Posts written by -Max

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    Where everything ended


    A last fly



    Il post tratta e descrive temi delicati come la depressione ed il suicidio, che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni.



    Non ho più bisogno di lui.
    Tutto ciò che mi rimaneva era Jukyu. Tutto ciò che potevo fare ancora nella mia vita, era per lei. Solo per lei. Ma lei aveva deciso di rifuggire da me. Quei lunghi mesi di separazione non avevano placato la rabbia ma l'avevano inasprita al punto da rasentare l'odio. Lo comprendevo da quelle poche, semplici parole che aveva scritto con quella fredda decisione su quella carta che tenevo tra le dita.
    Mi accorsi che, sebbene la mia vista fosse perfettamente funzionante, una nera nebbia stringeva ai lati del mio campo visivo, riducendo tutto ciò che potevo vedere ad un puntino bianco. Era lì, lontano, potevo vedere la via davanti a me, ma era remota, irraggiungibile ed io non avevo più forze.
    Mi accorsi di essere cieco. Cieco di fronte alla speranza, incapace di comprendere che forse qualcosa che potevo fare c'era, che la vita sarebbe continuata, che avrei potuto riappacificarmi con Jukyu. Jukyu, la mia bambina, ancora troppo inesperta per stare al mondo totalmente sola, in balia di chi avrebbe potuto manipolarla, sfruttarla, ferirla. Ma non avevo forze, non avevo forze per tornare a Kiri, affrontare i Kiriani che avevo abbandonato, per affrontare lei ora che sapevo quanto mi odiasse.
    No, era più facile fare altro. Era più facile dormire, lasciarsi andare nel caldo abbraccio eterno di una morte rapida, dimenticare tutti quei problemi che mi affliggevano e spedirli nell'oblio garantitomi della morte, che tutto distruggeva, azzerava e cancellava, lasciando ai vivi il problema di affrontare le conseguenze dei gesti di chi aveva deciso di abbandonare il mondo.
    Sì, una strada semplice. Semplice da raggiungere, semplice da percorrere. Lo aveva fatto Ayame, con fredda decisione dettata dalla disperazione. Lei, sempre così buona, gentile, che non avrebbe fatto male ad una mosca aveva trovato in sé la determinazione assassina di compiere quel gesto estremo. Il suicidio era un atto violento. Non era semplicemente porre fine alla vite di sé stessi, dove l'ostacolo principale era l'ignoto oltre la morte, la spinta contraria all'atto determinata dall'istinto di autoconservazione. Il suicidio era omicidio di sé stessi, era l'atto violento supremo, il freddo delitto che richiedeva premeditazione, sangue freddo e la consapevolezza che peggio di quello non si sarebbe mai stati in grado di fare. Ayame non aveva mai ucciso nessuno in vita sua, ma io avevo ucciso molte persone. Garyuuka aveva preso un numero non noto di vite con il suo filo micidiale, così come le mie stesse mani. Io ero già un assassino. Io sapevo già uccidere. Sarebbe stato solo un altro, ennesimo omicidio.
    No, non era vero. Non ero un assassino. Itai Nara probabilmente non aveva mai ucciso in maniera premeditata, ma solo in una lotta, dove l'altro vuole uccidere te con feroce convinzione. Quello sarebbe stato diverso, persino per me. Però avevo ucciso, conoscevo il peso della responsabilità di porre fine ad un'altra vita umana, sarebbe stato semplice. Mi sarebbe bastato poco, ad Ayame era bastato un kunai e stare zitta. Nel freddo buio di una stanza, di notte, nessuno avrebbe pensato di salvarmi.
    Nessuno poteva salvarmi.
    Nessuno.

    La voce di Raizen giunse remota. La nebbia attorno ai miei occhi si diradò per farmi rendere conto che Raizen ci aveva teletrasportati lontani, sulla sommità del monte dei Kage. Sopra i capelli di quale Kage eravamo? Non importava veramente saperlo. Era una futile curiosità che non avrebbe modificato i miei pensieri.
    Il fondo. Una memoria riaffiorò dalla mente. Il ricordo di me che mi catapultavo a Konoha, raggiungendo un Raizen ferito, privato di Kurama da un nemico estremamente potente, distrutto nel fisico e nella mente. All'epoca gli avevo detto qualcosa, ma non ricordavo cosa. Che fossero quelle le parole che avevo pronunciato per cercare di aiutarlo?
    Sì, era vero, continuare a pensare ai propri fallimenti sarebbe stata una zavorra per chiunque. Il problema che Raizen non vedeva era che la sua empatia non arrivava a comprendere la vastità del nero che mi si era aperto dentro. Fragilmente avevo cercato di ricucire i pazzi infranti della mia anima usando per colla la speranza di tornare da mia figlia, ma quando quella stessa speranza era stata infranta la voragine che avevo dentro si era allargata al punto da essere insostenibile.
    Lui continuò a parlare e le parole giunsero, ma non giunsero allo stesso tempo. L'ottundimento mentale che provavo mi impediva di comprenderle a pieno, di saggiare fino in fondo le giuste implicazioni delle stesse e lo scenario di speranza che mi prospettava. Lui aveva ragione, qualcosa di salvabile nella mia vita c'era. Jukyu poteva odiarmi, ma nonostante tutto sarebbe rimasta mia figlia, ed io suo padre. Avrei potuto ricostruire quel rapporto, tornare da lei, ed essere la famiglia che eravamo realmente. Sarebbe stato stupendo se fossi riuscito a concentrarmi anche solo cinque secondi su quelle parole, ad interiorizzarle, ma farle mie e tirarne fuori un pensiero coerente, ma tutto ciò che purtroppo Raizen ottenere fu un duro silenzio apatico. Non avevo nemmeno più la forza per piangere. No, le lacrime non servivano. La disperazione era finita. In me si era svegliato il pensiero sopito che aveva accompagnato la morte di Ayame, la fredda e nera compagna con la quale combattevo da anni e che marciava silenziosa al mio fianco avvolta in un manto nero, armata di falce, sempre puntata alla mia gola. Uno shinigami mi attendeva ed era la sola determinazione che provavo.
    Sarebbe accaduto.
    Sarebbe accaduto perché nulla mi avrebbe potuto fermare. Nulla avrebbe potuto salvarmi.

