Isamashii koi no densetsu

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  1. Arashi Hime
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    Palazzo Kayoutei

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    Palazzo Kayoutei era una delle più raffinate espressioni di ingegno architettonico del Paese del Fuoco.
    Articolato secondo una geometria dedalica di corridoi e stanze ad incastro mutabili in ampiezza e prospetto, la sua mappa seguiva il disegno di un'antica scacchiera di Go tradizionale, famosa per la difficoltà nel raggiungere la Sala del Daimyo, il quale, si diceva, non si poteva incontrare senza essere un abile stratega. In effetti pareva che chiunque si avventurasse presso quella magione senza la benedizione di un'intelligenza imprevedibile e un'arguzia ricca di scaltrezza, rischiasse di perdere tutto ciò che rendeva un uomo meritevole di tale appellativo: fama, dignità e potere...
    ...ma questo accadeva solamente per gli ospiti indesiderati, i quali, nella maggior parte dei casi, non avevano il tempo di comprendere il tranello dietro la geografia di quel Palazzo senza essere prima catturati dalle guardie di tutela e protezione. Addestrati personalmente dal Daimyo stesso, famoso combattente del Fuoco e veterano di combattimenti e intrighi politici, nessuno dei membri del corpo di guardia di Kayoutei era infatti carente d'abilità e dedizione. E questo, Raizen Ikigami, lo avrebbe capito solo dal modo in cui i due uomini che lo accolsero all'entrata del Palazzo ebbero modo di guardarlo.
    Immobili nelle loro leggere ma impenetrabili armature nere e rosse, in cui un drago si impennava ribelle stringendo in una zampa un fiore viola intatto, i due uomini batterono a terra la loro lancia quando il Jonin della Foglia si presentò al loro cospetto, lasciando poi che i loro occhi, la cui espressione sembrava quella di una fiera acuta e attenta, scivolassero su di lui, guardandolo in un modo che pareva attraversarlo; attraversare l'immagine ricercata e l'espressione equilibrata, fino a giungere, con invadenza, oltre tutto ciò. Diversi in colore e forma, in età ed esperienza, i due sguardi che lo Shinobi si sarebbe ritrovato a fronteggiare erano abbastanza caustici da dare in lui la sgradevole sensazione di non avere più nessun segreto... eppure bastarono pochi istanti perché l'espressione dei due guardiani cambiasse e si facesse d'improvviso diversa: gentile l'una, pacata l'altra.
    «Benvenuto a Palazzo Kayoutei, Raizen Ikigami-sama.» Disse la prima delle due guardie. Entrambe si inchinarono brevemente.
    «Susumu-sama sarà immediatamente da voi.» Affermò la seconda, e in effetti l'“immediatamente” di cui il guardiano parlava era abbastanza incalzante da non dare lui neanche il tempo di riportarsi in posizione marziale. Prima che entrambi i guardiani riacquistassero la loro postura frontale e ben eretta, con gli occhi puntati avanti e velati da quel tipo di stasi sospesa tipica forse del ruolo che ricoprivano, un uomo si delineò infatti sulla pedana rialzata da cui iniziava la conformazione del Palazzo. A separarlo da Raizen erano solo cinque metri di squadrate mattonelle di marmo nero di un'anticamera esterna considerevolmente ampia.
    «Con umiltà e sincero apprezzamento vi auguro il benvenuto presso Palazzo Kayoutei.»
    L'uomo indicato con il nome di Susumu non poteva apparentemente avere più di quarantaquattro anni. Alto e snello, vestito di un hakama scuro e austero, presentava una propensione caratteriale all'essenzialità già visibile nel sintetico e formale messaggio di benvenuto che aveva offerto, e che si confermò ulteriormente nel riverente inchino offerto all'ospite, privo però di quelle moine eleganti ma inutili in un certo senso tipiche di quel genere di etichetta.
    «Il Daimyo vi aspetta. Mi permetto di darvi le spalle, vi prego di seguirmi.» Disse a quel punto l'uomo, rialzando la testa e puntando i suoi occhi marroni in quelli scarlatti dell'interlocutore. Aveva un viso regolare dai lineamenti però affilati e, come si sarebbe presto accorto il Jonin, la completa e totale capacità di muoversi senza emettere il minimo rumore. Non sarebbe bastata tutta la percettività del mondo per avvertire una capacità tale.
    A dispetto della poco pregevole sensazione che un individuo del genere poteva forse offrire, Susumu si rivelò essere una guida premurosa, paziente delle tempistiche dell'ospite e attento a non condurre lo stesso presso i corridoi esterni che affacciavano sugli sconfinati giardini sempreverdi della magione, giacché la giornata poco soleggiata –in verità gravida di pioggia a meno che di un futuro e auspicato recupero– avrebbe probabilmente potuto arrecar fastidio. Attento, accurato e soprattutto esperto della geografia del palazzo abbastanza da guidare il Jonin, con una sapienza effettivamente prodigiosa, lungo una via in cui non incontrarono nessuna delle domestiche che si potevano però avvertir camminare nei corridoi subito paralleli, o precedenti, o laterali –e in cui dunque, a dispetto di una guardia ogni cinque metri, non furono mai disturbati– Susumu parlò poco, non si girò intorno quasi mai, ed ebbe ben cura di non chiedere le ragioni che inducevano quell'individuo a desiderare un'udienza al Signore del Paese del Fuoco. Non era niente di cui avrebbe dovuto curarsi, niente che il Daimyo stesso non potesse gestire da solo, e fu chiaro che i suoi pensieri fossero questi quando, fermandosi di fronte ad un'ampia porta scorrevole a doppio battente, l'uomo si inchinò nuovamente.
    «Raizen Ikigami-sama è qui, mio Signore ed unico Padrone.» Disse Susumu rimanendo immobile dietro le porte chiuse. Da dentro la sala che si apriva oltre queste ci fu un breve silenzio, un piccolo rumore e poi l'imporsi di una voce ampia e baritona, profonda come il gorgoglio di un drago.
    «Fallo entrare, Susumu.» E l'attendente, inchinandosi ancora una volta, si limitò a quel punto solo ad aprire uno dei due battenti, scivolando indietro e lasciando passo libero al Jonin della Foglia.

