Giusto prima di partire

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  1. -Meika
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    Giusto prima di partire

    L'ora delle risposte (e delle sorprese inattese).



    Alla fine avevo tenuto fede alle mie promesse, una volta tornata a Suna rimasi lì a dare una mano per quanto mi era possibile. Le notizie riguardo quanto accaduto nel campo profughi erano a dir poco sconvolgenti e l'emergenza era esplosa con un nuovo carico di feriti gravissimi a seguito del subdolo attacco dei Kijin. I bambini erano stati usati come trappole. Condannati a morire per sferrare un attacco a sorpresa in uno dei quattro Villaggi Accademici.
    E le conseguenze erano state devastanti dal mio punto di vista. Così tanto orrore non l'avevo mai provato in vita mia, ma probabilmente per come andavano le cose nel mondo avrei dovuto farci presto l'abitudine: era tutto un intenso vortice di violenza apparentemente senza fine e se quell'assurdo attacco non era stato isolato allora scene del genere si sarebbero ripetute. Ed avrei dovuto essere più forte di come mi ero dimostrata quei giorni.

    A Suna mi offrirono una polverosa stanza nel villaggio, ma preferii una tenda senza pretese nell'accampamento. Ogni sera, dopo intere giornate passate a scorrere la gente in condizioni più o meno critiche seguendo gente ben più esperta di me ed aiutando laddove potevo, mi ritiravo nella mia tenda e non riuscivo a dormire per ore. Pensavo, assalita dai più disparati pensieri, a tutta quella sofferenza ed al perché si stava generando così rapidamente. Non ero certo il tipo di persona che non dormiva la notte per cercare di risolvere i problemi del mondo (la mia sensibilità si fermava ben prima di una così estesa empatia quasi universale), ma quella tragedia di proporzioni quasi immani mi diede l'occasione di pensare più e più volte a mia madre. Non riuscii a capire il motivo che collegava gli accadimenti di Suna con mia madre e perché continuasse a tornarmi i mente ed a togliermi il sonno, finché una mattina mentre ero impegnata a curare a più riprese una brutta ferita infetta di una anziana donna non giunsero nella tenda due persone. Un uomo sulla quarantina che teneva in braccio una piccola bambina di otto anni, scura di capelli come tutta quella gente, dai grandi occhi dolci colore dell'oro. Poi compresi: era l'ancestrale necessità di sapere e capire che cosa fosse davvero successo a mia madre. Perché era la mia famiglia. Un legame indissolubile, nato dal sangue, che vedevo ogni giorno nella sua massima espressività fondata sul dolore della tragedia. Per questo non riuscivo a dormire se non quando il cielo iniziava a rischiarire, per questo decisi - una volta tornata a Kiri - di partire per Taki, alla ricerca di mia madre, di informazioni, di lei o della sua tomba. Di qualcosa.

    Pensai a quello per tutto il viaggio di ritorno a Kiri. Non sarei potuta partire immediatamente, dovevo stare qualche giorno con mio padre. Poi non dovevo dirglielo assolutamente: avrebbe disapprovato enormemente. Lui, del resto, aveva seppellito la mamma quando l'avevo fatto io ma al contrario di me non aveva udito le parole dubbiose dell'Uomo in Nero pronte a minare qualsiasi certezza. Non solo mio padre, nessun altro avrebbe dovuto saperlo. Taki era un posto pericoloso e chiunque avesse deciso di mettersi in viaggio con me avrebbe rischiato la propria vita per problemi che non erano i suoi. Quando misi piede sulla terraferma, nella mia cara e nebbiosa Kiri, seppi di esser pronta a partire nuovamente di lì a breve e tutto era pronto ormai.

    Mi avvicinai alle mura del villaggio, aspettandomi le solite porte spalancate e nessun controllo all'ingresso e mi sorpresi nel vedere cambiamenti in corpo e le solide mura ben chiuse. Aggrottai le sopracciglia, incuriosita e mi avvicinai ad una delle guardie, sventolando una mano dal basso. Ehi! Ehi! strillai. La guardia mi lanciò una rapida occhiata dunque si affacciò. Era una ragazza dai capelli scuri che avevo visto altre volte alle mura in passato. Vaghi ricordi mi dicevano che doveva chiamarsi Hikari. Oh, avvicinati alla porta se vuoi entrare! rispose la ragazza.
    Sono Meika Akuma, sono tornata a casa! Le state rimettendo in sesto? Sì! Il Mizukage ha nominato un Genin come guardiano e si sta rifacendo tutto per bene ora. Una buona notizia. Chi è il fortunato? Akira Hozuki. Lo conosci?