    Parte della mia coscienza fu sparata da Raizen nella dimensione condivisa di Chomei, senza preavviso. Erano anni che non scendevo nella parte della mia mente attraverso cui comunicavo con il Bijuu, ed era diversa da quella che ricordavo. Il cielo era sparito, ma non vi era nemmeno terra. Chomei non era tornato ad essere Kaku, fortunatamente, tuttavia era sbagliato. Forse persino Kurama avrebbe provato disagio in quel momento, rendendosi conto che c'era qualcosa che non andava in me. Era tutto nero, non c'era luce. Non si poteva vedere nulla, nemmeno le proprie mani e Raizen mi avrebbe perduto di vista, salvo poi rivedermi, per un istante, quando una luce abbagliante contemporaneo ad un urlo atroce avrebbe illuminato la scena per una frazione di secondo. Un altro urlo, altra luce. Erano urla femminili, infantili. Poi, un tuono, così forte, da far tremare i denti dei presenti. Un nuovo lampo, un nuovo tuono, altre urla. Urla, luce, tuoni. E poi, pioggia. Pioggia torrenziale, gelata, ostile.
    Chomei non era da alcuna parte. O meglio, era , da qualche parte, solo che Raizen non poteva vederlo, né comprendere cosa stesse accadendo. Altra luce. Se Raizen avesse visto attorno si sarebbe accorto che ai limiti di quella scena, ovunque, sia sotto, che sopra, che tutto attorno c'erano fitte nubi spesse, una coltre possente, che bloccava la visuale di qualsiasi cosa ci fosse attorno. Ed erano vicine. Non c'era traccia della vastità del mondo interiore di Chomei, un cielo infinito e privo di nubi, con un sole caldo ad illuminare tutto e forti venti che ululavano senza sosta. Una sfera, un centinaio di metri di diametro, e lì dentro, solo noi due.
    Parlai allora, per la prima volta, cercando di sovrastare col tono della voce i tuoni che si stavano facendo sempre più presenti.
    Non c'è più Chomei, Raizen. Si nasconde, per paura di ciò che provo. Per paura di tornare ad essere Kaku.Quella era una sonora sciocchezza, ma non potevo comprenderlo nel mio stato alterato. Erano state vendetta ed odio a trasformare Chomei in Kaku, ma io non odiavo nessuno, se non me stesso e non desideravo vendetta. Volevo solo pace, la fine di quel dolore così profondo e vasto da essere indescrivibile, come trovarsi in un cratere così da grande da confonderlo per una larga vallata.
    Poi ancora tuoni. Lampi. Urla. E pioggia.
    Pioggia senza fine.

    Nessuno dei due perse consapevolezza all'esterno. La vista mi si schiarì abbastanza da farmi rendere conto di dove mi trovassi, farmi rendere conto che ero vicino ad un precipizio fisico, oltre che figurativo. Non pronunciai una parola. Chissà, forse lui si era distratto nel tentativo di entrare nel mio mondo interno. Aveva solo poggiato una mano sulla mia spalla. Niente di più che quello.
    Povero Raizen. Pensai che forse si sarebbe potuto sentire in colpa per ciò che sarebbe successo. Avrei voluto dirgli che quella non sarebbe stata colpa sua, che la decisione era presa e che sarebbe andata in quel modo in ogni scenario possibile. Sarebbe cambiato solo il mondo in cui avrei deciso di porre fine a quell'inutile, tormentata esistenza.
    Richiamai tutto il chakra che potei, quasi fino a farmi dolere le gambe, bruciando i muscoli fino a bloccarli. Che importanza aveva ormai, il dolore? Quello era l'atto finale. Il posto dove tutto finiva.
    Preservare il mio corpo dagli abusi del mio chakra non aveva importanza alcuna, e persino senza Chomei scattai, un unico balzo, quanto bastava per librarmi nel vuoto e poi, soggetto all'ineluttabile gravità, tirato verso il basso, diretto verso una caduta da cui nessuno poteva sopravvivere [Statistiche salto]Velocità: 775 + Medioalto + Sovraimpasto + OverCAP->1000. La connessione con il mondo interno si sarebbe interrotta all'improvviso e forse quell'attimo di disorientamento sarebbe stato abbastanza.
    Ed eccola lì, la fine della storia di Itai Nara. Nel posto in cui tutto era iniziato. Una fine ingloriosa, forse non all'altezza delle vette della propria vita, ma certamente bassa ed infima quanto i peggiori dei suoi fallimenti.

    Kiete yuku
    no mo uragare no
    hotoke kana

    Prati morenti
    Il sottobosco gela
    è la mia ora

    (Gokei)







    Edited by -Max - 6/10/2021, 20:37
  2. .
    Alcuni di voi hanno elementi nel profilo che rimangono e che devo eliminare, ma piano piano si sistema tutto.
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    Sho correggi

    CODICE
    <a class="pg_post" data-pgid="642"></a>


    Così



    CITAZIONE (S h o ! @ 6/10/2021, 17:56) 
    Sto provando puttana eva datemi un cazzo di secondo, perché mi dovete fare bestemmiare

    +1 solo per la risposta
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    Jukyu <3
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    Kawo anziché quotare il tuo post l'ho modificato ._.
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    Un esempio di un altro PG con i totli


    Piccola nota.
    Se volessimo rendere le cose facili ai nuovi utenti, allora non bisognerebbe dargli strumenti da inserire se vogliono, bensì decidere cosa vogliamo dare loro di base e se vogliono avventurarsi, si interessano.
    In tal senso, il template dei post si evolverebbe da quello attuale con l'eliminazione della ridondante immagine del personaggio, che tralaltro sforma la visione mobile.
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    Mandatemi gli screen di cosa vedete, che sistemo, magari devo nascondere altri elementi
  8. .

    Notate nulla di strano in questo post (vedendolo da pc)? Perché Max ha cambiato improvvisamente il suo nick, avatar, informazioni o altro che le informazioni GdR di Itai?
    In realtà ho pensato che, così come recupero le info del pg per personalizzare i dataspoiler, si potrebbe personalizzare un po' di tutto. Al momento è nella sua versione più basic possibile.

    Come si aggiunge?
    Basta inserire nel post un codice.
    HTML
    <a class="pg_post" data-pgid="4"></a>


    Dove all'attributo data-pgid mette l'id del vostro personaggio (quel numero che esce nel link della vostra scheda per intenderci).
    Se ne mettete più di uno nel post, considera solo il primo.

    Esisterà un bottone per inserirlo?
    Qui apro un sondaggio:
    1) Potrebbe comparire quando si carica il template del pg, e chi non lo vuole lo cancella.
    2) Potrebbe essere inserito da un bottone, ma richiederebbe con ogni probabilità l'inserimento manuale dell'id del personaggio (bypassabile se caricato il template)

    Sviluppi
    Potrei svilupparlo se dovesse ricevere un buon feedback. Potrei aggiungere sotto una tabellina con il riassunto delle statistiche del pg (meno grossa rispetto a quella presente nella scheda), i ruoli del pg. Ma siccome richiede di cercare nelle conoscenze del pg, e quindi più lavoro, e non ho più il tempo libero di un tempo (:zomg:) vedo se vi piace, e se vi piace, lo si espande. Tanto non dovrebbe richiedere alcuna modifica da parte dell'utente :3

    p.s. Non fate gli spiritosi cercando di mandare post come se fosse altri con questo metodo. Mi sono accorto ora dell'inghippo, ma quando ho due minuti modificherò lo schript per far comparire da qualche parte "Post inviato da..." con l'utente ed il link :sinve:
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    Where everything started


    V


    La scelta di escludere Raizen e chiunque altro dalla mia vita, non era stata colpa loro. Bensì mia. O meglio, di quel mio stato alterato di mente che mi portava, senza quasi rendermene conto, all'isolamento nei confronti di tutti. Non riuscivo a tollerare la presenza di altri per troppo tempo, mi ritrovavo ad annaspare, alla ricerca di aria che chiunque mi parlasse mi sottraeva con le sue parole.
    Raizen..., sospirai nel pronunciare il nome dell'Hokage. Ciò che è successo era... Inevitabile. Una volta che si sono ammalati, i bambini non potevano guarire se non da soli. Come è successo a me. La strada era ancora lunga e non stavamo accelerando il passo. Fremevo dalla voglia di ritrovare Jukyu, ma più mi avvicinavo alla casa di Hanako più il timore aumentava. Mi aveva perdonato? Così, per riempire il tempo della camminata, raccontai.




