Isamashii koi no densetsu

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    Nuota Controcorrente







    Dalle mura in realtà non di diresse direttamente al daimyo, non poteva farlo.
    Per quanto la faccia di bronzo del Colosso fosse sufficientemente grande da poter oscurare il Sole c’erano cose che neanche lui poteva fare a cuor leggero.
    Necessitava di un lungo percorso di purificazione prima di quell’incontro, sia esteriore che interiore.
    La prima perché non poteva recarsi dalla più alta carica del paese conciato con la divisa da lavoro e la seconda perché doveva essere in pace col mondo esteriore, ogni sua fibra muscolare sarebbe stata alla prova, non tanto per la mera prestanza fisica, materia in cui ormai era laureato, bensì per via del risultato che ogni contrazione di quelle fibre avrebbe scaturito.
    Aveva commissionato alla sua preparazione un intera ala termale, dietro lauto pagamento gli venne infatti dedicata un attenzione che lui stesso non aveva mai avuto nei confronti del proprio corpo. Basandosi sulle altre persone che incontrava tutti i giorni non si reputava un uomo sporco, faceva la doccia a giorni alterni ed aveva la cura di lavarsi sempre dietro le orecchie, ma pareva che quel consiglio da mamma fosse alquanto superato nei ceti più alti a cui sedevano le persone di un certo rango.
    Aveva richiesto delle donne per quel compito, non che volesse unire l’utile al dilettevole, ma era convinto –a buona ragione, aveva sempre pensato- che le donne avessero istintivamente più cura e sapienza per quanto riguardava l’igiene personale. Ogni millimetro del suo corpo venne bagnato, strofinato col sapone e risciacquato, più di una volta, pareva che in quelle terme utilizzassero particolari saponi che avevano disperse delle sabbioline leviganti al loro interno utili a lisciare la pelle ben più di quanto una semplice spugna non potesse fare e con una delicatezza che lui stesso trovò piacevole, per quanto effemminato quel piacere potesse essere.
    Si limito a chiudere gli occhi, facendosi sballottolare qua e la dalle mani professionali delle donne, professionali a sufficienza da toccarlo senza quasi farsi sentire, tenendo i battiti del suo cuore su soglie ben inferiori al livello di eccitazione. Un talento non da poco a pensarci bene, visto che dovevano passare a stretto contatto parecchio tempo.
    Alla fine del trattamento la sua pelle era così liscia che toccando il suo stesso corpo aveva la sensazione di accarezzare una persona diversa, le sue stesse mani erano state private dei calli con ripetuti ammolli e svariati strumenti di taglio e levigatura di cui neanche conosceva o ipotizzava l’esistenza.
    Si guardò più di una volta dapprima direttamente, poi mediante l’utilizzo di uno specchio, c’era ancora del lavoro da fare, e non lo si poteva negare, ma quelle donne stavano quasi portando l’orologio indietro, cancellando ogni segno che il suo lavoro aveva impresso sul suo corpo. Restò in silenzio per dei lunghi secondi prima di sedersi stranito davanti al suo riflesso, sentiva la necessità di scusarsi con se stesso per ciò che era diventato: una macchina dedita alla guerra e così distante dalla vita da non riconoscersi più quando questa gli si ripresentava davanti indossandolo come vestito.
    Si era fatto del male, e per quanto difficile gli fosse ammetterlo forse quel comportamento faceva del male pure agli altri. Autismo emotivo autoindotto, così avrebbe chiamato ciò che il tempo aveva fatto alla sua capacità di far comprendere agli altri cosa pensava realmente, anche se forse era solo una conseguenza del mondo che lo circondava, una deformazione professionale impossibile da non acquisire. Era vittima di se stesso.
    Mentre rifletteva ad occhi chiusi gli vennero tagliate e pulite le unghie, ridimensionate le pellicine delle mani e dato quello che chiamavano impregnante, una sostanza dal colore acre che non lucidava le unghie come gli smalti, ma le rendeva naturalmente lucenti, una roba da frocetti che rendeva le sue mani simili a quelle degli imbrattacarte che tanto odiava.
    Il grosso del lavoro doveva ancora giungere, pareva che la sua pelle una volta levigata sembrasse troppo grassa, per cui avrebbero trovato una giusta lozione anche per quello e mille altri problemi che lui neanche sapeva d’avere.
    L’ultimo passaggio erano i suoi capelli, anni di incuria vennero trattati con una maestria che pareva fosse irradiata di pura magia, ogni singolo capello venne lisciato e nutrito di oli essenziali per poi essere accuratamente lavato con dell’acqua mediante la quale venne allineato a tutti gli altri, avevano un luogo speciale per quell’operazione, qualcosa di simile ad una sorgente in cima ad uno scivolo in cui dovevano essere disposti e pettinati i capelli, in modo che fosse l’acqua a stenderli. A trattamento finito i capelli avevano una forma, ricadendo dritti e perfetti lungo le spalle fino alla schiena.
