Destino Incerto

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    Lazzaro


    - XV -
    Febh Hebiko





    Non ribatté ad una sola, singola, parola di Febh.
    Rispose con un sorriso amaro. Conosceva l’otese, e non si aspettava una reazione troppo differente, lo sperava forse, ma era una probabilità così lontana da non essere in grado di deluderlo non realizzandosi.
    Quando Hebiko tentò di opporsi, rimbrottando il suo datore di lavoro la mano di Raizen si levò davanti al suo viso.

    Lascia perdere.
    È una delle poche volte che fa un discorso sensato


    Non aveva modo di ribattere, per tutto quel tempo non aveva fatto altro che ripetere a se stesso le stesse identiche cose, tra mille altre, forse peggiori. Sentirle da un’altra bocca le rendeva più concrete, ma non per questo una novità.
    La cosa lo scuoteva così poco che l’unico modo in cui reagì fu chinarsi sul proprio corpo e riprendere le lenzuola per coprirsi nuovamente, cosa che, sbilanciato com’era, non gli veniva benissimo.

    No, non ho nessuno.

    Disse sinteticamente, con il medesimo tono tenuto fino a quel momento, salvo interrompere quello che stava facendo quando il suo cervello eseguì sufficienti sinapsi ad elaborare la proposta di Hebiko. Alcune cose necessitavano una lieve pausa tra la parte inconscia del suo cervello e quella connessa alla realtà perché si potesse rendere conto di cosa avesse udito.

    …cosa?

    C’era un marcato tono di sorpresa in quella parola che aveva spazzato la su apatia così come il vento mondava il cielo dalle nuvole.
    Mandò in malora le coperte e tornò ad appoggiarsi sul letto, di certo quell’offerta non lo lasciava del tutto impassibile, impossibile che lo facesse, aveva incrinato la sua apatia così come un fulmine squarciava una notte serena senza stelle.

    Mh.
    Devo fare una discreta pena, te lo concedo.


    La proposta ovattò leggermente le disavventure di Febh all’esterno della stanza, impedendo a Raizen di sentire il trambusto.

    Se vuoi, puoi restare...

    Non c’era troppa convinzione nelle sue parole, ma non era troppo difficile immaginare che in parte fosse dovuto alle condizioni in cui si trovava, sembrava infatti che l’avventura vissuta da Raizen gli avesse scavato nella mente, scombussolando qualsiasi tipo di processo e rendendo l’interazione con qualsiasi tipo di contesto del tutto differente, difficile o incomprensibile, ma i suoi occhi esprimevano gratitudine, seppur non riuscissero a nascondere la tristezza di ricevere delle cortesie perchè sconfitto da un suo stesso errore.
    Avrebbe voluto chiedere il perché, ma l’insistenza di un “kappa” alla finestra lo costrinse a distogliere lo sguardo.

    Apri e basta, vediamo che dice.

    Pronunciò le parole con una sfumatura esasperata, prima di ascoltare le parole provenienti da quel becco posticcio come ipnotizzato, seguiva con attenzione ciò che Febh diceva, ma non capiva se la maschera gli servisse per dire ciò che realmente pensava, o per poter interpretare le dolci menzogne che a tutti piaceva sentire. Qualche navigato filosofo avrebbe potuto dire che le maschere sono ciò che ci permettono di interagire col mondo in base a come questo ci vuole, facendoci vivere costantemente nascosti dietro un vetro opaco di incertezze e dubbi esistenziali.
    Ma Febh era… al contrario. Non imprevedibile come tanti potevano dire da una superficiale osservazione, con un po’ di concentrazione si poteva intuire nel suo agire una linea guida, una logica. Ma percepirla non voleva dire comprenderla o riuscire ad immedesimarsi in essa.
    Cosa era quindi Febh? Quale era la sua maschera?
    Il mondo, come lo voleva? E come voleva che fosse il suo vero IO, quello sincero e senza maschera?
    Nel suo letto d’ospedale, rotto come se fosse una bambola di stuzzicadenti, Raizen pensò che il vero Febh era in ogni sui gesto ragionato, in ogni sua verità.
    Gli pesava ammetterlo, ma molto probabilmente era vero che Febh lo considerasse un totale inetto, ma contemporaneamente desiderasse aiutarlo, pur senza esporsi, pur con i suoi gesti impulsivi che l’avevano portato a sfondare le mura per dirigersi all’ospedale.
    C’era però qualcosa di sommerso: gli dispiaceva per quella situazione? Voleva aiutare Raizen per semplice volontà di farlo o per qualche altra ragione?
    Inconsciamente decise che anche lui poteva avere un amico, decise, a torto o a ragione non importava, che l’otese in qualche angolo remoto del suo cervello era dispiaciuto, empatico, ed avesse deciso di aiutare un amico.
    A lui non restava che rendere onore a quel gesto, non gli restava che essere un amico.