    [39 DF]
    Cosa significa che non puoi fare nulla? Il mio tono di voce, per quanto cercasse di mantenere un briciolo di forza e dignità era pericolosamente vicino alla disperazione. Ero fuori dalla piccola casa di Kurohai, lontano dalle orecchie di chiunque, assieme a Kazuo Hai, vecchio ninja in pensione, un tempo medico fuorilegge della banda di Itai Kizu. La sua esperienza era innegabile, le sue conoscenze quasi sconfinate. Quante volte avevo cercato di portarlo a Kiri? Lui però era inamovibile. Aveva finito i suoi giorni di servizio ed ora, voleva solo morire lì a Kurohai, dopo essere sfuggito dalla legge così a lundo da aver fatto perdere totalmente le sue tracce.
    Ascoltami Itai... se potessi fare qualcosa, l'avrei fatta, l'uomo strinse il bastone tra le dita. Purtroppo ciò che ha colpito i bambini e è... infame, a dir poco. Infame. Era triste ed abbattuto per il suo fallimento. Potevo leggerglielo in viso, ello sguardo abbassato in un atto di vergogna. Purtroppo questo... agente con cui ti hanno infettato, ha un effetto davvero orribile. Indebolisce il collegamento tra il corpo ed il chakra. Non è una malattia del fisico Itai, è una malattia del chakra.
    Ma certo..., dissi quasi a dentri stritti, mettendo le mani sul viso, maledicendomi per la disgrazia che avevo portato sui miei figli. Volevano separarmi da Chomei, volevano indebolire la mia connessione con il demone. Ma non sono riusciti a spezzarla... Tuttavia erano riusciti a ferirla. Chomei era stato prosciugato di quasi tutto il suo chakra ed erano giorni che lo stava recuperando, assorbendolo piano dall'ambiente circostante. Era troppo debole persino per parlare.

    Hai probabilmente ragione Itai... lui sospirò. Avrebbe voluto fare qualcosa per le pronipoti del suo vecchio amico, del vecchio compagno di mille battaglie. Il problema è che una volta che il chakra viene separato dal corpo, per quanto esiguo nella sua forza come per i bambini... Il corpo deperisce. E continuerà a farlo, finché questa malattia non viene debellata. Devi sperare Itai, e pregare. Non c'è arte ninja che possa salvarli.


    A quel punto, Raizen, mandare messaggi è stata la mia ultima preoccupazione. Ho fatto tutto ciò che potevo per loro, ma non è stato abbastanza Dissi, ultimando il racconto. Ayame... Avrei voluto accorgermi prima, avrei dovuto accorgermi prima delle sue intenzioni. Ma ero accecato dal dolore anch'io. Una volta messi in moto quegli eventi, purtroppo, non c'era nulla che avrei potuto fare. Se fossi rimasto a Kiri... forse... Non lo so. Ma ero a Kurohai, ed una volta seppellita quasi tutta la mia famiglia, non ho più pensato a tornare al Villaggio. Non commentai subito ciò che stava succedendo a Kiri, o all'Accademia. Non ero ancora pronto ad affrontare quel discorso. A combattere. Ero tornato per Jukyu, ma Itai Nara, quell'Itai Nara pronto a tutto pur di difendere i suoi principi e ciò in cui credeva, pronto a tutto pur di consentire alla pace di regnare al posto della guerra più atroce... Non c'era. Non era ancora tornato. Forse, non sarebbe tornato mai.

    Il quartiere dei Nara era per me più sconosciuto di quanto il mio cognome potesse lasciar intendere. Non vi avevo mai vissuto durante l'infanzia. Mio padre era stato cacciato da lì quando aveva deciso di sposare mia madre, la figlia di un nukenin originario di Kiri ed in un Uchiha. Uchiha. Quasi dimenticavo di avere anche sangue Uchiha nelle vene. Ero un miscuglio informe di clan diversi senza un reale senso pratico, il figlio rinnegato di due clan che aveva finito per diventare Kage di un altro Villaggio dopo aver abbandonato Konoha, quindici anni fa, nascosto nel doppio fondo di un carro.
    La casa di Hanako era una modesta abitazione in legno su due piani. Un piccolo giardino ben curato di fronte all'ingresso, attraversato da un viottolo di ciottoli.
    Siamo arrivati, dissi, lasciando per un attimo trasparire un'emozione dalla mia voce. La trepidazione era così forte che nemmeno quel velo di pesante apatia che mi oscurava l'animo poteva nasconderla del tutto. Mi avvicinai alla porta, silenziosamente ed attesi quasi dieci secondi prima di riuscire a bussare.

    Hanako.
    La mia sorella maggiore mai conosciuta, cresciuta a Kurohai dal nonno nukenin quando una frangia troppo pura del Clan Uchiha aveva deciso di uccidere la mezzosangue. Per fortuna che nei due anni tra la sua nascita e quella dei due gemelli (Itai e Maku) qualcosa doveva averli calmati. Non avevo mai scoperto cosa. Non avevo mai realmente capito cosa avesse impedito a quella gente di cercare di far male a me ed al mio gemello. Tutte le persone che avrebbero potuto saperlo erano morte, del resto. Come quasi tutti nella mia vita.
    Sentii un lieve fruscio di passi e poi la porta si aprì, rivelando Hanako. Era più bassa di me di dieci centimetri, una donna che aveva superato i trent'anni, di bell'aspetto ma che, a differenza mia, aveva lunghi capelli neri. Ma gli occhi erano gli stessi. Due grandi occhi verdi.
    Ci guardammo per un lungo istante, Lei parve strabuzzare gli occhi, quasi stentasse a riconoscermi. Era fin troppo normale, del resto, che non riuscisse ad associare la mia faccia ad un nome. Ma i segni erano lì e dopo qualche secondo, parve comprendere.
    Itai... Non era una domanda. Era assolutamente certa di aver risconosciuto suo fratello. Sentii il peso della vergogna per la responsabilità che le avevo affibbiato senza chiederle nulla, il peso del senso di colpa per essere sparito e lasciarla sola ad elaborare un lutto che non era solo io. Pesavano come macigni sul mio cuore, eppure, in qualche modo, riuscii a pronunciare qualche parola.
    Ciao Hanako, le dissi semplicemente. Sono tornato... Allora abbassai lo sguardo. Lei non disse nulla, fece un passo verso di me e mi abbraccio. La stretta era salda. Il suo corpo esile si strinse con tutto l'affetto che una sorella poteva trasmettere ad un fratello in quella situazione. Quasi esitante alzai un braccio da sotto il mantello che indossavo e lo passai attorno alle sue spalle. Scusami le sussurrai, sicché solo lei potesse udire quell'unica parola, così breve, ma carica di tutto il dolore che provavo.
    Non devi disse infine, sciogliendo l'abbraccio ed asciugandosi le lacrime dagli occhi. Jukyu mi ha spiegato, Itai. Mi ha raccontato tutto. Ho capito perché sei dovuto andare via. Poi sospirò, rialzò lo sguardo e solo allora parve notare (come se fosse piccolo) l'Hokage dietro il fratello. Ho... Hokage-sama! Fece un inchino frettoloso ed imbarazzato. Entrate, entrambi, vi preparo del tè.

