giornate di nebbia molte, lunghe e sicuramente umide. Non era un posto caldo e accogliente, non era il più bel Villaggio sulla faccia della Terra, non era fatto di gente sempre cordiale e di buon carattere ed anzi spesso inquietanti, ma era casa. Era la mia casa, senz'ombra di dubbio. E non riuscii a non sentirmi un attimo, nel profondo del mio cuore, commosso nel vedere quelle mura che per mesi avevo dimenticato ogni giorno in un circolo vizioso senza fine che mi aveva segnato l'anima ed il corpo.



    Feci un lungo respiro, sentii l'aria umida pervadere le mie narici ed i miei polmoni. Ero a casa.





    Un lungo cappuccio mi teneva coperto il viso e non lasciavo che alcuno potesse vedere lamia faccia. Ero sempre lo stesso, anche se i miei occhi rivelavano bel altra cosa. Itai Nara era morto. L'irascibile impulsivo ninja di Kiri tanto potente quanto pericoloso non esisteva più, mutato in un uomo. Conscio di quello che era e delle sue azioni ben più di un tempo. Lo sguardo furente, che inceneriva i nemici con la sola pressione dello sguardo non esisteva più sostituito da una glaciale calma nata della sofferenza. Il dolore ti cambia, ti alleva come una madre crudele che odia il proprio figlio ed hai due scelte: arrabbiarti con il mondo e cadere in un vortice autodistruttivo che porta al nichilismo del corpo e dell'anima oppure rialzarti, voltare le spalle alla sofferenza e crescere. Sempre in bilico tra queste due condizioni alla fine ne ero uscito ed ero pronto a tornare a casa.



    I miei passi mi condussero istintivamente alla mia vecchia residenza nelle casette a schiera non lontano dalla costa. Feci per bussare ma nessuno rispose. Lo rifeci e suonai il campanello, ma quando posai il dito sul pulsante non venne nessun suono. Nessuna corrente.
    Oh caro ragazzo, qui non abita più nessuno! Sei straniero, altrimenti lo sapresti. Una voce giunse alle mie spalle a me ben nota. La Vecchia Hyo. La cara Vecchia Hyo, la nostra vicina di casa. Persino quella bisbetica problematica mi scaldava il cuore in quel momento. Ma come, non parli? Comunque dovresti saperlo, adesso la famiglia Nara vive al Palazzo del Mizukage. Non eri informato? sparii letteralmente dalla vista della donna, più veloce di un fulmine, saltando di palazzo in palazzo rapido come il vento maledicendomi per la mia stupidità, diretto verso quella che a mia insaputa era diventata la mia nuova casa.



    OhklkTc

    Il cancello del Palazzo del Mizukage non era chiuso. In giardino, ben coperte, c'erano due bambine che giocavano rincorrendosi nella più classica, smielata eppure perfetta delle scene. Ricordai quel posto ai tempi di Shiltar Kaguya: sembrava decisamente meno inquietante senza ossa e coccodrilli. Feci un passo dentro, sentendomi totalmente estraneo in casa mia e le bambine notatomi si fermarono a guardarmi. Erano cresciute un sacco, come solo a quell'età così tenera si può crescere. Chiusi il cancello alle mie spalle e con mano leggermente tremante abbassai il cappuccio, lasciando che finalmente potessero vedermi in faccia. E nei loro occhi si dipinse un misto di pura gioia e allegria, così senza riflettere corsero verso di me gettandosi senza troppi complimenti tra le mie braccia aperte. Ehi piano, piano... dissi ridendo, sollevandole da terra senza sforzo, stringendole a me come se fossero due preziosi tesori. Lo erano, dopotutto.
    Vi siete fatte grandi. Dissi posandole a terra, posando un ginocchio per tenere il viso alla loro altezza Mi sembra passato così tanto tempo, sapete? Jukyu si gettò nuovamente al mio collo, stringendomi con forza non indifferente.
    Dove sei stato?? La mamma era tanto triste, ed anche Nana, ed anche io! E capii quanto dolore avevo provocato loro. Sospirai appena, abbracciando mia figlia con tutto il calore che potevo trasmettere. Non avevo mai voluto lasciarle improvvisamente, ma al mio clone bastardo certo della sua fine non era passato in mente di non farle preoccupare a morte. Non importava più tuttavia, ero lì ed era finita. Il tempo avrebbe guarito quelle ferite. Vedi piccola, non sono stato molto bene... mi sono fatto male in una missione e dovevo guarire. Potevi guarire a casa! disse Jukyu, mentre Nana teneva lo sguardo in basso triste. Allungai una mano ed avvicinai anche lei in quell'abbraccio. No che non potevo, lo sai come divento quando sono malato! La mamma sarebbe impazzita! La mamma ti avrebbe sopportato volentieri.



    La voce di Ayame mi colpì dritto all'anima. Sentii improvvisamente gli occhi farsi caldi, bruciare d'emozione pura. Mi alzai, non prima di aver baciato la fronte ad entrambe le bambine, quindi mi ritrovai faccia a faccia con mia moglie. Era dimagrita rispetto a quando ricordavo ed i capelli erano tornati corti come quando l'avevo conosciuta. In un certo modo sembrava essere tornata indietro nel tempo, a quando le bambine non erano ancora nati e non eravamo ancora sposate. E la trovavo sempre bellissima.
    Jukyu, Nana, giocate qui un altro po', la mamma ed il papà devono parlare un attimo. Disse allora Ayame e le bambine annuirono, allontanandosi. Rimanemmo a fissarci per un lungo istante, dunque allungai una mano, come per toccarla ma lei si ritrasse. Ero una kunochi, e sono la moglie di uno shinobi. Ho auto tutto, tutto il tempo del mondo per prepararmi al fatto che tu non saresti potuto tornare da una missione...vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime e non riuscii a sostenere lo sguardo Ma mai, mai, mai ho immaginato... questo... singhiozzò e mi avvicinai a lei. L'abbracciai ma lei non ricambiò e sospirai pesantemente, sentendomi orribilmente in colpa per ciò che aveva dovuto sapere. Sapere che l'uomo che per venti mesi era stato al suo fianco, a crescere le sue figlie, nel suo letto ogni notte, non era... un falso doveva essere stato terribile.



    La condussi dentro, cercando un posto dove andare, ma mi resi conto che non sapevo muovermi nella villa. Così Ayame alla fine mi condusse nella camera da letto, dove un letto matrimoniale enorme e finemente decorato campeggiava al centro della stanza. L'arredamento non era fatto di ossa, e questo un po' mi consolava. Io... io vorrei essere felice... e lo sono... ma Itai... la strinsi a me, più forte che potevo e lei finalmente cedette, passando le braccia attorno al mio petto, piangendo tutta la tristezza che aveva in corpo.
    Non sapevo che una cosa del genere sarebbe potuta accadere. Nei miei pensieri più remoti non credevo che qualcosa del genere fosse possibile. E mi dispiace... mi dispiace non essere tornato a casa subito... sciolsi l'abbraccio Ma non potevo... ero debole, ferito... Tu e la tua stupida forza, maledetto idiota! sibilò Ayame Anche scheletrico, anche distrutto sarebbe stato meglio di mesi di silenzio!
    Amore iniziai a dire fermandole il viso rabbioso con le mani Non potevo. Non ero solo debole ero... spezzato....



    A quelle parole Ayame parve inorridire, perché tra tutti gli aggettivi che potevano essere attribuiti a me spezzato non era il più corretto. PDopo che sono riuscito a scappare sono successe... cose. Ho perso il controllo più volte, ho rischiato di trasformarmi nel Sette Code senza motivo. Di notte avevo incubi e spesso ho subito... crolli nervosi, Ayame. Ero pericoloso, ero inguardabile e non avrei messo in pericolo Jukyu e Nana per star loro vicine, e nemmeno te. lei mi prese la mano sinistra, aprendola piano, rimanendo per un attimo sconvolta.
    "Ricordati della notte del 19" lesse, sulla mia mano. La chirurgica cicatrice che mi ero procurato per darmi indizi era ormai bianca e formata, ma ancora perfettamente leggibile contro la mia pelle. Cosa è...?
    Lo vuoi sapere davvero amore? Domandai, ritirando la mano, ma lei me la prese nuovamente tra le sue. Tutto. Io devo sapere tutto.