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    ... Stava scherzando? Dovetti trattenere una risata. Non perché ritenessi Akira inadatto al ruolo, o per essere preciso lo ritenevo estremamente inadatto per quanto competente. Aveva fatto arrabbiare qualcuno per ottenere una tale punizione? Posso parlargli? domandai. Hikari annuì.
    Dopo un po' le porte si aprirono ed io balzai dentro, respirando l'umida aria di casa. Dunque presi le scale diretta verso l'apice delle mura. Akira non era lì, Hikari mi disse di proseguire verso sinistra e così feci. Notai la zazzera disordinata di colori bianco-blu del ragazzo ad una certa distanza. Mi avvicinai con uno scatto, fermandomi quando lo raggiungi.
    Sono tornata ora da Suna. Quando ho saputo che ti avevano messo sulle mura ho pensato ad uno scherzo. Dissi con un tono appena ansimante e divertito. Chi hai fatto arrabbiare, eh? Dissi poi, con una certa malizia nella voce, tirandogli un debole pugnetto sulla spalla.
    Non c'era altra spiegazione, del resto. Akira doveva aver fatto qualcosa di molto sbagliato, perché conoscendolo un pochino si poteva comprendere che mettere l'Hozuki a guardia delle mura equivaleva a mettere un leone in gabbia. Una gabbia molto stretta, del resto.


     
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    Giusto prima di partire

    Ho fatto solo del bene


    Una giornata come le altre sulla mura.
    Come tutti i giorni, come sempre. Non accadeva mai qualcosa di interessante, mai un brivido o un'emozione in quel posto.
    L'odiavo con tutto me stesso, e la noia mi stava facendo impazzire. Erano passati ormai già diversi giorni da quando avevo assunto quell'incarico, rientrato dalla missione a Suna e, successivamente, dalla mia ricerca a Taki. Avevo fatto solo del bene al mio villaggio, ed adesso mi ritrovavo relegato a sorvegliarlo. Anche l'entusiasmo, per quanto forzato, dei primi giorni era già scomparso: infatti, dopo aver intrapreso qualche iniziativa degna di nota, come ad esempio un'importante opera di ristrutturazione e fortificazione di tutta la imponente cinta muraria e del grande cancello stesso, e quindi essermi occupato di dare gli input ai lavori, la mia azione di comando si era praticamente fermata. Oltre a far controllare i carichi mercantili giornalieri di ingresso e uscita ai villaggi, non c'era nient'altro da fare, quindi passavo il tempo a passeggiare lungo la cinta... E pensare.
    Pensavo a quel che avevo fatto e a quello che avrei dovuto fare da lì a poco. Mizukami doveva essere ancora riforgiata, ma erano ben altre le mie prime preoccupazioni. Le mie gite, sia a Suna che a Taki, mi avevano fatto capire quanto potessi essere debole per il mondo. Un piccolo granello di sabbia in un grande deserto di guerrieri. Non ero ancora in grado di utilizzare le capacità del clan di mio padre, e l'arte della spada che praticavo sarebbe stata definita ridicola da anche il membro più giovane del clan di mia madre. Certo, Mizukami mi attendeva ancora, ma mi stavo incominciando a chiedere quanto potesse essere utile una spada di quel potere e importanza nelle mani di un disgraziato come me.
    Molto poco, probabilmente.
    Dovevo crescere, dovevo migliorarmi. Se fossi stato più forte avrei potuto fermare Ishiken dall'uccidere quel povero bambino. Se fossi più forte, avrei potuto fare di più per Kiri. Le mura, in tutto questo, non mi avrebbero aiutato in alcun modo.

    Fu proprio in quell'istante che sentii un veloce susseguirsi di passi provenire dalle mie spalle. Mi girai annoiato, già pregustandomi la scena di una delle guardie che mi veniva a chiamare per avere una qualche conferma su un qualcosa di completamente inutile, ma finalmente mi dovetti ricredere su quella giornata, che per lo meno non era come le altre: Meika era tornata.
    « Meika! » Esclamai ad alta voce, felice e sorridente. « Sei tornata finalmente! Non ti vedevo da un sacco di temo ormai, quasi mi mancavi! » In verità mi era mancata eccome. « Purtroppo no, non è uno scherzo... » Sbuffai, evidentemente scocciato. « Ed il bello è che non ho fatto arrabbiare nessuno, anzi... Ho fatto solo del bene, comunque... » Sviai il discorso, visto il divieto di parlarne con alcuno impostomi dal Mizukage. « Come stai? Purtroppo mi avevi lasciato come un uomo libero, e adesso ti trovi davanti un carcerato... Non puoi proprio capire che scocciatura questo posto, ma purtroppo gli ordini sono ordini. » E gli ordini esistevano per essere disubbiditi.
    Per fortuna.