    Del tè non era propriamente ciò che volevo in quel momento, ma immaginavo che se lei non aveva chiamato Jukyu era perché non fosse in casa. Così entrai, togliendo il mantello da viaggio che indossavo. I miei abiti, per quanto non sporchi (del resto, li indossavo da ieri), erano comunque logori. Era chiaro che non stessi prendendomi una gran cura di me. Inoltre, per quanto fosse stato sempre magro, senza mantello si poté notare la perdita di almeno un'altra decina di chilogrammi, il che mi inseriva ufficialmente nella categoria dei sottopeso.
    Hanako parve notarlo, me ne accorsi dal suo sguardo che indugiò sugli abiti troppo cadenti.
    Hanako.... Jukyu... dov'è? Hanako stava mettendo il bollitore sul fuoco. e parve non avere alcuna fretta di velocizzare quell'operazione. Accese la fiamma e si voltò a guardarmi, sedendosi al tavolo, di fronte a me. Non mi piaceva quell'atteggiamento, non c'erano buone notizie. Sta bene, vero?
    Sì Itai, sta bene. Ma è... è arrabbiata con te. Quelle ultime parole le dovettero costare una fatica notevole, ma non mi sorpresero, né mi ferirono particolarmente. Sapevo che Jukyu lo era. Non sarebbe stata mia figlia altrimenti. Aveva un carattere passionale, provava emozioni forti e non aveva ancora l'esperienza per controllarle. Sospirai, passandomi una mano sul viso.
    Anche io sarei arrabbiato con me, poi lei è... iniziai a dire, ma Hanako alzò una mano, interrompendo quelle parole. Il suo viso era triste, una tristezza profonda e sincera.
    Lei non è più la bambina di dieci anni che hai lasciato da me Itai, è cresciuta... Si è sentita... abbandonata da te. Anche quelle cose non mi sorprendevano. Io l'avevo abbandonata, sebbene a ragion veduta. Un uomo vivo a malapena non poteva occuparsi di una bambina in lutto. Portarla da Hanako era stata la soluzione migliore per Jukyu, anche se lei, sicuramente, non la vedeva in quel modo. Non è qui, Itai, è tornata a Kiri. A casa sua. Dopo che ha compiuto tredici anni.

    Quindi non era più lì. Aveva deciso di prendere in mano la sua vita a soli tredici anni, la stessa età che avevo fissato come età minima per essere una Kunoichi a tutti gli effetti, come lei desiderava ardentemente. Quel lungo viaggio verso Konoha era stato inutile. Avrei dovuto camminare fino a Kiri. Il mio Villaggio. La mia casa dalla quale fuggivo. Un posto che, stando alle poche informazioni datemi da Raizen, non era lo stesso che avevo lasciato.
    Dovrò andare a Kiri allora dissi semplicemente. Il bollitore iniziò a fischiare ed Hanko si alzò, preparado un grosso infusore che mise nella teiera dopo avervi versato l'acqua. Parve indecisa sul da farsi per qualche istante, poi scosse il capo.
    Non serve tenertelo nascosto.... Aspettami... Così uscì dalla stanza, lasciandomi solo con Raizen, ma non feci in tempo a formulare una frase che lei rientrò, stringendo tra le mani un pezzo di carta. Me lo porse, ed io lo lessi velocemente. Era di Jukyu. Non aveva più la scrittura larga ed infantile che ricordavo.


    Torno a Kiri. Questa non è la mia casa. Grazie per esserti presa cura di me.
    Se mai mio padre dovesse tornare, digli che non ho più bisogno di lui. So già che gli dirai dove sono andata, non importa.

    Jukyu


    Fissai quelle poche righe scritte dalla mano di mia figlia con sgomento. Non ho più bisogno di lui. Strinsi quelle parole tra le dita, dimenticando del Tè. Mi alzai.
    Devo andare Hanako, scusami dissi solo, voltandomi per uscire. Lei non fece nulla per fermarmi ma fece cenno all'Hokage di attendere un attimo.
    Hokage-sama... so di cheiderle molto, ma ad ora, Itai è in un momento di estrema fragilità e sua figlia non vuole più saperne di lui. Ora ha perso tutto, ed una sorella che non ha conosciuto per vent'anni non può fare un granché abbassò lo sguardo, e feci un inchino, più profondo. Gli stia vicino. Lei che può. Lui... per qualche ragione... Forse perché siete entrambi Jinchuuriki...So che con lei parlerà, in qualche modo.


    Raizen mi avrebbe trovato immobile, fermo al ciglio della strada, a fissare un punto lontano in cielo. Mi sentivo svuotato di quel briciolo di emozione che mi rimaneva dentro. Ero totalmente annientato. Avevo avuto tre figli. Due erano morti, portati via da un male che io stesso avevo trasmesso loro. La terza, che sapevo essere furiosa con me, aveva detto di non avere più bisogno di me. Sapevo bene cosa c'era dietro quelle parole. Un'immenso disprezza, la ferrea volontà di non avere più nulla a che fare con lui. Era molto peggio rispetto a ciò a cui mio ero preparato. Avevo immaginato silenzi, rabbia, ma un lento riavvicinamento. Qualcosa che potevo gestire.
    Ma quello... era troppo.
    Semplicemente troppo.
    Ehi Raizen chiesi, senza voltarmi a guardarlo. Conosci un posto tranquillo dove passare la notte?


  10. .