    Sospirai, dunque mi tolsi tutti gli indumenti che portavo sulla parte superiore del corpo, rivelando tutte le mie cicatrici. Quattro sul braccio, due per ognuno, due sul petto. Ognuna delle quali recava un messaggio. Per tenermi a bada mi davano una specie di poltiglia che mi alterava i ricordi. Mi cancellava qualsiasi ricordo che avessi accumulato nelle ore precedenti e difatti sono sempre stato convinto che fosse il mio primo o i miei primi giorni di prigionia. Non credevo fossero passati venti mesi Ayame. Alla fine ho trovato un modo per ricordare e per comunicare. Grazie ai Tengu sono riuscito a segnalare la mia posizione e loro, Yogan ed un ninja di Konoha mi hanno tirato fuori di lì... è stato... mi baciò, senza lasciami terminare la rase. Un bacio dolce, lungo, ma dolce, che spesso avevo sognato in quei lunghi mesi. Si sistemerà tutto. Lo so, Itai, ma ho bisogno di tempo. Credo sia normale, dopotutto. Mi abbracciò di nuovo ed alla fine ci stendemmo sul letto, vicini come non lo eravamo da mesi, raggiunti poco dopo da Jukyu e Nana che, con l'eleganza tipica dei cinque anni si gettarono senza complimenti sul letto ed addosso a noi. Almeno loro mi avevano perdonato in fretta.






    Il giorno dopo lasciai il Villaggio a metà mattinata, dirigendomi verso il entro dell'Isola, verso il Palazzo del Daimyo. Viaggiai con Yogan, per cui fu molto breve. Il palazzo, grande e severo era protetto da numerose guardie che quando mi video parvero riconoscermi subito. Una delle due all'ingresso parlò Mizukage-sama, il Daimyo la stava aspettando. Attenda che qualcuno la scorti. disse, lasciandomi entrare nel cortile d'ingresso poco oltre le mura del Palazzo. Vedremo un po' se sarò davvero il Mizukage quando uscirò di qui. Perché a quanto pare il mio perfettissimo clone da Mizukage non aveva fatto ne male ne bene. Non aveva fatto niente, il che era forse il peggiore dei peccati.

     
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    T A R O U K I R I Y A M A

    due-chiacchiere-con-dario-tonani-L-Al3kCt



    Tarou Kirayama era un uomo di cinquantatre anni dai lineamenti del volto leggermente curvati verso il basso.
    Grandi occhi un tempo azzurri, resi opachi da una vecchiaia precoce, e una nuca squadrata di capelli brizzolati, rendevano il suo aspetto quello di un giovane anziano e gracile signore di mezza età, dallo sguardo burroso e le labbra secche.
    Essere nato per succedere a suo padre come Daimyo delle grande Terre dell'Acqua era stato un incarico che, nel corso degli anni, aveva acuito la sua naturale inclinazione all'ansia, un dettaglio che si manifestava nel suo perenne tic al labbro inferiore, che si muoveva ritmicamente senza un vero e proprio motivo, e nel movimento instancabile delle sue dita, che nei momenti di estremo stress, solitamente quelli in cui doveva dare prendere qualche decisione importante, continuavano a unirsi e poi allontanarsi, a girarsi intorno come due cani che si rincorrevano la coda.
    Cresciuto sotto l'influenza di una reputazione familiare di grande prestigio, che non lasciava spazio per nessun errore, Tarou era divenuto ossessionato dal senso, invero umano, di potersi dimenticare qualcosa. Qualsiasi cosa, soprattutto ciò che decideva o che diceva, spesso appannaggio di quello che il Concilio Shinobi voleva e non il risultato di un suo reale ragionamento. Questo si era ripercosso in una serie di prese di posizione che potessero in qualche modo aiutarlo a non cadere mai vittima della rete dei falsi ricordi: l'abitudine di appuntarsi, su taccuini di pelle di vacca, ogni cosa dicesse e ogni decisione prendesse, era una delle sue strategie più evidenti, un'abitudine da cui non poteva in nessun modo prescindere.
    Ogni qualvolta terminava uno di quei quadernetti, il Daimyo cadeva infatti in una sorta di disperato senso di smarrimento, come se il suo nido sicuro fosse improvvisamente andato in pezzi, e l'unico modo che aveva per calmarsi e non cedere a quelle crisi di puro panico che spesso gli impedivano anche di dormire, era rinchiudersi in una sala dell'estrema ala ovest del suo palazzo assieme a diversi suoi attendenti, per farsi rileggere dagli stessi fino a dieci taccuini indietro rispetto a quello appena concluso, in modo da avere sempre la mente fresca su ciò che era successo. Era persino arrivato ad assumere subordinati perché memorizzassero i taccuini ancora più vecchi e potessero, all'occorrenza, correggere sue eventuali sviste o errori... che comunque non accadevano mai.
    Un po' per questa ragione e un po' per il fatto che i luoghi troppo silenziosi provocavano lui l'instancabile sensazione di essere costantemente osservato, un altro lato del suo carattere psicotico che si era rivelato presente negli ultimi due anni e mezzo, Tarou Kiriyama era solito discutere di fatti particolarmente importanti davanti a molti dei suoi attendenti, ragion per cui quel giorno, quando fu costretto a rinunciare a quella sua abitudine per poter accogliere Itai Nara, o ciò che di lui rimaneva, il Daimyo era talmente nervoso che solo guardarlo avrebbe potuto gettare nello sconforto chiunque.
    «Nara-dono!» Esclamò l'uomo, e la voce uscì lui più nasale e squillante di quello che avrebbe voluto. Esitò, incrociando lo sguardo dello Shinobi circa due volte e si mosse poi sul posto con nervosismo. Aprì la bocca una, due e persino tre volte, ma non riuscì mai a dire niente. Solo dopo aver inspirato profondamente e aver lasciato che la sua pancetta flaccida -l'unica appendice del suo corpo che sembrava raccogliere la totalità del suo quasi inesistente grasso corporeo- avesse tremato e si fosse poi fermata; l'uomo sembrò riuscire a decidersi su cosa dire. «...bentornato?» Per la verità sembrava una domanda più che un'affermazione, ma il Daimyo parve comunque molto appagato della sua scelta di parole, e annuì con soddisfazione, sorridendo in quel suo modo peculiare per cui il suo labbro superiore si arricciava, dando quasi l'impressione che avesse un paio di baffetti di carne.

