Isamashii koi no densetsu

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  1. Arashi Hime
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    Cancrena

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    Seduto a gambe incrociate sul nudo tatami di bamboo bianco, il Daimyo del Paese del Fuoco ascoltò le parole del Jonin che aveva chiesto lui colloquio senza ribattere nè interrompere.
    Carpì e fece propria ogni parola, e spazzando via dalla sua mente tutto ciò che di superfluo vi era in quel momento iniziò a comporre la scacchiera su cui avrebbe giocato quella partita: quella del destino del suo Paese.
    Chiudendo gli occhi, l'imponente Signore posò nella ciotola quasi vuota l'ennesima striscia di carne affumicata che aveva preso per sé e congiunse i polpastrelli della nerboruta mano destra con quelli della sinistra, facendo poi pressione. Le vene e i nervi delle braccia pulsarono e si allentarono, pulsarono e poi nuovamente si allentarono, e così diverse volte... sufficienti perché il Re Dragone riacquistasse la padronanza della scacchiera politica disposta nella sua mente e finisse di disporvi tutti i pedoni che sapevano essere in gioco.
    Fu solo dopo qualche minuto che rialzò lo sguardo. I suoi occhi blu oltremare si posarono in quelli scarlatti del Jonin, e adesso erano diversi. Ancora una volta diversi.
    Lo aveva chiamato ed egli era arrivato: l'abile stratega, Kazutoshi Murasaki.