    Gli Abiti della Nebbia


    II




    [Maggio 38 DF - Tetto del palazzo Amministrativo di Kiri]
    All'epoca non avevo nemmeno dieci anni, li avrei compiuti da lì ad un paio di mesi. Mio padre, il Nono Mizukage, aveva deciso di approfittare di una giornata timidamente soleggiata per gli standard Kiriani e poche scartoffie sulla scrivania per allenarmi un po' sul tetto. Da qualche tempo gli allenamenti si erano fatti duri, ed Itai non era mai stato un Sensei tenero, nonostante fossi sua figlia. Ansimante, mi rialzai per l'ennesima volta, dopo che mi ebbe atterrato. Non aveva pietà delle volte.
    Sei troppo frettolosa, mi disse, andandosi a sedere sul parapetto, dando le spalle al Villaggio, guardandomi in viso
    Lo fissai con sguardo ostinato, incrociando le braccia al petto, contorcendo la bocca in una smorfia infastidita che poteva star bene solo sul viso di una bambina. No, sei tu che sei troppo veloce per me. Il tono di voce era petulante, stanco di non riuscire ad essere mai abbastanza per suo padre. Non era mai brava.
    Mi sto trattenendo, Jukyu, e lo sai, mi disse, facendomi cenno di venire a sedermi la sulla balaustra, al suo fianco.
    Quasi strisciando i piedi per terra mi avvicinai, misi le mani sul cemento riscaldato dal sole e mi diedi una spinta verso l'alto, sedendomi al fianco di mio padre. Lo guardai in viso, per un momento, leggendovi una grande stanchezza. Essere Kage era difficile e stancante. Lo aveva capito da tempo, anche se lui non se ne era lamentato mai con lei.
    Jukyu, se sono così... esigente con te, è solo perché mi preoccupo, una sua mano mi finì sulla testa Conosco bene questo mondo e tu... Hai iniziato troppo presto. Se devi andare lì fuori, in missione, anche dietro mio ordine, dovrai essere pronta. E visto che sei mia figlia, dovrai esserlo più degli altri.
    Sì lo so, mugugnai con fare offeso. Però non sento di star migliorando affatto. Sono sempre qui, ad allenarmi. Non faccio nulla. Avevo voglia di uscire in missione, combattere contro veri nemici. Quella visione così romanzata di un mondo crudele e sanguinario che ha chi non ha idea di cosa ci sia davvero fuori dalle porte di casa. Potei vedere il viso di mio padre quasi indurirsi per un secondo, prima di tornare ad ammorbidirsi ancora.

    Lo farai, te lo prometto. Ora però, tocca ancora a me proteggerti. Disse, per poi girare su se stesso a guardare il villaggio che si intravedeva nella tenue nebbia di quella giornata. Proteggere tutti è compito mio.
    Un pensiero attraversò la mia mente, stimolando la mia infantile curiosità che cercava di riempire quelle sacche vuote di conoscenza ancora tutta da apprendere con le risposte che Itai o Ayame davano alle mie domande.
    Sentì papà, dissi con fare pensieroso. Mi hai sempre detto che tutte le persone sono uguali, che vengano da Konoha, Suna o chissà dove. Però tu proteggi Kiri, solo Kiri. Perché? Perché siamo speciali? Siamo forse migliori?
    Si è migliori solo se si lavora per esserlo, mi rispose. Ma Kiri è la mia casa, ed ho giurato di proteggere la mia casa. Si tratta di qualcosa radicato nell'essere umano, un sentimento... di protezione. Vedi, Jukyu, noi cinque siamo una famiglia, giusto? La famiglia è il centro, coloro che non si devono tradire mai, che si devono proteggere l'un l'altro. Ma non viviamo da soli, viviamo in un Villaggio con un gesto delle mani, abbastanza ampio, indicò i tetti delle case di Kiri. Così la famiglia si allarga, ed è diventata Kiri. Perché è il posto dove vivete voi quattro. Noi esseri umani siamo così, ci riuniamo, facciamo una tribù, e man mano che le cose vanno bene la tribù si allarga. La famiglia, il Villaggio, l'Accademia... E quando le cose vanno male, la tribù si stringe. Fino a rimanere di nuovo noi quattro.
    Non ci ho capito poi tanto... Borbottai, aggrottando le sopracciglia. Ma dobbiamo proteggere Kiri perché è la nostra casa, non perché... è Kiri, giusto?
    Lui annuì e sorrise.
    I Kiriani sono persone come tutte le altre, non c'è nulla di speciale, alla fine dei conti. Guardò in lontananza, scrutando l'orizzonte. Diffida di quelli che si ritengono i migliori per qualcosa per cui non hanno lavorato e lottato. Le persone così hanno portano solo conflitti, e dolore.




    [Presente]
    Quella conversazione mi tornò in mente. La memoria, stimolata dalle parole del Mizukge e dalle risposte che egli aveva ricevuto, alcune per nulla favorevoli, mi fecero ripensare alle parole di Itai. Kensei era esattamente il tipo di persona da cui mio padre mi aveva messo in guardia anni prima. Per un momento fui colta da un tremendo mal di testa, ebbi l'istinto di alzarmi e scappare, lontano da quell'uomo che mi intimoriva sin da quando l'avevo visto per la prima volta, anni prima.
    Era sbagliato, ciò che diceva. Era profondamente sbagliato. La pace esisteva, era ciò per cui suo padre aveva sempre lottato con tutte le sue forze. La pace era l'obiettivo a cui tutti dovevano aspirare e lui la metteva da parte, la dichiarava una menzogna, parlava di un'alleanza con Oto. Parlava di conquista. Mi faceva paura.
    Non era ciò che credevo. Ciò che avevo imparato nella mia vita. Era sbagliato.
    Sbagliato.
    Sbagliato.

    Sbagliato come le azioni di Itai. L'abbandono. Qualsiasi sia stato il percorso di vita di suo padre, aveva condotto ad un disastro finale che l'aveva segnata per sempre. Aveva sempre dato per scontato che lui le dicesse la verità, o che, anche se fosse vero, ciò che le insegnava fosse giusto. Ma quali erano i risultati? La mamma morta. Natsu morto. Nana, morta.
    Quasi con rabbia la mano sinistra, non bendata fino alla punta delle dita, andò alla bocca. La morsi, facendo cadere una goccia di sangue sul pavimento, ed un piccolo altare comparve lì di fronte a me.
    Ancora non presi la Katana tra le dita. Ascoltai le proteste degli altri Shinobi e mi alzai in piedi, indignata.
    Esattamente in che modo la strada percorsa da mio padre ha fatto del bene a questo Villaggio? Chiesi, brusca, sperando che il Mizukage non intendesse quella reazione esplosiva come una mancanza di rispetto. Mio padre ha cercato la pace sempre, ad ogni costo, ed a cosa è servito? A farsi quasi ammazzare, a distruggerne lo spirito, a distruggere la mia famiglia! No, è come dice il Mizukage. La pace è una stupida menzogna. Non può esistere in questo mondo. Dunque mi rivolsi direttamente al Mizukage. Mizukage-sama, io non sono una spadaccina. E non lo sarò mai. Questa spada nelle mie mani è sprecata. Per il bene di Kiri, sarà più fruttuosa nelle mani di qualcuno in grado di sfruttarla appieno.
    Mi inchinai leggermente e tornai a sedermi, accorgendomi solo in quel momento che la mano destra tremava. Le ferite bruciavano terribilmente. Coprii le bende sul braccio destro con la mancina, spaventata che stesse sanguinando, che il sangue potesse macchiare le bende e rivelare la mia vergogna. Avevo appena rinnegato, in pubblico, mio padre. Quell'atto avrebbe avuto conseguenze, ma non ero in grado, al momento, di comprendere quali.