     
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  3. -Meika
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    Giusto prima di partire

    Drammi (inutili) Drammi



    Se c'era una cosa che Akira mi aveva sempre trasmesso era un'innata capacità teatrale con la quale riusciva a trasformare persino le semplici promozioni quali erano quelle in una terribile punizione che prevedeva una lenta e costante tortura psicologica. Certo, quel compito poteva essere noioso ma certo aveva un qualcosa di assai onorevole insito. Così, alla fine, ascoltando le sue parole feci un lungo (ed un po' rassegnato) sospiro.
    Scherzavo eh! Capisco che sei frustrato a restar qui, ma c'è chi vedrebbe un onore la fiducia che hai avuto. Gli lanciai un'occhiata divertita. Certamente qualcosa in lui doveva sentirsi onorato, ma la frustrazione provata superava qualsiasi barlume di onorabilità gli fosse rimasta dentro.
    Poggiai le mani contro le mura, guardando verso il mare. Una ventata di fresca brezza mi colpì in viso, scompigliandomi i capelli scuri. Come andava? Inun attimo l'allegria provata nel rivederlo svanì al vento del mare che proveniva da occidente, protando con se tutti i ricordi di quei giorni difficili ed i pensieri.
    Ed i miei progetti.
    Potrai chiedergli... mi ritrovai a pensare Non è stato facile a Suna, ho dato una mano finché alla fine la situazione si è normalizzata. Non ho mai visto così tanta disperazione tutta in un luogo. Non posso chiederglielo. È troppo pericoloso. Però alla fine, quello che si poteva sistemare è stato sistemato. Inoltre sta alle mura adesso, sicuramente non potrà andarsene così facilmente. Oh, certo, sicuramente lo vorrebbe fare assai rapidamente!
    Fermai il flusso di parole e di pensieri ed un silenzio cadde tra di noi. Era una di quelle situazioni quasi classiche in cui il susseguirsi delle parole era stato interrotto prima di giungere alla conclusione e l'ascoltatore le attendeva in religioso silenzio che l'altro terminasse. Provai più volte a dire qualcosa, ma ancora non riuscivo a figurare cosa dire.
    "Ehi, guarda che io presto partirò per una gita a Taki, zona pericolosa, in cui è altamente sconsigliato infiltrarsi, per cercare informazioni su mia madre! suonava folle e ridicolo. Una patetica richiesta di aiuto sottointesa che non riuscivo ad esprimere a parole: sapevo di non poterci riuscire da sola ed allo stesso modo sapevo di non poter chiedere aiuto a chicchessia.
    Io... iniziai a dire, continuando a guardare il mare attraverso la perenne foschia che avvolgeva Kiri. Non posso restare a lungo. Ho bisogno di risposte, ci ho pensato così tante volte questi giorni da non aver dormito la notte. Strinsi le dita sulla pietra delle mura, sentendola ruvida al tatto. Strinsi più forte, sentendo il dolore fisico che scomparivo in mezzo al mare di dubbi che sentiva dentro, troppo debole per colmarlo e farmi provare qualcos'altro che non fosse una eterna ansia senza fine.
    Credo che tra qualche giorno partirò di nuovo. Per trovare mia madre, o la sua tomba. Mi voltai un attimo a guardarlo, cercando di nascondere (malamente) gli occhi lucidi.
    Avevo passato la fine della mia infanzia e tutta la mia adolescenza con la certezza che lei fosse morta. Il fatto che potesse essere viva mi riempiva di rabbia: se era viva dov'era? Perché aveva lasciato Kiri? Perché si era finta morta persino con suo marito! Ero certa di volerla rivedere, se era viva. Non ero certa di volere che tornasse indietro però.
    Ma non preoccuparti cercai di sorridere, ma ciò che me uscì fu solo una specie di imitazione malriuscita. Non resterò via a lungo, altrimenti mio padre si potrebbe preoccupare e se si preoccupa diventa paranoico e solo i Kami sanno quanto mi rimbeccherebbe per questa storia se dovesse venire a saperla.
    E pregai che capisse di star fuori da quella storia, perché se si fosse ricordato che a Taki dovevamo andarci insieme, non avrei saputo dire di no. E se gli fosse accaduto qualcosa, allora, non avrei saputo mai perdonarmelo.