    […] La sala dei ricevimenti di Palazzo Fuyamizu era davvero splendida, proprio come si diceva: l'abbondante uso di sete e tessuti pregiati, di intagli nel legno di minuzia quasi fiabesca, e i grandi dipinti di tecnica Shodo alle pareti, davano ad intendere un'assoluta assenza di attenzione alle spese per la sua organizzazione, quanto piuttosto un'interessante devozione allo sfarzo e lo splendore.
    Il Daimyo era seduto in fondo al salone, su una pedana rialzata rispetto al pavimento di legno in cui i visitatori erano invitati a inginocchiarsi o, preferendo, a rimanere in piedi.
    Un poggia braccio corvino di legno di mogano era posto alla sua destra, di modo che lui, seduto su un abbondante cuscino di piume con quattro pendenti alle rispettive estremità, potesse non stancare eccessivamente la schiena nel mantenersi composto. Alla sua sinistra, invece, un'alzata di cristallo conteneva qualche mandarino odoroso e due dolcetti di riso.
    Come antica tradizione Giapponese voleva, la pedana del Daimyo era circondata ai lati di stole di splendidi e ricchi broccati, forse i più belli che Itai avesse mai avuto modo di vedere, e alle sue spalle troneggiava un grande paravento di bamboo, limato tanto da esser divenuto naturalmente bianco. Questo, calato fino al pavimento, conduceva alla seconda parte della pedana stessa, laddove il Signore del palazzo poteva ritirarsi per impedire che il suo ospite, solitamente sgradito in circostanze simili, non avesse modo di vederlo direttamente in volto.
    Ma queste accortezze non erano necessarie. Tarou Kiriyama conosceva Itai Nara, se non altro di fama. Almeno su quello, non c'erano dubbi.
    «Il fato è stato ingiusto, mio caro Nara-dono.» Esclamò nuovamente l'uomo, scuotendo la testa e indicando il pavimento, in cui evidentemente voleva si accomodasse il suo ospite, su cui una domestica dai lunghi capelli castani, fermati in più trecce a loro volta unite insieme, si sbrigava a posizionare un basso cuscino viola per gli ospiti, una tazza di tè bollente e una piccola alzata con qualche biscotto di alga dolce. La ragazza, che non poteva avere più di sedici anni, si sbrigò a togliere il tappino dalla tazza di porcellana finemente dipinta di Itai e dopo essersi inchinata un numero imprecisato di volte, corse a tutta velocità verso la porta scorrevole di riso azzurro. Anche troppo velocemente, dato che per poco non sbatté contro lo stipite, cosicché lei, arrossendo fino alla punta delle orecchie, richiuse dietro di sé il pannello tremando di vergogna.
    Solo a quel punto il Daimyo, che nel mentre si era appuntato la frase appena detta con grande compiacimento personale, riprese a parlare.
    «Potremmo dire che è la prima volta... che ci conosciamo?» Beccheggiò il Signore del palazzo, muovendosi nervosamente sul posto. Non sembrava molto sicuro nemmeno di quello. «Anche se ovviamente vi conosco di fama.» Aggiunse educatamente, sorridendo, e il paio di baffetti di carne fece nuovamente capolino sul suo viso prima che egli fremesse tutto. «Ma la fama non è tutto!» Esclamò infatti, con un'enfasi tale che la sua voce parve farsi decisa e cristallina in appena in un attimo. «Come un'opera d'arte la fiducia è un tesoro prezioso che merita di tempo per essere costruita con precisione e perfezione, e una volta perduta è difficile da ricreare, e non sarà mai uguale alla prima.» Annuì, e subito si trascrisse sul quadernetto, con soddisfazione, anche quella frase. «Quindi ditemi, Nara-dono, per quale ragione siete seduto ora davanti a me...?» Sembrava chiederlo sul serio, come se sinceramente non sapesse la ragione che induceva lo Shinobi a quella conversazione. «Siete qui per parlare del vostro titolo di Mizukage?» E così dicendo reclinò leggermente la testa all'indietro verso il paravento, raccogliendo le mani in grembo prima di annuire e poi chiudere gli occhi. Sospirò impercettibilmente, con flemma e grave serietà. «Ditemi, Nara-dono...» Esitò, ma poi riprese, riaprendo gli occhi e sfoggiando nuovamente una passionale enfasi che sembrava affondare le radici nella convinzione profonda di non sbagliare minimamente in ciò che stava dicendo. «...in questi due anni che voi eravate imprigionato, cosa può essere accaduto a Kiri? Il vostro “Clone” o qualunque creatura essa fosse, cosa potrebbe aver fatto?» A quel punto però parve angosciato. «Perché dovrei confermarvi in un titolo che è stato così facile togliervi e far fruttare in mano d'altri?»

    [...] Tarou Kiriyama era un uomo tremendamente insicuro. Si diceva che non ci fosse stata una sola volta, nella sua vita, in cui non avesse preso parte ad un importante riunione senza aver prima fatto leggere le stelle ai sacerdoti del tempio del suo Paese. Mai, prima di quei due anni e mezzo, aveva avanzato pretese o aveva imposto il suo potere sul volere dei grandi concili ninja.
    L'allineamento delle stelle di quel giorno, però, sembrava essere eccezionale.





     
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    Il Daimyo era un uomo strano. Non l'avevo mai visto o conosciuto prima di quel momento e molto del timore reverenziale che pareva ispirare solo per sentito dire parve svanire. Certo, non significava che non rispettassi lui e l'istituzione che rappresentava. Non significava che non comprendessi il suo potere. Semplicemente pareva più umano di quell'immutabile istituzione umana che da una lunga vita regnava senza governare il Paese dell'Acqua. Eppure eccomi lì, inginocchiato su un cuscino viola a sorseggiare dell'ottimo thè bollente pronto ad imbarcarmi in una lunga e chissà se proficua conversazione con il Daimyo. Una cosa però era certa: non era lì assolutamente per ottenere una qualsiasi cosa a mio vantaggio.



    Così lui parlò ed io in rispettoso silenzio ascoltai, ritenendo assai sensate le sue preoccupazioni. A parti invertite del resto non avrei ragionato diversamente ed anzi, sarei stato ancor più scettico e duro. Direi di sì, Daimyo-sama, questa è la prima volta che ci incontriamo. Mi rincresce enormemente per la situazione spiacevole che ci ritroviamo a vivere in questi giorni. Chinai appena il capo, salvo rialzarlo nuovamente. Posai la tazza calda sul tavolo basso che mi era stato posto davanti e dunque con gentilezza, ben attento a non far movimenti bruschi come se persino l'aria fosse di cristallo in quel bellissimo palazzo, continuai a parlare Mio signore, io non sono qui per parlare del mio titolo, ma per il bene del Villaggio e della Nazione. I titoli sono vuoti onorifici fatti per gratificare l'ego di loschi figuri se non sono usati per lo scopo primario per il quale esistono. Non mi interessa se uscito di qui sarò o meno Mizukage, purché uscito di qui si possa trovare la miglior soluzione per il bene del Villaggio. Il tono era deciso, sebbene educato. Non certo accusativo: era logico pensare alle mire personali di qualcuno ma che mi erano estranee in quel momento. Lei mi chiede cosa possa aver fatto a Kiri il mio clone questi due anni. Ho chiesto, ho parlato con mia moglie che con quel clone ha vissuto ogni giorno per due anni. Il clone non ha fatto niente, almeno che mi sia dato sapere. Non ha fatto azioni scriteriate, non ha scatenato conflitti con altre nazioni, non ha mosso guerre e non si è intromesso nella politica continentale. Mio signore, effettivamente non è successo niente.



    Feci una breve pausa, riorganizzai i pensieri e ripresi a parlare con lo stesso tranquillo tono educato privo di eccessi che pareva quasi estraneo da me Non è una cosa positiva. Non so se l'essere che mi h sostituito abbia avvantaggiato direttamente i nemici dell'Accademia, ma sicuramente l'ha fatto indirettamente. Ci sono tumulti a Kumo, Iwa e Taki. Cosa è stato fatto da parte nostra? Niente. Questo non sono io, assolutamente mio signore. Strinsi appena i pugni Mi chiedete una ragione per confermarmi il titolo. Potrei dire che Kiri sarebbe al sicuro con me, che da una vita sono impegnato a proteggerne le mura ed ad inseguire i traditori come capo della Mano Nera. Da quando ho capito sono passate poche settimane dall'arrivo del mio clone al momento della mia nomina, per cui sono stato scelto per ciò che ho fatto io, non per ciò che ha fatto... qualsiasi cosa mi abbia sostituito. L'amara verità, Daimyo-sama, è che non si può fidare di me poiché non ho mai fatto nulla e la fiducia che mi è stata accordata due anni fa dai ninja di Kiri l'ho guadagnata io e non qualcun altro. Solo questo posso dire a mio favore feci un'altra pausa Kiri non ha subito danni diretto, ma il danno del degrado e dell'immobilità. Io sono pronto a prendermi l'onere del titolo di Kage, ma non la implorerò ne la convincerò ulteriormente per questo posai le mani sulle ginocchia ed abbassai il capo nel gesto di più umile rispetto che potevo fare. Serrai gli occhi e feci un respiro profondo Vengo qui con una sola richiesta, Daimyo-sama. La prego, faccia ciò che è meglio per Kiri, qualsiasi cosa questo significhi. Se per lei significa fidarsi di me per la prima volta sarò pronto a dimostrarmi degno della sua fiducia. Se per lei significa che qualcun altro dovrà essere Mizukage, accetterò questa scelta. Kiri non può rimanere con un falso Kage ancora a lungo, mio signore.

     
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    LA C O S A I M P O R T A N T E

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    «Siete molto sicuro di voi, Itai-sama.»