    Edited by -Max - 25/9/2021, 19:30
  11. .

    Where everything Started


    IV


    L'isolamento, forse, non era stata la migliore delle idee. Avevo reagito alla perdita ed al dolore tagliando i ponti con qualsiasi cosa. Con Yogan, che era compagna fedele, un pezzo della mia stessa anima. Con Sojobo, saggio, caro, vecchissimo Sojobo, compagno di mille battaglie. Con Chomei, che pure era ancora lì, dentro di me, connessi ma divisi dalla mia volontà di isolarmi da tutto e tutti. Con Raizen, con cui avevo condiviso il percorso di essere Kage di un grande villaggio in un periodo in cui tutti e tutto volevano distruggere l'alleanza che univa le nostre terre.
    E con Jukyu.
    La mia Jukyu. L'ultimo pezzo della famiglia devastata. Era lì, a Konoha, dove l'avevo abbandonata perché non più in grado di badare a lei come un padre dovrebbe fare. Per il suo stesso bene. Non ero certo che però avrebbe mai compreso.

    Ora però avevo scelto di porre fine a quell'isolamento. Avevo girovagato, camminando migliaia di chilometri con i miei piedi, mai rivelando chi fossi, effettivamente scomparso, o morto per tutti coloro che mi avevano conosciuto a parte chi, con la certezza di un legame profondo con la mia stessa anima o con il mio chakra, avrebbe potuto capirlo. Yogan sapeva che ero vivo, ovunque fosse.
    Ora che ero lì, davanti a Raizen, con le sue mani poggiate sulle spalle, pensai che forse avevo fatto la scelta giusta a tornare. A provare, con difficoltà, a ricominciare a vivere. Con Jukyu. Per Jukyu.
    Grazie Raizen, risposi al suo bentornato con sincerità, ma le emozioni erano sempre poco evidenti, soffocate da qualcosa di rotto dentro di me, che mi impediva di provarle a fondo. Forse la sofferenza estrema, o forse qualcosa era cambiato nel mio cervello a seguito dei traumi. Era da... da tanto che mancavo. Nel mondo. Quell'ultima aggiunta forse avrebbe rivelato all'Hokage più di qualcosa.
    Quando lui propose di andare a mangiare un boccone, scossi piano il capo. Non avevo fame, né il cibo mi dava più lo stesso piaccere di un tempo. I primi tempi, dopo la morte di Ayame, mi ero scoperto a non aver mangiato per due giorni e mezzo prima di ingurgitare controvoglia una ciotola di riso preparata da Jukyu.
    Non risposi all'idea di un panino, avrei rifiutato dopo. Lui si rivolse al giovane Shinobi che mi aveva accolto. Non commentai la stupidità del superiore di grado che aveva lasciato il Genin solo con me per recapitare un messaggio all'Hokage. Non che avrebbe fatto una reale differenza, non ero lì per la violenza, del resto.
    Ci inoltrammo oltre il cancello. Come sempre, di fianco all'amico mi sentivo incredibilmente basso. Come quasi tutti, in tutto il continente, del reso.
    Andiamo nel quartiere Nara, a casa di mia sorella. Dissi semplicemente. Non avrei camminato più senza una meta. Ti dirò strada facendo. No, non volevo parlarne, ma con difficoltà mi rendevo conto che lui meritava una spiegazione di cosa fosse successo. Così come la meritava Kiri, quando avrei trovato le forze di tornare nella mia patria. Un passo alla volta. Dovevo recuperare mia figlia, prima di tutto. Dirle che ero tornato. Due anni fa sono stato attaccato. Non so da chi, non credo di volerlo sapere. Ma erano in molti. Mi hanno ferito, ma non sono morto. Volevano... Chomei. Non sono riusciti, o non hanno voluto separarmi da lui. Mi hanno fatto qualcosa per indebolirmi, non so cosa. Sono stato male, molto, e poi, non so come... sono fuggito. O mi hanno lasciato andare. I miei ricordi sono confusi. Feci una pausa. Quella era la parte bella e piacevole del racconto. Nel timore potessero usare Ayame ed i bambini per attaccarmi ancora, ho mandato i tengu a prenderli. Siamo andati a Kurohai. Ho una casetta lì, lontana dal villaggio, alle pendici del vulcano. Sono guarito, poi, dopo qualche giorno, Natsu e Nana si sono ammalati. Mi fermai, non ero certo di poter camminare mentre raccontavo quei giorni, sebbene stessi stringendo molto, troppo, per potercela fare. Tuttavia i ricordi intrusivi erano difficili da scacciare e concentrarmi sul presente poteva essere un'impresa titanica.
    Sono stati male. Una malattia, non so cosa. Non potevo trasportarli, a Kurohai nessuno poteva far nulla. Sono morti, entrambi. Prima Natsu, due giorni dopo, Nana. Feci un'altra pausa. Avevo perso due figli, nel giro di due giorni. Non era ancora finito. Ayame... non ha retto. Si è uccisa. Mi è rimasta solo Jukyu. Lei... Lei ha visto sua madre ed i suoi fratelli morire, avrei dovuto dire, ma non riuscii a finire la frase.Alzai lo sguardo verso l'Hokage. Poteva leggere nei miei occhi quanto quegli eventi avessero cancellato ciò che un tempo era stato Itai Nara.
    Io ero... io sono distrutto. Vivevo a malapena e non potevo prendermi cura di Jukyu. L'ho portata da Hanako, di nascosto. Non ho lasciato specifiche riguardo la segretezza, ma conoscendo mia sorella... Ha tenuto tutto nascosto. Mi avevano già attaccato una volta, per il bene di Jukyu, nessuno doveva sapere dove fosse. Ripresi a camminare, seppur più lentamente, guardando fisso davanti a me, con sguardo e voce prive di emozioni. Da allora... Yogan... Chomei... Io non ho più parlato con loro. Non posso. Mi guardai la mano, incapace di evocare su di essa le Fiamme Dorate. Ho paura di contaminare la Hono Masshiro. Ho paura che Chomei torni ad essere Kaku. Per questo non la vedi con me, Raizen... Io non posso... Mi bloccai per un altro lungo istante. Non ho fame, voglio andare da Jukyu. E provare a riprendere in mano la mia vita, in qualche modo, ma non potevo piombare qui a Konoha senza darti spiegazioni. Lanciai una rapida occhiata all'Hokage. Ho abbandonato tutti, anche te, a vedertela con il mondo. Perdonami, se mai potrai farlo.
    Era la prima volta che parlavo di quello che era successo con qualcuno. La prima volta che verbalizzavo gli eventi. Lo avevo fatto con distacco quasi disumano, quasi senza modificare la deflessione nella voce. Un uomo che perde la propria famiglia così avrebbe dovuto essere disperato. Ma la realtà, la cruda realtà, che quel vuoto di emozioni era il vero, tremendo volto della disperazione più cupa.