     
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    Giusto prima di partire

    Meglio se non da soli


    La ragazza che avevo davanti non era la stessa che avevo lasciata poche settimane prima a Suna.
    Qualcosa la disturbava nel profondo del suo animo. Le atrocità della guerra, la disperazione di un popolo, tutte ferite che sicuramente non si rimarginavano in fretta. Ma qualcosa di ben più profondo si era impossessato del cuore di Meika; una sorta di preoccupazione, uno stato di contrasto interiore la affliggeva. La Akuma si appoggiò con entrambe le braccia alle mura, fissando il mare in lontananza. I pensieri che la turbavano si erano evidentemente ridestati dopo un breve periodo in cui il suo sorriso era tornato ad illuminare il suo volto, forse anche grazie a me.
    La battaglia nell'Ovest aveva lasciato strascichi in tutti noi, me compreso, ma Meika forse stava lottando con qualcosa di ancor più grande. Il pensiero della madre era tornato insistentemente a tormentarla. I ricordi presero d'assalto la mia testa all'udire le sue parole, riportandomi come indietro a ormai molti mesi fa, il giorno in cui io e Meika ci eravamo conosciuti, quando l'uomo della Confraternita, con oscure parole, aveva gettato ombre e dubbi su una situazione che sembrava ormai morta e sepolta: letteralmente.
    Lei doveva scoprire il significato di quelle parole, adesso ne sentiva la necessità. Mi avvicinai anche io alle mura, chinando il busto e poggiandomi come lei sui bastioni con le braccia. « Se io fossi stato in te all'epoca, mi sarei avventurato anche da solo e immediatamente in qualsiasi posto del mondo pur di scoprire la verità. Non so cosa significa avere dei genitori, ma farei di tutto per scoprire qualcosa in più su di loro. » Sospirai, guardando in direzione del mare, velato dalla nebbia. « Come puoi sapere realmente chi sei se non sai da dove provieni? Me lo sono sempre chiesto... Io so chi erano i miei, eppure non li ho mai conosciuti. So chi erano. So cosa hanno fatto, e questo mi basta per vivere in serenità con me stesso. Ma quando lasci vecchie ferite aperte, beh... Non si può continuare per sempre a scappare da queste cose... Bisogna affrontarle prima o poi. Meglio se non da soli. » Quelle ultime parole furono accompagnate con uno dei miei più classici sorrisi sornioni. « Non penserai veramente che dopo che mi hai informato riguardo le tue intenzioni, ti lascerò andare a Taki tutta sola, bella bambina? » Guardai Meika negli occhi, a testimonianza del fatto che non stavo affatto scherzando. « Forza, tu vai a casa a riposarti... Partiamo tra due giorni! » Diedi le spalle al mare, rimanendo appoggiato alle mura con i gomiti e osservando il grande palazzo dell'Amministrazione in lontananza. Un problema in verità c'era, ed andava in giro a galoppo di un drago rosso lungo quaranta metri. Sicuramente non lo avrebbe dovuto scoprire almeno finché non avessi messo il primo piede a Taki, giusto per depistare le mie tracce. Alle ripercussioni di quel gesto sulla mia "carriera" mi sarei preoccupato al ritorno. « Non dire a nessuno che ti accompagno, eh! Altrimenti mi impala veramente Itai questa volta... Sul come arrivare a Taki ci penso io... Diciamo che conosco bene la zona, non fare altre domande, per favore. » Le vicissitudini che mi avevano portato dell'Artista mi sarebbero tornate utili anche quella volta.

     
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  5. -Meika
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    Giusto prima di partire

    La solitaria lacrima di felicità



    Alla fine, fece ciò che Akira Hozuki avrebbe fatto: fregandosene del pericolo (evidente) dei compiti (pressanti) e del capo, mi disse che sarebbe venuto con me a Taki. E non solo, decise anche la data di partenza. Lo fissai per un istante, poi uno spontaneo ed un po' triste sorriso nacque sulle mie labbra. In che guaio si era cacciato, conoscendomi.
    Come ero certo sarebbe successo, non fui in grado di replicare e rifiutare. Quel viaggio riguardava solo me, e nessun altro, eppure con l'irruenza di un rinoceronte infuriato si era messo in mezzo decidendo che doveva venire con me. Ed io, spaventata com'ero di affrontare il viaggio da sola, non potevo rifiutare.
    Non erano i nemici che mi spaventavano. Quella paura era parte del mio lavoro, e nemici potevano o non potevano esserci non importava. Era la paura di scoprire ciò che era successo davvero a mia madre a rendermi quasi paralizzata al pensiero di dover affrontare quel viaggio. Perché le possibilità che mi venivano in mente erano giusto due: la prima, che ritenevo più probabile è che mia madre fosse bella che morta. La seconda invece era che fosse viva e che per qualche motivo a me ignoto avesse deciso di non tornare più a casa da suo marito, a crescere sua figlia.
    Da qualsiasi lato la si vedessi alla fine di quel viaggio avrei sofferto: sia che mia madre fosse morta davvero, perché mi ero illusa che fosse viva. Sia perché poteva non essere più la donna che ricordavo.
    Grazie. Dissi solo, in un sussurro. Una lacrima, nata dalle emozioni che sentivo tumultuose al pensiero dell'imminente futuro scivolò sulla mia guancia destra. La pulii con un rapidissimo movimento. Feci un profondo respiro, inalando l'umida e famigliare aria kiriana. Con questo siamo pari. Non ho mica dimenticato l'acqua nel deserto, che credi. Gli lanciai un'occhiata divertita. Non avevo mai considerato quello un vero credito, ma non riuscivo a non mascherare i miei sentimenti dietro battute. Ero io in debito con lui: un po' di acqua nel deserto non valeva un viaggio al centro del caos mondiale alla ricerca di un genitore scomparso. Allora, a tra due giorni.
    Dissi. Feci un cenno con la mano di saluto, poi mi voltai, lasciandolo ai suoi doveri. Trovai Hikari dove l'avevo lasciata, ossia vicino al cancello.
    Hikari-san, quando sarà di nuovo di turno Akira? domandai. Hikari, ci pensò un attimo. Domani, dopo pranzo fino al tramonto. Grazie mille!
    Tornai filata a casa, dove ad accogliermi c'era mio padre.