    Seduto sul suo comodo cuscino di piume, il Daimyo accennò ad uno dei suoi sorrisetti. I baffi di carne si arricciarono sopra il labbro superiore, sparendo poi un istante dopo di punto in bianco, come se la sincera ammirazione che sembrava aver permeato quella frase fosse stata indotta a sparire.
    «Venite al mio cospetto elencandomi le vostre destrezze portentose come se un uomo come me possa provare piacere a sentirne parlare. Mi confermate che il motivo per cui siete stato nominato come Mizukage è la vostra indubbia capacità di proteggere Kiri...eppure è per colpa vostra se per due anni il villaggio è rimasto in mano al nemico.» I termini che usava erano prettamente militari, niente di simile a quelli tipici del linguaggio Shinobi. Com'era facile intuire vi era una formazione marziale in quell'uomo, un samurai, un signore feudale, ignaro del funzionamento e della logica del palcoscenico di vetro su cui i ninja si muovevano annegando nelle loro stesse ombre.

    Un raggio di sole inondò con timidezza convinta la Sala dei Ricevimenti, filtrando con ostinazione attraverso le finestre circolari nelle pareti, le stesse che affacciavano sui giardini della parte Ovest di Palazzo Fuyumizu.
    Le macchie di luce sul pavimento disegnavano forme geometriche complicate e di difficile incastro, scemando poi in un intricato gioco di ombre. Quando l'esangue sole di metà mattina venne divorato nuovamente da una nube, precorritrice di una nebbia che sarebbe presto calata sull'intero Paese, anche i suoi raggi sparirono, inghiottiti dalle venature del pavimento di legno su cui i due uomini erano seduti, in silenzio, fronteggiandosi in un muto diverbio mentale.
    «Siete molto convinto a voler insistere nella presa di posizione secondo la quale Kiri non ha subito danni, ma cosa vi induce a non nutrire nessun dubbio?»
    A dispetto del poggi gomito offerto lui o dalla stessa rialzata cui avrebbe potuto appoggiarsi, Tarou Kiriyama, il Daimyo delle Terre dell'Acqua, sedeva in una posizione storta che ne aggravava la già sbieca postura, portando tutto il peso del suo corpo a gravare sulla parte lombo sacrale. In effetti l'uomo sembrava godere di sedere con la schiena perennemente reclinata all'indietro, e per quanto certe volte perdesse l'equilibrio, non esitava mai a riportarsi seduto riassumendo la stessa sbilenca seduta. L'ennesima stramberia di un reticolo di paranoie dalle fattezze umane.
    «La parola di vostra moglie, forse?» La domanda ritornò ad essere posta con quel suo timbro di voce solito, tradendo per l'ennesima volta l'abitudine del Signore di mettere sempre al termine di quasi ogni sua frase una domanda di conferma, che sembrava più rassicurare lo stesso interlocutore piuttosto che esigere una reale risposta. Adesso, nella sua voce, vi era una nota di comprensione ricca di complicità. «Capisco, capisco.» Disse infatti, annuendo. «Le mogli sono un bene prezioso e insostituibile, è normale fidarsi tanto d'esse... e voi, che siete un così bell'uomo, avete scelto di averne solo una. Sicuramente la vostra sposa è speciale.» Sorrise, e ad un'attenta occhiata si sarebbe notata della timidezza quasi infantile nell'espressione di lui, arrossata, come fosse un bambino preso in contro piede a dover confessare qualcosa di grandemente amato.
    In effetti non era una novità che il Daimyo, a dispetto dei suoi cinquantatre anni compiuti, fosse da poco convolato a nozze con la sua terza moglie, una giovane Principessa delle lontane terre dell'Est dai lunghi capelli scuri e i grandi occhioni grigi. Ella, una creatura di rara dolcezza, dall'indole incredibilmente fiduciosa e amante dell'altruismo sincero, aveva accettato senza le solite lamentele tacite tipiche delle donne di quel rango di trasferirsi a Palazzo Fuyumizu con il marito due anni e mezzo prima, e subito si era fatta amare anche dal corpo domestici proprio per il suo carattere così alto.
    Un bel passo di qualità per Tarou Kiriyama, la cui prima moglie, la Signora di seggio, aveva smesso di essere la cerbiatta innocente per la quale si era fatta conoscere dopo aver dato alla luce il suo primo erede maschio. E di figli, il Daimyo, solo da lei ne aveva cinque.
    «Ma può davvero una sola donna rispondere alla verità di un intero villaggio?» Domandò a quel punto, dopo una breve pausa, il padrone del Palazzo. Il suo tono di voce era tornato fulminante. «Credete davvero di potervi trovare in una situazione per la quale non vi è dato di interrogarvi ulteriormente sulla sorte dei vostri concittadini?» E abbassando il tono di voce, aggiunse. «Ditemi, Itai-sama... siete pronto a scommettere la vita della vostra stessa moglie e della vostra progenie, senza esitazione alcuna, qui e ora?»




     
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    Le cose che mi sono care



    Ero sicuro di me? Da quando ero stato catturato molta della mia antica sicurezza era svanita e mi ero fatto più cauto e riflessivo. Un tempo ero stato molto più sfacciato e prepotente, a tratti insopportabile. Ma quei tempi erano finiti prima della cattura e la mia unica disavventura non aveva fatto che accentuare il cambiamento. Restai in silenzio e lo lasciai parlare, osservandolo di tanto in tanto ma senza ostentazione per non apparire sfrontato. Ciò che diceva era giusto: non potevo avere certezze riguardo al fatto che Kiri non aveva subito danni. Se vi erano stati in futuro forse si sarebbero manifestati ma era qualcosa che io e né tantomeno Ayame potevamo sapere.



    Le sue ultime parole giunsero quasi come un fulmine a ciel sereno ma non feci altro che chiudere gli occhi, senza battere ciglio. Perché il Daimyo non lo sapeva, ma a quella questione avevo riflettuto così a lungo e così profondamente da aver maturato una disperata consapevolezza del da farsi.




    Sono pronto.



    Lasciai quelle parole sospese in aria per un lunghissimo istante, poi parlai, perché dovevo spiegare. Perché due parole erano facili da pronunciare ma pericolose per la sua importanza ed in virtuà di tale capitale importanza dovevo riempirle del significato che gli avevo dato. Daimyo-sama, ha ragione. Mia moglie è speciale, così come lo sono le mie figlie. Ma per quanto possa essere una donna straordinaria è speciale per me strinsi nuovamente i pugni, conscio che anche solo parlarne era doloroso, ma necessario come doloroso ma necessario sarebbe stato il momento in cui avrei dovuto compiere quel gesto Una volta il precedente Mizukage mi disse che mi preoccupavo solo della mia famiglia. Che proteggevo il Villaggio solo perché dentro c'era la mia famiglia. Non ho mai avuto modo di provare il contrario, perché non mi sono mai trovato nella situazione di dover scegliere tra una persona a me cara ed il bene di tutto il Villaggio. Cosa avrei fatto all'epoca non lo so, ma ora posso dirlo, mio signore. Alzai lo sguardo verso il viso del Daimyo La mia famiglia è speciale per me, ma Kiri è fatta da molta gente. Molte famiglie e nessuna di queste è meno importante di altre: agli occhi dei nostri cari siamo importanti e speciali, ma agli occhi di tutto il resto no. Un Kage non può distinguere: deve proteggere tutti, anche la sua famiglia e non solo la sua famiglia. E se arriverà il giorno in cui sarò costretto a scegliere tra la vita ed il bene delle persone a me care e quella di tutto il Villaggio non potrò sacrificare Kiri per il mio bene. Dopo farò i conti con le mie colpe e con il mio dolore, Daimyo-sama.



    Ero partito dalla fine, non avevo ancora risposto alla sua prima domanda e l'avrei fatto in quel momento, dopo aver dichiarato con forza e sicurezza le mie più pure e veritiere intenzioni Durante la missione ho lottato con tutte le mie forze, Daimyo-sama. Non ero Kage e abbastanza poco probabilmente lo sarei potuto diventare, avevo ben altre responsabilità rispetto a quelle che il clone si è assunto. Ha ragione è stata colpa mia se Kiri è caduta in mano al nemico, ma mi sono trovato in una situazione di assoluta disperazione, svantaggiato dal territorio e nei numeri. Siamo stato distrutti e ancora mi chiedo come sia stato possibile classificare quella missione come un Grado A dinanzi a tale potere e potenza dei nemici e la sua importanza. Avrei avuto ben altri alleati se fosse stata graduata correttamente. Shiltar Kaguya è morto lì, Daimyo-sama. Comprende l'inferno che abbiamo trovato ad Iwa. arricciai il labbro superiore, ancora infastidito al pensiero di come sia stato possibile assegnare un grado così basso ad una missione così pericolosa. Ma nonostante tutte le possibili attenuanti rimane colpa mia se sono stato catturato, ma non ho agito come si comporterebbe il Mizukage perché non ero il Mizukage. Detto ciò restai in silenzio, sperando che comprendesse. Ero vero che ero il Jonin più forte del Villaggio, ma non avrei implorato di confermare quel titolo proprio a me se non ne fosse stato convinto. Volevo essere Mizukage perché potevo essere la persona più adatta a quel compito e solo gli stolti si sminuivano continuamente nel tentativo di apparire falsamente modesti. Ostentare la modestia, del resto, è da superbi.

