Sangue Blu

Corso Base per DarthFranz

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  1. Birbatron
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    L'accademia non fu particolarmente ostica per lui, ma d'altronde si sapeva: gli Hyuga erano dei geni, il modello da seguire: qualsiasi ragazzino aspirava a loro, o così gli era stato detto dai genitori, riempiendolo d'orgoglio fin dalla più tenerà età.
    Orgoglio che, forse in eccesso, si mostrò nel periodo in accademia: era sempre il primo a farsi avanti, sempre il primo a consegnare i test, sicuro come pochi delle sue abilità.

    In fondo, scorre in me il sangue degli Hyuga!

    Pensava spesso, alzando il capo e sorridendo convinto prima di fare qualsiasi cosa. C'è chi giura che è solo grazie alle sue abilità ed all'amore dei genitori se ha ottenuto così tanti successi, c'è chi invece sarebbe pronto a provare che è solo il suo cognome a dargli peso e propulsione, e che in realtà il ragazzo manca di qualsivoglia talento.

    Invidiosi!

    Si ritrovava spesso a pensare. I meriti erano solo suoi, e dei suoi geni. Ma senza di lui, ne era certo, sarebbero andati sprecati.
    Jin era, ed ancora è, un ragazzo piuttosto alto e ben piazzato, dal fisico allenato e dai muscoli definiti, quasi i genitori lo avessero costretto a rigida disciplina militare dalla tenerà età. Occhi calmi, qualcuno giurerebbe di non aver mai visto una traccia di insicurezza in quelle iridi, volto fiero, sempre alzato e mai chinato.
    Non a caso, quello era il suo motto: "Io non mi piego.". Perché avrebbe dovuto? Cos'avevano gli altri di così importante da far piegare il capo ad un Hyuga? Sarebbe dovuto essere il contrario. Eccome.

    Ma c'è chi avrebbe giurato che, sotto la sua scorza e la sua stizza, si celasse una bomba pronta ad esplodere. Alcuni lo chiamavano "L'uccello in gabbia". Aveva sempre detestato quel nome, come osavano? Ma forse, solo forse, avevano un poco ragione.

    [....]

    Il gufo lo avrebbe trovato facilmente, era nel solito posto: nel cortile di casa, ad allenarsi. Non aveva tregua, era sempre sotto scrutinio da parte dei familiari, doveva dare il massimo.
    In verità trovarlo fuori dalla proprietà sarebbe stato difficile, se non impossibile: le uscite erano poche e centellinate, almeno finché non avesse passato l'esame da Genin. I coprifuoco erano stretti, e mentre gli altri erano a bighellonare e a fare amicizia, lui era in casa a fare ciò che gli era richiesto, senza domandare.

    Non perché non volesse, ma perché non poteva: non gli era concesso contraddire l'autorità patriarcale, in fondo lui doveva sapere quello che stava facendo.

    E' per il tuo bene Jin, lo sai!

    Gli ripeteva sempre la madre, con un sorriso amorevole in volto e gli occhi pieni di lacrime: le piangeva il cuore, ma voleva il meglio per suo figlio, sebbene lo dimostrasse in maniera non convenzionale. C'è chi non lo avrebbe definito amore, ma per Jin era normale.

    Madre, padre!

    Gridò quindi, dando una carezza al gufo e lasciandolo andare, dopo aver sfilato il rotolo a lui intestato: lo stringeva nella mano destra con aria trionfale, una delle poche volte in cui lo si vedeva sorridere. Era giovale, gli occhi strizzati e ricolmi di soddisfazione, le guance rosse per l'emozione, e forse forse una leggera risata venne lasciata fluire, mentre corse dentro casa allo stesso modo di chi corre ad abbracciare un parente assente da anni.

    Sudato, sporco, la canotta era macchiata di terra e chiazzata, i pantaloni erano rotti in più punti, le mani erano rosse e quasi gli dolevano, ma non poteva aspettare oltre. I capelli flosci, l'aria stanca e senza fiato, il viso che da prima era più simile ad un cadavere che ad una persona riprese colore e vitalità, illuminandosi come quando un bimbo riceve un regalo di natale da tempo atteso. Ancora imperlato, puzzava, ma non era importante. Fece leggere il messaggio ai genitori, e lasciò lì il rotolo ad attestare i suoi meriti.

    Orgoglioso di sé stesso, orgoglioso di tutto, corse gli scalini ed andò a farsi un bagno caldo, più presto del solito: se lo poteva concedere. Per festeggiare lo lasciarono uscire per due orette, e gli estesero il coprifuoco di mezz'ora. Era una giornata speciale, più delle precedenti: poté mangiare un po' quello che voleva, fecero persino uno strappo portandogli il dolce a letto. Era esausto, ma felice.
    Ma lo erano di più i genitori.

    [....]

    Il giorno fatidico arrivò, e Jin si alzò ben due ore prima dell'incontro. Spese un'ora ad allenarsi, si lavò e si imbellettò, voleva essere presentabile: nello zaino, oltre al resto delle attrezzature, venne infilato un kimono cerimoniale passatogli dal padre per l'occasione, mentre uscì di casa con vestiti comodi e adatti ad eventuali camminate di lunga durata: oltre ai guanti, alle gomitiere ed alle ginocchiere indossava un giubbotto leggero a mezze maniche, sotto al quale faceva capolino una maglia verde pisello, ed alle gambe dei pantaloni blu comodi. Nulla di sfarzoso per quello. Capelli bianchi spazzolati e messi in tiro.

    Hanbo alla cintola, assieme ai kunai ed agli shuriken, gli occhialini calcati sulla cima del capo, pronti ad essere calati qualora servissero.
    Arrivò una decina di minuti prima del previsto, camminando con aria tranquilla, o almeno ci provava: era visibilmente eccitato, sebbene tentasse di contenere la cosa per darsi un'aria professionale e degna di uno studente d'élite, non voleva deludere nessuna aspettativa:
    era richiesta estrema serietà.

    Fece un bel respiro e cercò quindi di dissipare quell'eccitazione così palpabile ed ovvia, sollevando il capo e sorridendo fiero: gonfiò il petto, strinse lo zaino alle spalle, controllò che l'Hanbo non fosse svolazzante e tuonò, annuendo e allargando le spalle

    Mettiamo in cammino, allora! Sono onorato, non vi deluderò!

    Anche quello, era il suo motto. E la sua più grande debolezza.
     
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