    Era passata da poco l'ora di cena. Ero rimasta in cucina, stavo lavando i piatti mentre mio padre seduto su una sedia leggeva distrattamente un libro. In realtà cercava di capire come mai per quasi tutta la sera avevo cercato di evitare il suo sguardo.
    Meika, sei silenziosa. Disse alla fine, voltando una pagina del libro. È successo qualcosa?
    No papà dissi, mascherando la verità con la voce, evitando accuratamente di voltarmi a guardarlo. Se l'avessi fatto, lui avrebbe certamente capito che stavo mentendo.
    Mh mugugnò, per niente convinto.
    Sono stanca. Sono stati giorni davvero faticosi. Risposi. Quello era vero, ma alla stanchezza in genere rispondevo con un profondo letargo più che col malumore.
    Va a riposarti, finisco io qui. No, papà, ormai ho finito.
    Cadde un lungo silenzio e potevo sentire lo sguardo di mio padre scavarmi dentro. Aveva ormai dimenticato il libro. Devo partire di nuovo.
    Di già? Sei appena tornata.
    Tra due giorni. Precisai. Prima non sarei riuscita ad andar via di casa. Ho un'altra missione da fare a Taki. Devo... trovare informazioni su una Nukenin. Niente di pericoloso.
    Taki? Mandare dei Genin lì? Il Mizukage è impazzito? si alzò di scatto, nonostante la protesi alla gamba. Era visibilmente arrabbiato. Mi morsi l'interno della guancia e mi voltai, asciugandomi le mani per poi posarle sulle sue spalle. Tranquillo, ti ho detto che non è pericolosa papà.
    L'uomo sospirò ed annuì. Lo abbracciai appena, per poi dargli un bacio sulla guancia. Meika, ascolta. Mi disse. Sì? Sciolsi l'abbraccio, guardandolo in viso. Sembrava appena preoccupato.
    Hai per caso manifestato qualcosa del clan di tua madre? Mi morsi l'interno della guancia con così tanta forza da lasciare il segno. Era sempre lì, onnipresente. Anche nei geni.
    No, niente. Sinceramente, vorrei che non succedesse. Dissi a bassa voce, guardando il pavimento. Io sono Meika Akuma. I Terumi non hanno fatto altro che rimbottare da quando sono nata riguardo al fatto che i loro preziosi geni potessero finire nelle mani di un altro clan. Perché me lo chiedi papà? Quella domanda appariva strana, in un certo modo. Sei cresciuta parecchio. E devi scegliere che strada seguire, Meika. Sei un'Akuma, ma il tuo sangue potrebbe condurti altrove. Cosa si risveglierà prima in te? I tuoi occhi oppure il tuo sangue. Non possiamo saperlo, ma i nostri occhi non sono il nostro segreto Meika, lo sai bene.
    Gli occhi di mio padre cambiarono. Divennero rossi e le iridi si fecero nere. Solo per un istante, dopodiché tornò tutto normale. Lui era uno Shinobi, sebbene ritirato. Non aveva certamente dimenticato le arti del suo clan.
    Lo so. Qualcuno dovrebbe insegnarmelo. Credo che il momento sia giunto Meika. Seguimi, devo darti una cosa.
    Aggrottai le sopracciglia e lo seguii, rimanendo dietro la sua andatura claudicante. In cantina.