     
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    CAPIRE LE CONSEGUENZE

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    Erano ancora seduti, l'uno di fronte all'altro, assorti nel scrutare i rispettivi volti, quando qualcuno parlò. Era una voce maschile, giovane ma quieta.
    «Daimyo-sama ho portato ciò che avete richiesto.»
    Quelle parole arrivarono alle spalle del Jonin di Kiri del tutto inattese, non annunciate, ma il Signore del palazzo non parve stupirsene e, annuendo, acconsentì l'ingresso di quello che si rivelò essere un ragazzo di circa ventisei o ventisette anni: i capelli di un biondo-bianco erano raccolti in una coda alta fermata da una striscia di cotone rigido e l'hakama blu notte, benché sobrio, era parte di un ricco corredo che recava il simbolo della casata ereditaria.
    Inchinandosi il ragazzo alzò lo sguardo, azzurro, dapprima sul padrone di quelle Terre e poi sull'ospite, cui si inchinò.
    «Vogliate scusare la mia intromissione.» Disse, riportando i suoi occhi in quelli del Daimyo. Fissi in un solo punto, sembravano essere assorti in quella direzione della Sala dei Ricevimenti.
    «Esegui solo un ordine Shoichi.» Rispose il Signore, facendo lui segno di avvicinarsi.
    Inchinandosi ancora una volta il ragazzo attraversò allora il salone, avendo ben cura di costeggiare il muro di sinistra per non passare alle spalle del nobile ospite e non danneggiare dunque la sua rispettosa persona, portandosi poi accanto al Daimyo, cui porse alcuni documenti mettendosi in ginocchio.
    Come fosse incurante del tempo che continuava a scorrere, Tarou Kiriyama valutò la documentazione effettuata e infine, dopo aver annuito con approvazione, alzò la mano destra rivolgendo al giovane uomo un gesto secco.
    «Ben fatto, Shoichi.» Si limitò a dire il Signore di Fuyumizu. «Ritirati, ora.»

    Messi ad assistere in una situazione come quella, in pochi sarebbero stati pronti a giurare che Shoichi Kiriyama era il figlio primogenito, e designato erede, dello stesso Tarou. I modi distanti, militari e autoritari con cui infatti il Daimyo trattava il giovane erano pari a quelli di uno Shogun con la propria armata, non vi era niente di paterno in lui, né uno sguardo né una parola.
    Come tradizione voleva con gli eredi di grandi responsabilità, ed esattamente come lo stesso Tarou era stato cresciuto, il Signore del Paese dell'Acqua cercava in questo modo di trasmettere al figlio il peso delle responsabilità che un giorno l'avrebbero vestito del nome di “nuovo Daimyo”.
    Senza nessuna ira o alcun disagio, dunque, il giovane uomo si inchinò nuovamente.
    «Vi ringrazio.» Disse nell'alzarsi, silenzioso e fluido nei movimenti, e così dicendo si voltò. I suoi occhi, frammenti di cielo terso e luminoso, scivolarono silenziosamente sulla pedana in cui sedeva il padre, passando sul legno del pavimento, le piantane di ferro su cui ardevano candele bianche ammezzate e infine sul paravento di bamboo, su cui si soffermò, di fronte al quale il Signore suo padre si dondolava come un bambino, appuntandosi una serie di frasi e circostanze che evidentemente non aveva avuto ancora il modo di scrivere. «Con permesso.» Aggiunse a quel punto, dopo aver scolpito i lineamenti di quell'uomo in una memoria assetata di dettagli, e subito si voltò, ritornando sui suoi passi. Educato ad una formalità impeccabile, Shoichi ebbe la premura di inchinarsi nuovamente di fronte ad Itai prima di sparire dietro la porta scorrevole di riso, che richiuse senza emettere suoni superflui.
    Per un attimo, il silenzio.

    «...Cosa stavamo dicendo, Itai-sama?» Domandò a quel punto il Daimyo. «Ah, la protezione di tutto il villaggio e non solo della vostra famiglia... ma certo, ma certo, capisco.» Annuì con pazienza. «Molto nobile da parte vostra.» Ammise dopo un'altra breve pausa, e così dicendo ricominciò a cincischiare con i fogli. La sua posizione pendente all'indietro non rendeva semplice quel compito, come dimostrarono i documenti che scivolarono più volte a destra e a sinistra del cuscino di piume, costringendo il signore ad affaccendarsi con imbarazzo intorno a quella burocrazia. «...Quindi la colpa del vostro fallimento è dell'amministrazione per non essere riuscita a classificare correttamente la vostra missione?» Chiese, e per un attimo il suo timbro di voce si fece duro e accusatorio, lontano da quello calmo di sempre, come del resto spesso accadeva. «Quindi se fosse stato già Mizukage sareste stato in grado di liberarvi?» Per un attimo parve quasi farsi malizioso. «Questo titolo che desiderate confermato sembra dare molti poteri incredibili.» Sembrò quasi volesse ridere, ma quando aprì la bocca da essa non uscì nient'altro che un suono strozzato e l'uomo ritornò subito a guardare i suoi fogli compilati. Evidentemente era un po' troppo, per una persona come lui, sfidare il proprio interlocutore in quel modo. «In ogni caso, in ogni caso Itai-sama.» Dopo aver riguardato per l'ennesima volta ogni singolo foglio in modo così accurato da memorizzarne anche la filigranatura, il Daimyo annuì seriamente. «Temo di essere costretto comunque a punirvi.»

    Tarou Kiriyama era un uomo che disprezzava prendere decisioni. Si diceva che dall'inizio del suo mandato, ereditato appena trentenne, avesse cercato di ritrarsi da quel genere di doveri quanto più possibile, affidandosi spesso in modo totale al concilio Shinobi.
    Erano talmente rare le occasioni in cui poteva dire di aver fatto valere il suo titolo che, scherzavano i cittadini di Kiri ingannando il tempo del misero mercato del villaggio, se le segnava su un taccuino tutto particolare: fatto d'oro.
    Eppure, per quanto le malizie fossero incalzanti, il Daimyo quel giorno prese una decisione, e lo fece, come ebbe modo di puntualizzare “nell'interesse del Villaggio e dell'intero Paese”.
    «Capitemi.» Stava spiegando, quasi si scusasse. «Certo, nessuno sa che chi sedeva al vostro posto era in realtà un misero falso, ma è necessario per quelle persone che invece sanno, come me e voi stesso, farvi capire che non vi può essere un dare senza un ricevere.» Visto che la frase sembrava discretamente convincente, se l'appuntò. «Devo darvi modo di ricordare che la buona volontà e l'amore per qualcosa non bastano a salvare, a tutelare e soprattutto ad impedire che il fato ormai ordito si compia. Ricordatevelo.» Era ispirato, perciò si trascrisse anche quell'affermazione.
    A quel punto, muovendosi nuovamente sul posto con nervosismo e torturandosi le mani tra di loro fino a quando l'una divenne bianca e l'altra rossa, il Signore del Palazzo si reclinò ancora un po' indietro, poi avanti, e poi di nuovo indietro. Solo allora porse i documenti al suo ospite, niente meno che facendoli volare soavemente fino a che non si depositarono autonomamente a metà strada tra lui e l'altro. «Questi sono i resoconti che firmerete: attestano la versione ufficiale dei fatti. Non vi è nessun accenno al Clone o qualsiasi altra diavoleria quella creatura fosse, ovviamente.» Puntualizzò, come fosse davvero importante. «Nei documenti che seguono vi è invece la descrizione alla vostra pena.» Dire quelle parole sembrava metterlo a disagio, quasi non fosse sicuro di ciò che stava facendo, ragion per cui, per essere sicuro di non dimenticare nulla e di non cadere in un futuro prossimo nella famosa “trappola della memoria”, il peggiore tra i mali dell'uomo, si appuntò sul suo quadernino tutto ciò che stava dicendo, parola per parola. «Siete pregato di non abbandonare Kiri nei prossimi tre mesi a venire. Vostra moglie e la vostra progenie sarà sottoposta a visite da parte dei medici Shinobi e di Palazzo di grande fiducia, per attestare la loro “reale forma”. Rapporti verranno stilati in merito a tale questione, che ufficialmente sarà archiviata come una leggera forma di “anemia”.» Dondolò ancora indietro, inclinando la schiena pericolosamente, tirando e toccando nervosamente i pendenti del cuscino di piume, che tirò dietro a sé come fosse un bambino poco amante delle formalità. Dopo qualche attimo, annuì nuovamente. «A discrezione dei verbali ricevuti voi e i vostri stretti conoscenti, compresi e non esclusi dunque i tre membri della vostra famiglia, potreste essere soggetti a controlli periodici ripetuti nel corso dei mesi a venire.» E riportandosi calato in avanti scosse la testa. «Questo è ciò che posso fare per voi, Itai-sama... per poter confermare il vostro titolo di Mizukage, accettate?»