    Mentre le pulitrici, così aveva scelto di chiamarle, si prendevano cura del corpo, le sarte si occupavano di misurargli il corpo per l’unico kimono da cerimonia che avesse mai indossato: nero nella fodera esterna, blu scuro in quella interna, fino al bianco del colletto. Un kimono comodo non troppo stretto che gli calzava come un guanto, molto più adatto ai suoi movimenti poco dediti all’etichetta a cui un kimono con delle perfette proporzioni classiche avrebbe litigato.
    Avrebbe indossato anche gli Hakama, pantaloni giganteschi che gli ricordavano quelli che indossava nella sua divisa ninja, anche se questi ultimi erano in scala decisamente ridotta e quelli appena indossati avevano un impercepibile trama ad esagoni che ne movimentava impercettibilmente la tessitura.
    Completò la vestizione con l’Haori, il capo più bello che i suoi occhi da cafone avessero mai visto, del tutto differente dagli abiti indossati fino a quel momento, semplici ed austeri detentori di una bellezza riscontrabile esclusivamente nelle pieghe perfette dei vestiti, possedeva un fine disegno in filigrana dorata che raffigurava un cielo cosparso di nuvole dorate solcate dalla storia della carpa che diventava re dragone.
    Fili così esili da diventare quasi indistinguibili da una certa distanza tra i tenui colori che animavano quel nero cielo.
    Aprì gli occhi solo a lavoro concluso, osservando la sua figura mentre cercava di abituarsi a quella visione, in modo da riuscire a muoversi bene sotto la sua nuova pelle, come un attore che studiava il copione.
    Diffidenza.
    Questo mostrava la faccia di Raizen mentre si guardava, non sembrava tanto se stesso quanto uno dei grandi generali del passato immortalati nella dura pietra, il suo volto rasato e riordinato appariva ora più simmetrico del solito conferendo alla sua espressione una durezza marziale che prima rivaleggiava con la sua fastidiosa ironia. Gonfiò il petto con un respiro muovendo il primo passo nell’indecisione, facendolo seguire dal secondo e in quello slancio di fiducia da un terzo ed un quarto in una camminata che scoprì fluente, i kimono maschili a quanto pareva erano nettamente più comodi dei femminili, almeno considerando dalla sua libertà di movimento e quella che palesava Shizuka.
    Si muoveva bene, ed anche lo specchio non la pensava in maniera poi tanto diversa a quanto pareva, non appariva ridicolo, anzi, seppur non fosse perfetto pareva che il suo corpo avesse un ancestrale attitudine a quegli abiti.
    Nel conto esoso di quella specie di SPA era compresa anche la piccola carrozza monoposto che gli avrebbe permesso di ultimare il viaggio senza rovinare i suoi abiti perfetti.
    Ciò che indossava prima venne accuratamente piegato e riposto in un pacchetto, che a confronto del vestiario attuale sembrava il fagotto di uno straccione.
    Quando la carrozza si fermò sapeva che l’aveva fatto perché giunta sulla soglia della magione del Daimyo, e la mole di pensieri che tratteneva fino a quel momento riuscì finalmente a demolire la diga faticosamente sostenuta fino a quel momento.
    Perché era li?
    Perché la carpa stava risalendo il fiume?
    Perché da così tanto tempo nuotava controcorrente?
    Il Colosso per Konoha aveva sempre nutrito sentimenti contrastanti, inizialmente vedendosi accolto da essa come un proprio figlio la sentì madre e non potè che volergli bene, ma col tempo arrivò alla sua adolescenza da ninja, reputando che le sue regole e quelle dell’accademia gli stessero fin troppo strette arrivando ad ambire l’azzeramento totale come nuove fondamenta per una nuova era.
    Ma era passato tanto tempo, e l’adolescenza era lontana, ora desiderava unicamente il bene della foglia, sopra ogni altra cosa. Era stufo di vedere il suo villaggio in mano a dei poveri inetti che occupavano la sedia più alta del villaggio con lo stesso spessore decisionale di un cartonato.
    Konoha stava lentamente morendo grazie a loro e lui voleva interrompere quella spirale discendente, ma aveva bisogno dell’autorità per farlo.
    E con essa sapeva bene che non poteva guadagnarsi il benvenuto dei cittadini, soltanto per via del cappello che avrebbe indossato, ma col tempo l’avrebbe guadagnato, o almeno così sperava, altrimenti si sarebbe limitato a trasformare Konoha nel più duro diamante presente nelle nazioni ninja.
    Aveva un obiettivo, e non avrebbe tradito ne la sua nazione ne se stesso.

    Sono Raizen Ikigami, sono qui per il mio appuntamento con Kazutoshi Murasaki-sama.

    Disse alla guardia senza alcun indugio.
    Quando e se fosse stato accompagnato all’interno si sarebbe guardato attorno cercando di capire come fosse strutturata la sicurezza di quel posto.



    Edited by F e n i x - 23/3/2015, 02:25
     
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