    In cantina, dietro un pannello, c'era una cassaforte. Non avevo idea che fosse lì, non avevo mai pensato che mio padre potesse nascondermi qualcosa. Lui inserì una chiave nella stretta serratura, girò ed aprì. Dentro c'era soltanto un rotolo polveroso, dall'aspetto abbastanza vecchio. Me lo porse dopo aver soffiato via la polvere, che si sparse nell'aria con uno sbuffo irritante.
    Presi il rotolo e lo aprii, per poi leggere le prime parole. Spalancai gli occhi, esterrefatta.
    Questo... Questo è il segreto del clan, Meika. Il segreto dei nostri occhi. In condizioni normali dopo averlo letto ti addestrerei io per spingerti ad attivare i tuoi occhi ed imparare ad usarli, ma dovrai partire presto. Ho paura, Meika. Ho paura che se per caso dovessi dimostrare i tuoi poteri come Terumi prima che i tuoi occhi siano pronti, loro possano volere che tu ti unisca a loro. Ma l'hai detto tu, sei una Akuma. Sorrisi e senza dire una parola, abbracciai mio padre. Comprendevo che se l'aveva fatto, era per paura di perdermi a favore della famiglia di mia madre. Ma ancora di più, l'aveva fatto per paura. Non l'avrebbe ammesso dinanzi a me, orgoglioso com'era di poter dire che sua figlia poteva cavarsela benissimo senza il suo aiuto, ma aveva voluto darmi un'arma in più prima di partire in un luogo pericoloso quale Taki.




    Il giorno dopo passai gran parte della mattinata a leggere quel rotolo, che spiegava filo e per segno le caratteristiche della tecnica e come fare per riuscire ad attivarla. Una frase continuava a rimbalzarmi in testa: se il nemico non è in grado di distinguere il vero dal falso, allora il falso può diventare vero e viceversa. La verità allora perde di importanza ed il nemico agirà in maniera imprevedibile persino per se stesso. Lì l'occhio deve arrivare: al confondere il vero con l'illusorio, poiché non c'è nulla di più pericoloso di una vera illusione incorruttibile.
    Pranzai con mio padre rapidamente, tornai il pomeriggio a leggere il rotolo, terminandolo. Lo chiusi attentamente, dunque lo nascosi in camera (non riuscivo a fidarmi a lasciarlo incustodito per troppo tempo) dopodiché mi diressi in cucina.

    Tra i fornelli non ero un disastro. Anzi, il doversi arrangiare per molto tempo aveva fatto di me e mio padre due cuochi provetti: non ci bastava sopravvivere mangiando surgelati, almeno, questo non bastava a mio padre. Così aveva imparato a cucinare meglio che poteva, insegnandomi tutto ciò che apprendeva ed io - che in cucina ero più talentuosa di lui - alla fine l'avevo anche superato. Preparai due imagawayaki, due pastelle fritte e le farcii con del cioccolato. Ne preparai anche un terzo, lasciandolo in un piattino sul tavolo, per mio padre. Incartagli gli altri due ed uscii di casa, diretta verso le mura.

    Ritrovai Akira lì, come al solito ad annoiarsi visto che la cosa più eccitante che accadeva in quel posto doveva essere la rottura della ruota di un carro che proveniva dal porto. Sorpresa. Dissi, nascondendo dietro la schiena il dolce incartato. Immaginavo che ti stessi annoiando e così pure io. Dici che è contro qualche strano protocollo che avete qui mangiare qualcosa in servizio? Così mostrai uno dei due imagawayaki incartanti, prendendone uno per me.
    Sono ancora freschi, tutto sommato. Il tempo di venire qui alle mura senza correre come un'ossessa. Il mio era ancora caldo.

    Devo raccontarti una cosa. Dissi attentando il mio dolce, seduta sul bordo delle mura (ben attenta a non cadere molti metri più in basso a seguito di una perdita repentina dell'equilibrio). Ieri sera mio padre ha deciso che sono abbastanza grande da imparare i segreti del mio clan. Mi ha dato un rotolo, l'ho letto, tutto e non sono stata capace di far nulla ovviamente. Però questa cosa mi rende felice. Difatti, quella notizia aveva completamente assorbito il mio umore tremendo del giorno prima. Mia madre è... o era, non lo so, una Terumi. Dunque c'è la possibilità abbastanza concreta che prima o poi io risvegli quell'interessantissimo lato di me capace di sputare magma e acido. Non credo di volerlo, sono molto affezionata al mio clan ed i Terumi non hanno fatto che borbottare il loro disappunto riguardo il rischio che le loro arti finissero in un altro clan da quando sono nata. Addentai il dolce ancora una volta, masticando, attenta al cioccolato ancora caldo che rischiava di cadere ovunque. Comunque, se riuscissi a risvegliare i miei occhi prima dei miei geni non dovrei essere costretta a cambiare il mio nome in Meika Terumi. Forse il viaggio potrebbe essere l'occasione giusta per provarci. Gli lanciai una fugace occhiata. Una parte di me non voleva affatto cambiasse idea, temeva quell'eventualità. Un'altra parte di me invece avrebbe preferito saperlo al sicuro sulle mura di Kiri piuttosto che in un viaggio senza reale meta. Sei ancora sicuro per domani? Ti metti in un sacco di guai, il Mizukage potrebbe arrabbiarsi e stiamo andando in un posto dove è meglio non mettere piede. Questa è una cosa che riguarda solo me e... feci un sospiro Sono felice che tu voglia accompagnarmi, ma se stanotte sei rinsavito, bé lo capisco.
    Dopotutto quel viaggio era una follia vera e propria.
     