  12. .

    Il ritorno della figlia della Nebbia


    III

    Da quando in qua Kiri era diventata così ostile?
    Al mio sguardo non sfuggì la mano sulla sua spada. Immediatamente mi irrigidii, alzando la mano sinistra in segno di difesa. Che avevo fatto di male? Forse l'incertezza sul mio nome? Avevo vissuto tutta la mia vita come Jukyu Nara, avevo deciso di prendere il cognome della mamma da troppo poco tempo per non inciampare in qualche patetico errore. Da qui a sguainare le spade, ne passava di tempo.
    Il mio istinto di autoconservazione mi diceva di contrattaccare, ma razionalmente sapevo sarebbe stato molto meglio cercare di calmare la situazione. Non avevo per niente voglia di combattere.
    Sta calmo, dissi secca. Sono nata qui. Al mio comando una sfera d'acqua di circa cinque centimetri di diametro uscì dal mare, volteggiando attorno alle mie dita, per poi congelarsi all'improvviso. Sono una Shinretsu. Ma il mio nome completo, che non uso mai, è Jukyu Nara Shinretsu. A quel punto, forse, avrebbe potuto comprendere qualche grado di parentela.
    Mi misi a sedere, inoffensiva, prendendo il cristallo di ghiaccio che avevo appena creato tra le dita, guardandolo con aria distratta. Ma perché essere così ostili? Da quando in qua si attaccavano persone che camminavano per il territorio Kiriano per un'incertezza? La Kiri che ricordavo era un posto nebbioso, poco allegro, ma non crudele. C'erano Ninja di cui aveva memoria che qualcosa del genere forse non l'avrebbero mai pensata.
    Sto solo tornando a casa, aggiunsi, con una nota non celata di malinconia nella voce.
    Era vero. Stavo tornando a casa. La casa da cui mio padre mi aveva separata ed allontanata. La casa dove lui non poteva tornare, e dove non mi avrebbe cercato. Il posto dove avevo vissuto tutta la mia vita, per quanto ancora breve. Allora spadaccino, vuoi ancora arrestarmi?

  13. .

    Where everything started


    III

    Parole. Solo un fiume di parole in piena, fastidioso e tediante, che non avevo voglia di ascoltare. Povero ragazzo, non aveva idea di quanto poco volessi essere disturbato e forse in un momento diverso avrei potuto ritenere apprezzabile la sua empatia, ma ci volle uno sforzo notevole di volontà per non rispondergli "taci" senza troppi complimenti.
    Se avessi voluto far del male a qualcuno, sareste tutti morti e non mi sarei presentato all'ingresso bussando con cordialità dissi con voce atona, quasi se il fatto di non averli attaccati fosse un qualcosa di poco conto, non la normalità. In realtà il tono non era ben decifabrile, perché quasi privo di ogni possibile inclincazione, così come il mio viso, ormai privo delle più basiche emozioni. Non voglio parlare di cosa èsuccesso. Aggiunsi alla fine, secco. Ed era vero. Forse ero stato rude, ma del resto non mi importava poco. Ero impaziente, volevo solo entrare. Volevo vedere Jukyu. Forse così, con lei, sarei potuto iniziare a guarire.

    La voce di Raizen mi colse di sorpresa. Ero voltato a parlare verso il giovane shinobi quando la voce profonda e famigliare dell'amico gli arrivò alle orecchie. Un tempo avrebbe sorriso. Non c'era più nulla che potesse farlo sorridere.
    Mi voltai, con lentezza non deliberata. Persino i miei movimenti sembravano essere bloccati, impediti da un macigno mentale che mi prosciugava di qualsiasi forza.
    Sono Itai, Raizen dissi allora, con lo stesso tono privo di reali emozioni. Il mio viso era cambiato, ad opera del tempo e della sofferenza. Un tempo leggermente più pieno, sempre ben rasato, ed espressivo. Adesso sembrava che avessero seccato i muscoli sopra al mio teschio, lasciando solo quanto bastava per non apparire del tutto denutrito. I capelli erano del solito biondo chiaro e gli occhi verdi erano due pozze prive di qualsiasi vita, o gioia. Ero io, ero innegabilmente Itai Nara, chiunque mi avesse conosciuto avrebbe potuto capirlo sebbene il cambiamento fosse sostanziale. Ne ero certo.
    Avrei dovuto aggiungere "è bello rivederti", "come va vecchio mio", ma non riuscii a dire nulla. Guardavo Raizen, ma il mio sguardo era fisso più avanti, verso casa di Hanako. Jukyu. Dovevo tornare da Jukyu. Ero stato assente dalla sua vita per troppo tempo.


    [A Kurohai]
    Un enorme drago, lungo quaranta metri, sorvolava da grande distanza il vulcano. Dopo breve la sua forma parve contrarsi su se stessa, rimpicciolendo, fino a che non assunse l'aspetto di una ragazza dai lunghi capelli rossi, di bell'aspetto.
    Scese con grazia nella bocca del cratere del vulcano, non infastidita minimamente dal calore e dal fumo. Anzi, ne era confortata.
    Si diresse in anfratto nella roccia sulla parete verticale del cratere, fissando con occhi spenti il magma che ribolliva.
    Fa male pensò, portandosi una mano al petto.Fa sempre male. Oh Itai... Quel pensiero era macchiato da disperazione. Il suo collegamento con Itai non era mai stato disattivato. Erano ancora Drago e Ryuukishi, sebbene lui non la cercasse da due anni. Capiva anche il perché, ma ciononostante, quel legame vivo faceva sì che tutto il dolore di Itai fluisse in lei. Poi, un momento, parve attenuarsi appena. Forse era successo qualcosa di bello. O forse, era la calma prima della tempesta.


  14. .

    Gli Abiti della Nebbia


    I

    Ero rientrata da quattro giorni quando ricevetti la convocazione dal Mizukage. Ero tornata direttamente nella vecchia casa dei miei genitori, in quella che abitavano prima di trasferirsi al palazzo del Mizukage. Non ricordavo minimamente né dove fosse, né come accedervi. Forse ero stata troppo avventata. Del resto ero stata davvero piccola quando avevamo traslocato. Una serie di fortunate coincidenze però riuscirono a farmi recuperare una chiave (lasciata da una vicina di casa in caso di emergenza e dimenticata per anni in un vaso portaoggetti, sepolta da innumerevoli minuterie). Avevo passato due giorni a pulire la polvere.
    Presi posto nella mia vecchia stanza, priva di qualsiasi mobile. Vi stesi un futon e mi poggiai su esso, mettendo le braccia incrociate a sostenere la testa. Ero stanca, sia fisicamente che mentalmente, per cui rilassarmi mi venne facile. E mentre piano piano scivolavo in un dormiveglia leggero, la mente, traditrice, tornò ad indugiare sui ricordi. I maledetti ricordi.