    La accetterei.

    Quel flusso di pensieri gli aveva attraversato la mente ad una velocità inusuale, lasciandolo disorientato ma permettendogli di rispondere in poco tempo e senza alcun dubbio. Conosceva il piccolo rituale necessario a quello scambio di abilità, e non poteva che concordare riguardo la sua sconvenienza, ma di certo non era il momento di fare osservazioni a riguardo.
    Ricordava anche cosa si provava a farsi curare con la tecnica dello Yakushi, ma era anche vero che non era mai stato ridotto in quello stato, la spinta guaritrice che gli venne data fu qualcosa di indicibile, viverla era un’ esperienza ben lontana dall’assumere un qualsiasi tipo di tonico al contrario del farmaco infatti non si trattava di mera cicatrizzazione bensì di rivitalizzazione, di rigenerazione!
    Le cellule del braccio nacquero moltiplicandosi e morendo ad un ritmo così veloce da far quasi sembrare il suo braccio un rampicante che cresceva inspessendosi e perdendo via via strati di fine corteccia in un processo che dopo pochi secondi lo rese… nuovo.



    Si guardò le mani, entrambe, l’una lo specchio dell’altra, seppur la sinistra ancora lievemente intorpidita, le girò più di una volta osservando palmo e dorso senza riuscire ad emettere alcun suono. Erano stati i giorni più lunghi nella sua vita, passati a dimenarsi nella più collosa delle autocommiserazioni ed erano stati…

    …cancellati.

    Poteva muovere anche le gambe, liberamente, ma senza una ragione apparente la stanza si sfuocò, con un curioso effetto che la fece oscillare prima che un fastidioso bruciore gli facesse chiudere gli occhi.

    Io…

    Aveva gli occhi bagnati ma non cadeva alcuna lacrima e il viso non era deformato che da una curiosa smorfia, un misto tra il sorriso e la tristezza, una felice malinconia.
    Avrebbe voluto dire che non lo meritava, che non gli sembrava giusto ricevere un simile dono, ma quando strappò via i meccanismi che lo tenevano in trazione per poggiare le gambe per terra la prima cosa che fece non fu rifiutare quel dono.

    Grazie.

    Strinse Febh, e strinse la sedia su cui si era seduto.
    Era da Raizen? No. E nemmeno avrebbe scommesso sulla possibilità di poterlo fare durante tutta la sua vita, però l’aveva fatto, guidato esclusivamente dal… nulla.
    Prima che quell’abbraccio sforasse in amore omosessuale avrebbe rilasciato l’otese per rivolgersi ad Hebiko.

    Sto… bene
    …troppo bene.


    Era come se stesse qualche centimetro sopra al pavimento, prima che il suo sguardo cadesse sulle carrucole di trazione ci volle qualche secondo, ma quando successe realizzò che Febh l’aveva curato mentre ancora era in trazione, qualche giorno dopo, alle dimissioni dall’ospedale, gli avrebbero detto che oltre ad una cura indiscutibilmente miracolosa, aveva anche guadagnato un centimetro buono in altezza.
    Soltanto dopo essersi nuovamente seduto si rese conto della faccia di Hebiko.

    Il tuo amministratore è uno Yakushi e non sai cosa sono in grado di fare?
    Curioso.

     
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