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    Giusto prima di partire

    Moneta


    Una singola lacrima scese dagli occhi di Meika, andandosi a posare delicatamente sulla sua guancia, giusto il tempo per permettermi di vederla poi farla sparire con un rapido gesto delle mani.
    Non ci fu opposizione, non sapevo se per le mie grandi doti di convincitore o per la paura dell'ignoto verso quella missione che si era data da sola. Taki non era un bel posto in cui andare, soprattutto da quella missione fallita dell'Accademia qualche anno prima che non aveva fatto altro che inasprire ancor più i contatti tra le parti. Finché si trattava di esplorare il confine, come avevo fatto io solo qualche settimana prima, la cosa poteva pure andare bene, soprattutto perché il paese non era ancora dotato di una tale organizzazione politico-militare tale da rendere i suoi confini sicuri, ma addentrarsi verso un luogo ignoto in quel territorio... Beh, era tutt'altra cosa. Sicuramente non era il posto per una genin. Probabilmente neanche per due, ma quantomeno non poteva essere peggio. Sorrisi nel vedere l'Akuma con gli occhi ancora inumiditi. « Non devi ringraziarmi... » Quindi gli diedi un piccolo buffetto sulla guancia, quella che era stata toccata dalla lacrima. « Come dici te, ero in debito ancora per l'acqua, e guai che tu mi possa rinfacciare qualcosa un giorno! » Sospirai, guardando verso il Villaggio. « Beh, certo, troppo cara mi è costata quell'acqua... Forse era meglio che mi fossi disidratato nel deserto, ma la frittata è fatta! » Meika, quindi, si congedò. « Sì, a tra due giorni. Ti ricordo di non dire niente a nessuno, organizzo io la mia scomparsa, va bene? » Rabbrividii un attimo, al solo pensare di quello che mi sarei dovuto sentirmi dire al ritorno, se mai ci fosse stato un ritorno. « Sù, a casa! Riposati! Io farò altrettanto! Tanto qui non succede mai nulla! » Risposi al saluto di Meika con un cenno della testa, quindi proseguii nuovamente verso ovest per concludere la ronda sulla cinta di mura.
    Presto avrei rimpianto quella tranquillità.

    [...]

    Era ormai giunta sera, e avendo terminato il turno sulle mura stavo tornando a casa.
    Aprii la porta e la trovai come sempre: vuota. C'avevo fatto il callo ormai: nessuna cena calda, nessuna parola di conforto, nessuno che mi aspettasse. Eccezion fatta per qualche cena in compagnia degli orfanelli che andavo a trovare di tanto in tanto e Ryo che passava da me qualche sera a settimana, più per assillarmi con le sessioni di allenamenti che per altro. Mi voleva bene e me lo faceva sentire, a suo modo, ma non avevo niente da rimproverargli. In quei giorni avevo praticamente saltato ogni sessione di allenamento che avevamo programmato visto l'imprevisto ruolo che mie era stato affidato e la ristrutturazione delle mura che, tra lavori e turni di guardia, mi lasciavano ben poco tempo libero.
    Ormai erano due settimane che avevo smesso di allenarmi sulla tecnica del mio clan. Tutto si era rivelato ben più difficile del previsto, e non solo perché non avevo solo sangue Hozuki nelle mie vene. La Tecnica dell'Idratazione non era come la maggior parte delle altre tecniche del clan: questa, una volta appresa, influenzava il nostro corpo in maniera duratura e continua, e ciò significava una gran spesa di energia e tempo per apprenderla e consolidarne l'utilizzo. Ryo mi aveva illustrato la teoria della tecnica, tramandata di era in era dal clan, fin dal Secondo Mizukage, probabilmente l'Hozuki più importante e potente dalla creazione stessa del Villaggio della Nebbia. Ma la teoria era una cosa, la pratica era un'altra.
    I primi addestramenti erano terminati solo con un gran numero di ferire da taglio e percussione, con ben poche note positive. Ryo diceva che era normale: servivano settimane di allenamento, mesi per i meno dotati, ma al termine, quando avrei fatto mia quella tecnica, non mi avrebbe più abbandonato.
    « Tu sei uno spadaccino Akira, o meglio dovresti diventarlo. La strada è ancora lunga e l'arte del clan di tua madre ancora non ti appartiene, ma prova a pensare a cosa potresti fare unendo le abilità di spadaccini degli Aogawa con i nostri geni, Akira. Vuoi essere un combattente, vero? » Risposi senza esitazione. « Sì... Il migliore. » Era da tempo che stavo pensando a quella cosa. Un intero clan ormai aveva come unica speranza me, e in me viveva tutta la loro ambizione. Non potevo averne meno di loro, e ciò significava essere il migliore nell'arte della spada. Diventare il migliore, o quantomeno provarci. Ryo sorrise. « Bene! Finalmente un pò di palle oltre al tuo solito e irritante fancazzismo! Uno spadaccino che non ha paura di essere colpito, cosa ne pensi? »
    Quel dialogo mi ronzava in testa da giorni, e non mi abbandonò per tutta la notte, facendomi dormire solo poche ore.