     
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    La punizione per il Paese (?)



    All'improvviso, senza annunciarsi, entrò qualcuno. Non conoscevo certamente l'uomo giovane (mio coetaneo) che entrò lasciando qualcosa al Daimyo per poi uscire rispettosamente dopo avermi lanciato una veloce quanto curiosa occhiata. Andò via com'ìera arrivato, lasciandomi nuovamente solo con il Daimyio. Certamente aveva molte faccende di cui occuparsi, ma quell'incontro trattava argomenti segreti che era bene non si facessero sapere in giro. Chi era dunque quel giovane? Non mi azzardai a chiedere per non offendere la volontà del Signore e far sembrare che stessi cercando di comandare in casa sua, ma la cosa in parte mi preoccupò e mi infastidì. Ma lasciai correre, perché le parole successive del Nobile furono segno che aveva alquanto travisato ciò che avevo cercato di spiegare prima.
    Devo essermi espresso male se dalle mie labbra è uscita una sciocchezza così, chiedo venia mio signore feci una pausa Un uomo agisce secondo le responsabilità che ha e modula così i suoi comportamenti ed i rischi che è pronto a correre in una determinata situazione. All'epoca non ero Mizukage. per cui non ho agito da tale. Niente di più, niente di meno. Se fossi stato Kage all'epoca sicuramente molte cose sarebbero andate differentemente o forse no, non era più dato saperlo.



    Era tuttavia indubbio che accusarmi di essere la causa diretta della situazione era un comportamento fin troppo cauto. Perdere una battaglia può generare ovvie conseguenze, ma nessuno poteva immaginare una tale conseguenza probabilmente mai avveratasi prima d'ora nella storia! Quel "clone" andava ben oltre una semplice trasformazione: era la mia esistenza ed il mio sangue replicati alla perfezione. Sembrava certo di incolpare me, ma era come incolpare il bachicoltore se l'abito della dama si strappa: in mezzo vi sono una serie di altri eventi che potevano determinare la disgrazia. Come un'elezione a Kage assolutamente imprevista. Perché non punire allora i ninja che incautamente avevano creduto al clone? Semplice: la cosa andava oltre la possibile comprensione di tutti, oltre ogni possibile immaginazione per quanto sfrenata. Per questo la prospettiva di una punizione mi infastidì al punto da farmi aprir bocca: fortuna volle che la mia coscienza mi fece serrare la mandibola prima che potessi pronunciare una sola stupidaggine. Il Daimyo mi porse documenti che afferrai, leggendoli sommariamente. Un resoconto ufficiale. Che valeva quanto carta straccia, considerando quanto Raizen Ikigami già sapeva. E poi la punizione.



    Quello era troppo.



    Accetterò di buon grado la punizione, mio signore, ma lasciatemi puntualizzare alcune cose dissi senza guardarlo in viso, tenendo gli occhi semichiusi certo di quanto quelle parole mi stavano per costare Perché molte cose sono successe che voi non sapete. Di alcune di queste sono venuto a conoscenza non più di due giorni fa da un ninja di Konoha. Ma andiamo con ordine: questo resoconto sarò lieto di firmalo dissi allora, maledicendo il Daimyo mentalmente che aveva agito senza consultarlo minimamente Sebbene non ho avuto modo di dirvi che un'altra persona è a conoscenza della mia situazione. Il ninja a cui devo la mia libertà, un Jonin di Konoha che per una serie di alquanto fortuiti eventi ha colto i messaggi che faticosamente mandavo fuori dalla prigione. Per ora è stato muto ed anche se deciderà di parlare in futuro non ha prove se non la sua parola che vale ben poco rispetto alle dichiarazioni ufficiali. poi proseguii continuando La punizione l'accetterò di buon grado, mio signore. Ma non fatela diventare un pericolo per tutto il Villaggio, poiché ci sono novità importanti di cui non siete a conoscenza. Due giorni fa un ninja di Konoha mi ha raggiunto e mi ha detto che il capo della Squadra Medica, Etsuko Akuma, ha deciso di tradire l'Accademia ed il Villaggio seguendo "suo fratello". Stando alle descrizioni e sopratutto a quanto accaduto in passato posso dire senza ombra di dubbio che questo "fratello" è il Nukenin di grado B Seinji Akuma, che un tempo lo stesso Etsuko aveva aiutato a scappare dal Villaggio ridonando la vista che Shiltar Kaguya gli aveva sottratto. Le idee di quest'uomo sono pericolose e temo che possa convincere altri a seguirlo, mio signore. Egli crede in una superiorità Kiriana sugli altri villaggi e sarebbe pronto a schiacciare Suna, Konoha e Oto pur di affermare le sue idee. Non solo: ha interferito in maniera determinate sul recupero del Jinchuuriki di Suna rapito da dei Nukenin. In questo momento Kiri deve spiegazioni a Suna, Konoha ed Oto per via del tradimento di Etsuko in detta missione. Seinji Akuma deve essere fermato, quanto prima possibile. Dunque presi alcuni fogli che mi ero portato dietro: una copia del rapporto su Seinji Akuma e la copia del rapporto scritto da Atasuke Uchiha su quanto era successo nella missione. Rispettosamente li porsi al Daimyo, dunque, senza attendere una risposta domanda sempre educatamente E' possibile avere una penna, Daimyo-sama? Fimerò questi documenti seduta stante. E l'avrei fatto. Ma a quel punto la mossa che avevo fatto era chiara: stava a lui decidere se Seinji Akuma valeva il tempo di punirmi per qualcosa che difatti non avevo fatto al solo scopo di sentirsi più al sicuro oppure rischiare e terminare una grave minaccia per Kiri, o almeno provarci. Differentemente da quanto il clone aveva dimostrato io non amavo l'immobilismo.

     
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    A F F A R I

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    «Non mi sembra che stiate accettando la punizione “di buon grado” se continuate a lamentarvi.»