    «Non hai alcuna possibilità, Raizen Ikigami.»
    Non era una domanda o una commiserazione, era un'affermazione. Una sentenza che schioccò come una frusta nella sala dei ricevimenti facendo tremare le pareti di una realtà rimasta fino a quel momento serena.
    «”Konoha è marcia”, hai detto...si, lo è.» Disse con una semplicità che si faceva carico di una consapevolezza molto più greve. «Avete permesso ad un Nukenin di grado A di attaccare il vostro villaggio, di scoprire tutti i suoi punti deboli... e avete lasciato che fosse una sola Genin ad occuparsene. E' quasi morta per proteggere un villaggio che non l'ha ascoltata, mentre tutti guardavano e non intervenivano, aspettando ordini che non sono mai arrivati.» Sentenziò, gelido. I suoi occhi adesso erano due lame affilate. «Un Bijuu è stato liberato dentro le vostra mura dopo che la sua forza portante è stata rapita da una kunoichi del vostro stesso villaggio, appartenente ad una cerchia terroristica di cui voi non sapevate neanche l'esistenza. Vi siete ridotti ad accettare l'aiuto di un Nukenin. Avete avuto perdite, distruzione, Keita Kitase è morto, Hayate non è stato trovato, e in tutto questo a partecipare, a muoversi in protezione del villaggio, eravate solo in nove. In nove Ripeté sprezzante. La sua bocca si contrasse, snudando i denti in un'espressione di disgusto. «So chi sei, Raizen Ikigami. Siete chiamati “eroi”, ora.» Pareva sarcastico. «E' in nome di questo titolo che sei venuto qui per chiedere di diventare Kage?»
    Tacque.
    Le sete del pregiato kimono viola notte si mossero assieme al Signore di Palazzo Kayoutei mentre questo cambiava posizione e invertiva l'ordine delle gambe incrociate a terra.
    Non parlava con rabbia o con veleno, come molti non avrebbero avuto esitazione a pensare mossi dalla paura, ma si dimostrava piuttosto affilato e conciso seppur coinvolto, come era giusto che lo fosse un membro di quel disegno che sembrava ormai essere sfuggito di mano a troppe persone. Era caustico nella sua precisione. Sapeva perfettamente dove puntare il dito e sapeva che il punto in cui la pressione fosse stata apposta si sarebbe immediatamente aperto riversando sangue e pus, perché la ferita del Villaggio della Foglia era ancora aperta, e nel suo essere aperta era ancora infetta. Purulenta. Cancrenosa.
    Sporgendosi in avanti, il Re Dragone strinse una mano a pugno e la sbatté sul tatami, che quasi vibrò sotto quel colpo. Gli occhi del Daimyo, adesso, erano ardenti.
    «La vostra Konoha è talmente marcia che Shika Nara è stato eletto senza che io lo approvassi. Senza che io ne sapessi niente. Sono stato scavalcato con la stessa plateale arroganza con cui adesso tu vieni al mio cospetto “ridonandomi” con gentilezza il mio potere.» Tuonò, scuotendo la sala. La presenza di quell'uomo iniziava progressivamente a farsi sempre più imponente, abbastanza grande da riempire ogni angolo intarsiato di quel luogo di pregio e ad assalire la presenza di Raizen Ikigami, schiacciandolo verso il pavimento: era il Re Dragone quello che il Jonin della Foglia stava fronteggiando, ora, non Kazutoshi Murasaki. «Potevo farvi guerra. Oppormi. Distruggervi.» Sorrise, ma quell'espressione parve più un ghigno di lupo. «Konoha è nelle mie Terre, e se credete che la mia conoscenza sia estranea alle dinamiche Shinobi siete stolti tanto quanto dimostrate di esserlo. Non sono incapace di fronteggiare le vostre risorse. Non lo sono mai stato. Nè io nè chi mi ha preceduto.» Non era una minaccia, quella, ma una constatazione. Il casato Murasaki, al contrario di molte altre nobili famiglie aristocratiche che avevano fatto della loro posizione privilegiata un motivo per ritirarsi dal campo di battaglia, era sempre scesa in battaglia accanto ai ninja della Foglia quando il caso lo aveva richiesto. Ogni membro di quella famiglia sapeva combattere, ma le loro reali abilità erano state rivelate solo durante l'ultima grande guerra, quando il loro contribuito si era radicato nella mente degli shinobi che avevano partecipato senza però lasciare nessuna traccia nelle relazioni ufficiali... «Vi ho dato la possibilità di un'indipendenza che si allontanasse dal mio veto perché la morte di Ayato aveva destabilizzato troppo la vostra condizione politica interna. Ho voluto credere nel vostro discernimento perché da esso nascesse il fiore di fuoco che un tempo era l'orgoglio del mio Paese. Ma avete fallito.» Sentenziò, impietoso.
    Il suo pugno, la cui carnagione cicatrizzata e bruciata dagli agenti climatici di una vita passata a fronteggiare il mondo aperto, era tirata abbastanza da rivelare le pulsanti vene che battevano a ritmo scandito, ma incalzante, del cuore del Signore del Fuoco. A dispetto di poco prima, in cui la bonarietà di quel Daimyo avrebbe potuto essere accogliente quanto la rimpatriata con un vecchio amico, adesso l'espressione d'egli era il ritratto della maschera di una fiera acuta e attenta. I suoi occhi guardavano il suo interlocutore, ma sembravano attraversarlo, andando oltre ciò che egli si imponeva così faticosamente di mostrare. E in un attimo Raizen Ikigami fu nudo di fronte al giudizio.
    «Tu non hai speranze, Raizen Ikigami. E non le hai proprio perché il tuo villaggio è così marcio.» Ruggì gutturalmente il Re Dragone, gelido. «So chi sei Raizen Ikigami. So tutto, di te. So ciò che non vuoi dire e so riconoscere quando ciò che dici è menzogna. Per questo capisco che le tue intenzioni sono sincere... ma sei solo, riesci a capirlo? Non hai nessun appoggio, né alleato. La tua posizione interna a Konoha non è così apprezzata, conosciuta e ben voluta come dovresti invece sperare che sia perché la tua nomina non risulti l'ennesimo rigurgito di un malato infetto. Vuoi combattere la battaglia di riforma di un intero Villaggio senza nessuno al tuo fianco?» Ghignò, ironico. «La forza di voi due non basterà. Non è una riforma che si fa con la forza, quella che vuoi tanto intraprendere, ma una pulizia che scende ad un livello più profondo, quello dell'animo e della mentalità di un'intera popolazione. Ti serve mente e ingegno, non forza bruta. Ti servono occhi e orecchie. Ti servono persone di cui ti puoi fidare come ti fidi di te stesso.» E a quel punto, riaprendo il pugno che teneva premuto a terra, fece scorrere il nerboruto dito indice lungo una linea retta, come se stesse spostando qualcosa. «La tua pedina ha fatto una mossa, Raizen Ikigami. Una mossa interessante, certo, ma se gli altri pedoni rimangono alle tue spalle, non hai speranze. Il Re è sempre l'ultimo che esce dalla sua posizione, perché se cade lui, il gioco è finito...sai come funziona, no?»

    E così dicendo, aprì di scatto le dita della mano, che sbatté nuovamente sul tatami, bloccandosi.
    La scacchiera parlava chiaro. E la scacchiera di Kazutoshi Murasaki non sbagliava mai.

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