    Il salone che si sarebbe mostrato era grande abbastanza da contenere cento o più persone.
    Estesa in lunghezza e con un pavimento tatami di raro bamboo bianco, la sala presentava una ricchezza artistica raffinata e attenta molto diversa dall'austerità delle porte esterne, e che si esprimeva con dipinti su tela di riso di paesaggi naturali e raffigurazioni storiche tradizionali.
    Avanzando in linea retta, l'unica a disposizione, lo Shinobi di Konoha avrebbe potuto notare un affresco alla sua sinistra di un prospetto boschivo, grande abbastanza da coprire un intero muro, e due battenti di riso alla sua sinistra, altrettanto variopinti, che affacciavano però su un'altra stanza. Vuota.
    Il soffitto, aperto su due livelli, era a cassettoni, ognuno dei quali accoglieva il dipinto di un fiore e di una pianta, delineati ciascuno con una tale premura di dettagli da fa impallidire la realtà. Arabeschi in oro incisi a mano dividevano ciascuna opera e arricchivano le altre, ma il Jonin si sarebbe presto reso conto, arrivando a metà della lunga sala –in cui due porte aperte e altrettanto splendide spezzavano quella continuità frontale– che tutto ciò era niente in confronto all'ultima parte del Salone, lì dove si apriva la parte prettamente riservata al Daimyo, e in cui le pareti divise in raffigurazioni rettangolari e verticali, davano la più realistica impressione di trovarsi in un libro d'altri tempi.
    Eppure, in tutto quello sfarzo ostentato, Kazutoshi Murasaki sembrava fuori luogo.
    Alto abbastanza da poter rivaleggiare sguardo nello sguardo con lo stesso Raizen, il Daimyo del Fuoco si sarebbe rivelato imponente come il Re Dragone delle leggende, e massiccio come una montagna di marmo. Il torace ampio e i muscoli ben delineati a dispetto dell'età, sessanta o sessantacinque anni circa, si alzava e abbassava seguendo una catena di respiri profondi e ritmici, forse troppo marziali e tonanti per un kimono come quello indossato, di pura seta viola e dunque assai pregevole. Persino il volto, per quanto caratterizzato da un'espressione interessata e arguta, sembrava la rappresentazione di quello di un gigante: squadrato e dalla mascella scolpita, sopracciglia folte leggermente ricurve verso il basso, naso gibboso come se in passato fosse stato rotto e rimesso al suo posto con poca cura, e la carnagione bruciata dal vento e da lunghi anni passati all'esterno, davano di lui l'impressione di un uomo che avrebbe potuto fare tutto nella vita... tranne forse il ricco e nobile Signore.
    «Questa roba lascia sempre tutti con la tua espressione, la prima volta.» Disse improvvisamente l'uomo, e un sorriso che sembrava più il ghigno sarcastico di un lupo si dipinse sul suo volto; benché tuttavia non vi fosse malizia in quell'espressione, lo si sarebbe potuto capire dagli occhi, sempre che qualcuno avesse avuto il coraggio di guardarli, ovviamente... «Ho poco interesse in questa celebrazione, tutta roba che si distacca molto dalla concretezza che tanto apprezzo. Ad esempio, aver visto quanto brillano queste dannate pareti ti ha reso forse più ben disposto o più irritato nei confronti di me e di questa circostanza che il nostro fato ha ordito?» Chiese alzando una mano che gesticolò di fronte a sé. Ampia e nerboruta, cicatrizzata in più punti e callosa laddove si era costruita la leggenda di un maestro di lama senza pari, il Daimyo rise gutturalmente, sconquassando la quiete del luogo. «Direi di no. Non è che ora non affronteremo il motivo per cui sei qui e ci delizieremo a guardare i dipinti e commentare le sculture, o si?» Ironizzò, lanciando un'occhiata affilata al Jonin. Per quanto egli non avesse ancora avuto modo di presentarsi, pareva che il Signore del Palazzo avesse già capito che genere di individuo egli fosse, quasi fosse possibile riconoscersi tra uomini di valore. «A mio avviso un posto vale un altro fintanto che la compagnia è irreprensibile, ma quando hai un certo ruolo l'etichetta e tutta questa roba qui cominciano ad avere un peso... non curartene e accomodati, ti prego.» Disse, aprendo un palmo in direzione del cuscino piatto che sostava a qualche passo di distanza di fronte a Raizen. Mentre egli avesse avuto la premura