    C'era in Tarou Kiriyama quel genere di presunzione tipica di ogni nobile.
    Dai membri dei grandi Clan, agli eredi delle ricche famiglie aristocratiche, l'esigenza di non sentirsi contraddire rappresentava una componente non trascurabile, ma in molti casi essenziale, della personalità. Proprio in nome di questo, difficilmente il Daimyo del Paese dell'Acqua avrebbe permesso a qualcuno di opporsi a lui, soprattutto ad un semplice ninja, niente più che l'appannaggio di un'esigenza marziale più silenziosa e discreta di quella ufficiale e degna, tipica cioè del complotto e della menzogna.
    Fortunatamente Tarou Kiriyama era un uomo ansioso, restio e insicuro, ragion per cui, anziché accentuare la condanna inflitta con un'incarcerazione per oltraggio, si limitò a manifestare il suo enorme disappunto unendo la bocca in un'espressione aspra.
    «Come può essere possibile che io non sia stato messo al corrente di simili sviluppi, quando sono la più alta autorità in questo Paese?» Una domanda lecita, forse un po' troppo. «Ninja estranei conoscono la situazione, quand'io ho tenuto discrezione persino con il mio stesso figlio ed erede. Mi dite di tradimenti, incursioni e missioni imminenti di cui nessuno ha stilato rapporto e di cui non ho avuto modo di saper nulla.» Per quanto poco incline al suo ruolo il Daimyo fosse, era certamente indubbio che la sua posizione gli permetteva, e imponeva il dovere, di essere al corrente di tutto ciò che accadeva, che lui lo volesse o meno. Che egli fosse considerato un uomo di scarsa inclinazione era irrilevante se paragonato ai suoi obblighi, come gli attendenti incaricati di leggere lui ogni documento giornalmente, testimoniavano. Che dunque niente di tutto ciò fosse arrivato al suo orecchio, era senza dubbio oltraggioso.
    Muovendosi nervosamente sul posto, ondeggiando pericolosamente all'indietro fino a quando non diede l'impressione di cadere, l'uomo rimase a quel punto in silenzio per diverso tempo. La schiena inclinata, gli occhi chiusi e le mani raccolte in grembo, instancabilmente alla ricerca l'una dell'altra, davano di lui l'impressione di un piccolo buddha di carne e ossa. Fu solo dopo quella lunga pausa di riflessione che, finalmente, l'uomo si riportò seduto in modo corretto e annuì.
    Adesso nella sua espressione vi era una quiete maggiore, come testimoniò il suo sorriso placido e l'espressione di serenità smaccatamente tranquilla.
    «Capisco le priorità di un Paese quando vengo messo di fronte ad esse.» Esordì, ditanziando le mani che si posarono ognuna sul proprio ginocchio corrispondente. «Per quanto poco io possa intendermi di questioni del mondo di cui voi fate parte, Itai-sama, comprendo l'urgenza di una simile questione. Eppur tuttavia non posso trattare la vostra punizione.» Dire quelle parole sembrava metterlo a disagio in un modo particolare, come se sapesse con certezza assoluta che fossero quelle giuste, ma dopotutto si sentisse in imbarazzo a pronunciarle. Vi era in effetti, in quell'uomo, una sorta di binomio caratteriale certe volte addirittura preoccupante. «Mantengo l'ordine della vostra presenza a Kiri per tre mesi, le visite periodiche della vostra famiglia e di voi stesso, e mi permetto di aggiungere vostri rapporti mensili firmati e sottoscritti cosicché tale incresciosa situazione, quale quella che mi vede ignorante delle stesse vicende del mio Paese, non accada più...ma Avrebbe alzato una mano per mettere a tacere ogni tentativo di replica del Jonin, o semplicemente per darsi un'aria più solenne di quanta probabilmente la situazione gli attribuiva. «Concederò voi, Itai-sama, un permesso speciale per dirigervi laddove tale Seinji Akuma, e suo fratello, si trovano. Solo lì e in nessun altro luogo, pertanto per quanto riguarda l'organizzazione che suppongo vi serva, prendete provvedimenti nell'ambito del vostro Villaggio. Vi permetterò inoltre di creare il vostro gruppo, composto da membri fidati di cui pretendo di conoscere l'identità e, a mia discrezione, anche la loro persona. Stilerete un rapporto, e di ritorno continuerete la vostra pena.» Si dondolò un altro po' sul posto, sospirando sonoramente come un corno rotto alla base. A quanto pareva non aveva intenzione di controllare i documenti offerti lui, quasi non gli interessasse. «Una penna, avete detto?» Disse poi, esitando perplesso. «Non possiedo simili stramberie, ma sarò ben lieto di offrirvi un calamaio e una piuma.» E così dicendo, voltandosi verso il paravento e rovistando qui e là tra le sete pregiate che di fronte ad esso sostavano, estrasse una boccetta di inchiostro nero come la pece e una lunga piuma di pavone. «Sono sicuro che ci troveremo bene a collaborare... Mizukage-sama»




     
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    Il dolce sapore della libertà

    Il Quarto Mizukage



    Sorrisi. Un placido sorriso appena accennato, un sottile pensiero di trionfo pensando a quanto aveva ottenuto, che era più di quanto avessi osato sperare. Certo non avrei scommesso sul fatto che uscito di lì sarei stato Mizukage: la situazione era complessa ed alla fine, nonostante le continue e fastidiose malizie mi avevano innervosito, volevo davvero solo il bene di Kiri. Ma non m'importava: il Daimyo non si era mai realmente interessato della politica Militare del Villaggio e non avrebbe iniziato in quel momento. Un uomo vecchio è restio al cambiamento ed i vecchi nobili erano ancorati al passato come una montagna al suo basamento. Presi la piuma ed il calamo e senza esitazione o una parola firmai i documenti che mi aveva messo davanti, accettando così tutti gli obblighi cui mi aveva sottoposto. Ed alla fine alzai il viso, deciso, rendendomi conto solo in quel momento che ero il Quarto Mizukage di Kiri, ufficialmente.
    Ne sono certo, mio signore Finché ti comporterai come ti sei sempre comportato: lasciando fare ad altri ciò che devono fare. Quel pensiero restò ovviamente inespresso.



    Così mi alzai, consegnando al Daimyo i fogli siglati dopo aver dato tempo di far asciugare l'inchiostro e parlai Entro breve manderò i messaggi agli altri Villaggi, non appena saprò i nomi di coloro che parteciperanno a questa spedizione ne sarà immediatamente informato, mio signore. E dopo tutti i rituali ed i rispettosi saluti lasciai il palazzo, diretto verso Kiri, pronto a scontare la più dolce delle pene. Restare nel mio Villaggio, con la mia famiglia, a recuperare quel tempo perso e che nessun Kami mi avrebbe mai potuto restituire.





    Quando tornai in casa Ayame leggeva un libro sdraiata su un divano. Non riuscii a cogliere il titolo dell'opera. Jukyu e Nana erano chissà dove nel Palazzo intente a giocare. Rimasi per qualche secondo a fissare mia moglie dall'uscito della porta sentendo ancora grave la nostalgia che non si placava mai. Ehi mi disse lei, accortasi della mia presenza, sorrisi appena senza dir nulla, sedendomi però sul divano. Sei stato licenziato allora? Domandò, mettendo via il libro. Feci no col capo e fece uno scherzoso sospiro di sollievo Bene, traslocare è una seccatura! Mi ha punito Dissi improvvisamente, senza però riuscire ad evitare un sorriso. Punito...? E perché? E cosa? strinsi le spalle come a dire "e che ne so" Evidentemente lo fa star meglio con la coscienza. E devo stare almeno tre mesi a Kiri...e mi avvicinai ad Ayame che non riuscì a trattenere una mezza risata divertita. Dilettante, non sa che tua moglie te ne ha affibbiati il doppio.



    La baciai. Ci sarebbe stato tempo per affrontare il discorso di Ame e prima di quello avevo altre settimane di pace dinanzi a me.

     
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    L' A M O R E.

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    Itai Nara era un traditore.
    Carnefice nei confronti del suo stesso villaggio natio, cui aveva voltato le spalle preferendo la fuga, era giunto a Kiri, che aveva reso la sua nuova casa. Per questo, in molti, avevano dubitato di lui.
    Il processo di riabilitazione del suo nome era stato lungo, in molti casi pietoso e certo non privo di sofferenze, ma dopo anni di dedizione e instancabile fiducia era finalmente riuscito a convincere tutti che il suo cuore risiedeva ora al Villaggio della Nebbia, ottenendo in questo modo la più stimata resa indietro mai vista prima: il titolo di Mizukage.
    Non era infatti importante cosa sarebbe successo, Itai Nara agiva veramente sempre nell'interesse del suo amato Villaggio.
    «E' un buon Mizukage.» Affermò Tarou Kiriyama, annuendo compiaciuto. I fogli firmati dall'oggetto di quell'affermazione giacevano lui in grembo ordinati. Il silenzio della stanza ormai vuota era incantevole come lo poteva essere l'atmosfera di una fiaba appena iniziata. «Si vede che ci tiene davvero molto al suo villaggio.» Continuò il Daimyo, sorridendo. Vi era in quel sorriso una forma di timidezza rispettosa e ammirata che poche volte si era rivelata durante il colloquio. A quanto pareva l'uomo provava, nei confronti del nuovo Kage, una stima sincera.