    La mattina successiva, con mia sorpresa, ritrovai Meika dietro di me. « Già qui? Avevo detto domani! Ma capisco che tu non possa resistere tanto tempo senza di me... » Scherzai, e per fortuna la ragazza era venuta accompagnata. Dietro la schiena nascondeva un dolcetto ripieno di cioccolato. « Oh, fantastico! La prima buona notizia della giornata! Non ti preoccupare di codici e regolamenti, comando io qui! » Almeno finché non mi avesse visto Itai. Presi un dolcetto e mi sedetti sulle mura, con le gambe sospese nel vuoto in direzione del mare. Battei il palmo della mano sul mattonato accanto a me, invitando Meika a sedersi. « Grazie mille, sembra squisito. E anche ipercalorico. Attenta che ti viene la cellulite. » Dissi, sorridendo, con la segreta speranza che avrei convinto Meika a darmi anche il suo, quindi azzannai la frittella.
    Meika mi raccontò quindi cosa era successo il giorno primo, delle sue discendenze e parentele con i Terumi e del rotolo del clan Akuma. Diedi un altro morso al dolcetto. « Beh, posso dirti una cosa? Gli altri possono chiamarti Terumi, Kaguya o Tokugawa per quanto mi riguarda, ma tu per me sei Meika Akuma. L'importante non è il tuo nome o come ti chiamano, ma chi sei realmente tu. Chi senti di essere. Tu ti senti un'Akuma giusto? Devi pensare a questo, e appena sarai convinta di essere un Akuma, allora probabilmente potrai fare quel che vuoi fare. Finché tu non sai chi sei o chi vuoi essere, non puoi pretendere niente dai tuoi occhi, o dai tuoi geni che dir si voglia. » Sospirai un attimo. « Io sono un Hozuki, e sono anche un Aogawa. So chi sono, e accetto entrambi i lati del mio essere. Sono una moneta, e come ogni moneta ho due facce, e con queste convivo benissimo. Due facce, ma di un unico oggetto. Capisci ciò che sto dicendo? » Non sapevo se le mie parole avessero avuto qualche effetto per Meika, ma io ero arrivato a quella conclusione dopo tanto tempo passato a pensare sulle mie origini e alla mia famiglia, prematuramente scomparsa. Finii il dolcetto, quindi mi rialzai in piedi. « Non preoccuparti per me, ho detto che ti accompagnerò e non mi tirerò di certo indietro. Per quel che riguarda Itai, beh... Pensiamo ad una cosa alla volta. » Alzai le mane al sole, sgranchendomi. « Che sia la volta buona che anche io riesca ad utilizzare l'arte del mio clan! » Allungai la mano verso Meika, per aiutarla ad alzarsi. « Forza, vai da tuo padre, passa un pò di tempo con lui; ci vediamo qui domani mattina verso le 7. Prendiamo la prima nave verso la Terra del Fuoco. » Sorrisi, prima di salutarla.

    Prima di terminare il turno di quella giornata, avrei preparato una lettera indicando il perché della mia assenza. Le guardie le avrebbero potuta trovare nel piccolo gabbiotto interno in cui era conservato il registro dei turni di servizio. Itai non sarebbe stato contento. Affatto.
    Quella sera, però, dormii benissimo.

     
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