di accomodarsi come gli era appena stato suggerito, la porta scorrevole in fondo alla sala si sarebbe di nuovo aperta silenziosamente, lasciando entrare quattro ragazze vestite tutte del medesimo kimono puntinato che, senza un rumore in più rispetto a quelli concessi, si sbrigarono a servire tè e frutta fresca già sbucciata e tagliata ai due uomini. «Preferivi del buon sake?» Domandò il Daimyo. Scevro dell'austerità molesta e ostentata di gran parte degli aristocratici sembrava non biasimare quella domanda, ma quasi riporvi dentro una certa aspettativa. «Quest'acqua calda che profuma di fiori ed erba piace un sacco alle donne, le mie due mogli non fanno che acquistarne in quantità irragionevoli, ma ho sempre difficoltà a ricordarmi perché dovrei berne di continuo come loro sostengono. Gli Dei siano clementi... sono ancora in perfetta salute.» A quel punto avrebbe guardato per un lungo istante la sua tazzina e la morbida frutta matura che gli era stata servita, quasi sperasse che il contenuto della pregiata porcellana dipinta a mano potesse mutare e il piatto riempirsi di qualcosa che prevedesse l'uso dei denti, ma qualora lo Shinobi non avesse desiderato un qualsiasi cambio non avrebbe ordinato alle domestiche di fermarsi.
    A dispetto di ciò che ci si sarebbe aspettati da un Signore tanto potente, infatti, Kazutoshi Murasaki era un uomo tranquillo e ben disposto verso il mondo come solo chi aveva in precedenza odiato quello stesso mondo poteva essere.
    Sopravvissuto ad innumerevoli complotti che avevano attentato alla sua giovinezza, era cresciuto in un campo d'addestramento mangiando carne secca e gallette di riso umide, e per quanto la morte dei suoi sei fratelli maggiori lo avesse scosso, infliggendogli quel genere di demotivazione verso l'umanità che l'adolescenza non può che acuire, non si era ritratto al suo dovere quando era stato investito, appena ventenne, del ruolo di Daimyo. Abituato a pensare da solo, ad andare contro ciò che era lecito considerare “giusto” pur di mantenere l'ordine e la giustizia che solo un uomo intelligente e retto come lui poteva vedere, aveva accettato le sue responsabilità con le spalle dritte e lo sguardo puntato in avanti, facendosi carico dei suoi rifiuti e delle sue promesse senza l'appoggio che gli sarebbe spettato.
    Era divenuto uno stratega per la sua stessa sopravvivenza, un lungimirante falco per quella delle sue spose e dei suoi figli, un contrattatore per la pace del suo Paese, uno spietato giustiziere per l'equilibrio di tutto questo insieme.
    Aveva visto la morte molte volte durante la sua vita, e non era necessario guardare la cicatrice scura che gli solcava la mascella destra dall'orecchio al mento per capirlo. Vi era qualcosa, nei suoi occhi azzurri come il mare, che ricordavano al suo interlocutore che posto orribile e spietato fosse il mondo in cui vivevano... e di quanto, dunque, fosse necessario mantenere la pace.
    Una pace di rispetto. Comprensione. Ascolto.
    Una pace costruita per il bene proprio e quello altrui. Una pace che mai nessuno avrebbe dovuto minare, e sulla quale nessuno avrebbe dovuto imporsi, proponendosi come il salvatore che non era...
    C'era questo e molto altro in Kazutoshi Murasaki, il Daimyo del Paese del Fuoco, e solo in quel momento Raizen Ikigami avrebbe capito che quello che aveva compreso era solo la punta di una profondità imprescrutabile che però finiva con l'aprirsi al cielo. Come fosse questo cielo, però, dipendeva probabilmente da lui.
    «Che sia ciò che sia, in ogni caso.» Disse infine il Signore del Palazzo, alzando lo sguardo in quello dell'interlocutore. «Raizen Ikigami. Hai chiesto udienza.» Affermò l'uomo, e così dicendo si batté una grande mano su un ginocchio. Era seduto a gambe incrociate, con la base del busto ben piazzata sul pavimento nudo e la schiena eretta di chi è abituato al suolo anziché alle piume. «Cosa ti induce a valicare metà del Paese per incontrarmi?» E ghignando aggiunse: «Spero non questi maledetti dipinti.» Ma era ovvio che non lo credesse.

    Anche se, capire davvero cosa egli pensasse, non sembrava essere possibile ad umana mente.

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