    Il sole, proprio come lasciato presagire durante le ore della mattinata, si era del tutto rannuvolato, costringendo alcune delle cameriere ad accendere tutti i lumi del Palazzo. Solo nella Sala dei Ricevimenti, per far sì che questa rimanesse illuminata in modo distinto, vi erano decine di candele bianche, la cui fiamma tremava sui piedistalli inondando con la propria luce le pareti della stanza.
    Ancora seduto sul suo ampio cuscino di piume il Daimyo sospirò, scuotendo la testa, cui si portò una mano. Parlare per così tanto, essere sottoposto ad un simile impegno gravoso, provocava in lui un pesante senso di disagio e stanchezza che non era sicuro di poter alleviare neanche riposando durante tutto il resto della giornata. Rabbrividì.
    «Penso che andrò a dormire.» Annunciò infine, dopo essersi convinto che l'unica cura alla sua fiacchezza poteva essere appunto il sonno.

    «Hara... siete così stanco, mio nobile signore?»



    La voce che si delineò nella stanza era femminile, bassa, suadente come il canto di una creatura tradizionale narrata nelle storie della notte. Il timbro era talmente abituato a parlare a impostazione leggera che il tentativo di alzare il tono gli causò un leggero tremore, che pur tuttavia il Daimyo non poté considerare che incantevole. Come sempre, del resto.
    «Oh Fuji-san... se non fosse stato per voi lo sarei molto di più.» Rispose l'uomo, sospirando. Le spalle precipitarono verso il basso sotto il peso di una frustrazione visibile e lui, dopo essere rimasto qualche istante a ciondolare, si portò di nuovo con la schiena pericolosamente indietro, verso il paravento alle sue spalle, riprendendo a dondolare su se stesso come innumerevoli volte aveva fatto durante il colloquio.
    «Il mio signore è troppo gentile nei riguardi di una donna come me, come potrei mai esservi stata di aiuto?» Chiese in risposta la voce, ridendo con cristallina gioia, quasi infantile, mentre il Daimyo si riportava seduto correttamente e si voltava. Il paravento si mosse.
    «Fuji-san, la sola vostra presenza, il modo in cui mi spingete a riflettere su questioni a cui altrimenti non avrei prestato attenzione, e la vostra incredibile capacità di suggerirmi quelle parole che vorrei dire ma che non riescono mai a giungere alla mia bocca in tempo...» Gemette Tarou, allungando debolmente una mano verso la cascata di bamboo chiari, ma subito la ritrasse, imbarazzato. «...siete indispensabile per me, vi prego di credermi. Da quando ho voi al mio fianco anche affrontare impegni come quelli di oggi non risulta più uno spaventoso onore.» Esitò. «Mia nobile sposa, vi prego... solo per oggi, potreste...» Insinuò, senza però terminare la frase. Nella sua voce non vi era più l'impetuosa enfasi che lo aveva spinto alla conversazione di quella giornata.
    «Il mio amato signore non deve supplicare per vedere il volto di sua moglie, è mio grande piacere poter vedere i vostri occhi su di me.» Rispose la voce dopo una breve pausa e solo a quel punto, con una lentezza quasi angosciante che indusse il Daimyo a trattenere il respiro, il paravento di bamboo si alzò. Le liste orizzontali ben limate e laccate si sollevarono da terra, arricciandosi le une sulle altre fino a quando della decorazione del soppalco del signore non vi fu più traccia.
    Lì dietro, seduta sulle ginocchia, vi era una splendida donna.
    I lunghi capelli di un castano color polvere di cioccolato cadevano lisci fino a toccare il pavimento di legno, incorniciando con il taglio tipico delle Principesse di nobile rango, un volto ovale dalla carnagione di un adorabile rosa pesca. Grandi iridi grigie illuminavano zigomi alti e delicati, e due sottili labbra scarlatte sorridevano con affetto e una punta di malizia in direzione di quell'uomo che sembrava incantato come un viandante da una Mononoke.
    Prima ch'egli dicesse qualsiasi cosa la donna aprì un ventaglio dipinto a mano di fronte al suo volto, trattenendosi una manica del grande e meraviglioso kimono di epoca Heian con la mano libera. Dietro di lei, ancora intenta a fermare il filo del paravento ad un piccolo chiodo nel muro, vi era una domestica dal viso inespressivo e una crocchia ben fatta di mossi capelli neri.
    «Oh, Fuji-san...» Gemette Tarou Kiriyama, incapace di trattenere il moto di ammirazione e profondo sconvolgimento che una visione talmente splendida suscitò in lui.
    «Il mio nobile signore è diventato un uomo degno di rispetto.» Rispose la donna, e i suoi occhi, dietro il ventaglio, sorrisero. «Valutate le decisioni del concilio Shinobi, prendete impegni e doveri degni del vostro rango... e tutto da solo, non vi sentite incredibile, mio signore?»
    «Ma Fuji-san, senza di voi io non sarei che...»

    Per tutta risposta la donna si inchinò, interrompendo così il parlare del padrone del palazzo.
    «Una donna è solo una donna, mio Signore. Niente più che il vanto di un ego maschile.» I capelli le ricadevano attorno alle spalle abbassate come un velo da sposa. «E' l'uomo il padrone di ogni cosa, è lui che manda avanti il mondo con le proprie decisioni... il mio Signore è sempre troppo buono con me. Non merito tanto apprezzamento.»
    Quelle parole furono pronunciate con suadenza e servilismo e andarono a colpire quella parte dell'indole maschile sensibile all'ammirazione delle donne, ma soprattutto, nel caso di un nobile, quell'antro della propria personalità che rispondeva ad una vanità tipicamente autoritaria, propria di chi può prendere decisioni in grado di cambiare un'intera nazione.
    Dopo averci pensato con attenzione e per un lunghissimo momento di silenzio, alla fine Tarou Kiriyama parve arrivare alla conclusione che si, aveva proprio ragione lei: aveva fatto tutto da solo... dopotutto le donne, sono solo donne. Oggetti nelle mani degli uomini.
    Fantocci da gestire a proprio piacimento.
    «Credo di aver fatto una grande cosa ad aver promosso Itai Nara al titolo di Mizukage.» Sentenziò allora il Daimyo, tronfio di orgoglio, sventolando con soddisfazione i fogli firmati in giro. «Ora ho tutto ciò che mi serve.» Esclamò, annuendo con vigore.
    Di fronte a lui, ormai ritornata a busto eretto, la donna tacque. Dietro il ventaglio laccato, in cui splendidi fiori si intrecciavano ad un fiume che scorreva allegro, i suoi profondi occhi grigi sorrisero.
    «Avete ragione, mio Signore.» Rispose, trattenendo una risatina entusiasta di, si sarebbe detto, estrema ammirazione. «Abbiamo tutto ciò che ci serve.» E così dicendo tornò ad inchinarsi con profonda riverenza.

    […] Si diceva che Tarou Kiriyama avesse sviluppato negli ultimi due anni e mezzo tendenze di psicosi maggiori rispetto al passato: la sensazione di essere sempre osservato, che gli impediva di rimanere solo, oppure il vizio di dondolarsi all'indietro fino quasi a cadere a terra.
    Colmo di una tarda ma sempre apprezzata tendenza a compiere finalmente il suo dovere, si diceva anche che avesse cominciato a prendere decisioni, con enfasi e passione, e che non ci fosse niente ormai che riuscisse a farlo crollar d'animo.
    Era la gioia del matrimonio quella. Così almeno si vociferava.
    ...In effetti non era una novità che il Daimyo, a dispetto dei suoi cinquantatre anni compiuti, fosse da poco convolato a nozze con la sua terza moglie, una giovane Principessa delle lontane terre dell'Est dai lunghi capelli scuri e i grandi occhioni grigi. Ella, una creatura di rara dolcezza, era una colomba nelle mani di un Dio. Si diceva che il suo carattere fosse talmente adorabile che fosse riuscita a farsi amare da tutti in davvero pochissimo tempo...

    Aah. L'amore.




     
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