    Mi svegliai, di soprassalto, sentendo la gola serrarsi ed il cuore martellare all'impazzata. Non vedevo la stanza davanti a me, ma mio padre che si voltava, tenendo il cadavere insanguinato di Ayame tra le braccia. Non riuscivo a vedere l'espressione di lui. Presi a tremare, violentemente, tenendomi con la mano sinistra il petto mentre con la destra cercai affannosamente qualcosa sul comodino.
    Era un kunai. Un singolo kunai, che presi con la mano sinistra (ero mancina, del resto) cercando fi fermare i tremiti. Lo impugnai, guardandomi l'avambraccio destro.
    La faccia volare era un continuo di tagli. Dal polso a metà strada fino al gomito, si sommavano molteplici ferite. Alcune già cicatrizzate, altre fresche, e tutte le vie di mezzo. Lacrime iniziarono a cadermi dagli occhi, sentii l'odio per ciò che stavo facendo combattere con la necessità di doverlo fare, con la pulsione inspiegata che mi richiamava a ferirmi per calmarmi. Poi, calai il coltello.
    Un singolo taglio orizzontale, né troppo profondo da essere pericoloso, né troppo leggero da non far male. Un rivoletto di sangue ne uscì ma si asciugò sulla pelle prima che potesse gocciolare sul futon. Gemetti per il dolore, ma subito dopo sospirai di sollievo, mentre ritrovavo il controllo di me.
    Non posso andare avanti così mi dissi. Non è normale, non è sano... Ma non mi sarei fermata. Quella strana forma di autolesionismo era l'unica cosa in grado di tenerla ancorata alla realtà. Per qualche ragione a lei non chiara. E più si feriva, più si rendeva conto di non poter cancellare quella sensazione di morte incombente senza quel dolore.



    Non avevo dubbi che la notizia del ritorno della figlia del nono Mizukage sarebbe giunta presto alle orecchie del Decimo. Aveva intenzione di presentarsi lei stessa, ma era stata anticipata sul tempo. Mi preparai per uscire ed essere perfettamente puntuale. Misi la fascia attorno al braccio destro, dalla spalla alla punta delle dita, nascondendo completamente qualsiasi ferita sotto un accessorio che avrebbero potuto indossar tutti.
    Mi richiusi la porta alle spalle e percorsi strade famigliari, dirigendomi verso il palazzo dell'Amministrazione. Verso l'ufficio di mio padre.
    No.
    Non era più l'ufficio di mio padre.
    Avevo passato lì dentro molto tempo, specie dopo che il mio precoce talento era esploso. Itai tendeva a tenermi più vicino a se, a darmi lezioni quando non era impegnato con altro. Sarebbe stato strano ritornarvi senza trovarlo lì, dietro la scrivania, con Yogan in forma umana al suo fianco. Pensai con nostalgia a Yogan, che per prima si era accorta della mia precocità nelle arti ninja. Probabilmente era in giro mio padre.
    Quei pensieri accompagnarono i miei passi fino al Palazzo, che guardai da piano terra con aria di sfida. Non ero lì per pensare ad Itai Nara, ma a me stessa, ed al mio futuro. E dato che certamente il mio essere sarebbe stato definito dalla sua ombra ingombrante, quel primo momento doveva essere il primo decisivo passo verso la mia autodeterminazione.

    Il Decismo Mizukage era Kensei. Lo ricordavo, vagamente, e ricordavo che quando ero bambina mi faceva paura. Con il suo elmo, la sua voce metallica e la sua aria tetra. I pensieri semplici di una bambina, del resto, non comprendevano altri tipi di timori. Quelli che provavo in quel momento. La consapevolezza di essere al cospetto con il ninja più forte di Kiri.
    Avevo abitato sotto lo stesso tetto del "ninja più forte" per tutta la mia vita. Ma non avevo mai pensato a quello, anche quando ero diventata una Kunoichi. Itai era mio padre, non mi avrebbe mai fatto del male. Non volontariamente. Kensei aveva il potere di farlo, l'autorità di imporlo e l'aria di chi non avrebbe avuto rimorso.
    Parlò, e per prima cosa, con mia sorpresa, si rivolse a me.
    Sentii gli sguardi di tutti su di me, e li trovai fastidiosi. Istintivamente il braccio sinistro strinse il destro, quasi avessi paura che quegli sguardi potessero penetrare gli strati di tessuto e scoprire il suo segreto.
    Non abbassai lo sguardo, sostenni quello del Mizukage. Io, osservata speciale?
    Pensavo di essere solo la figlia di... di Itai Nara dissi, avendo quasi difficoltà a pronunciare quel nome. Chissà come avrebbero reagito gli altri. Dubitavo avessero sospettato la mia reale identità. Non sapevo di essere un'osservata speciale. Ma Mizukage-sama, se mi chiede cosa sono, io non so risponderle davvero. A quel punto, abbassai lo sguardo. So solo di essere una Kunoichi di Kirigakure no Sato. Con tutto ciò che questo comporta. Sono... troppo giovane, me ne rendo conto bene. Devo crescere, definirmi, trovare la mia strada. Ma qualsiasi strada sia, è qui, in questo Villaggio. Non lo abbandonerò come ha fatto mio padre. Ed a quel punto, rialzai lo sguardo. Una gelida furia brillava nei miei occhi. Perché tutto ciò che avevo detto era vero, animato dal più sincero dei propositi. Itai, distrutto, avevo abbandonato tutto. Kiri e me. E lo odiavo per quello. Lo odiavo tanto quanto l'avevo amato come padre per tutta la mia vita. E non avrei ripetuto gli stessi, stupidi e tragici errori.


  15. .

    Il ritorno della figlia della Nebbia


    II



    Il mare era alle mie spalle, non più di un paio di metri in basso. Avevo intenzione di reagire, e non bene, alle continue provocazioni di quel pallone gonfiato quando qualcuno decise che forse era il caso di intervenire. Il suono secco e piacevole di un ceffone scosse l'aria. Un gabbiano lì vicino prese il volo gracchiando la sua disapprovazione.
    Il bullo fece un passo indietro, ferito più nell'orgoglio che nel fisico, poi qualcosa si modificò nella sua espressione. La sua faccia passò dalla rabbia (verso di me) alla confusione (dopo lo schiaffo) alla paura.
    Non avevo mosso un dito, ma l'acqua dietro di me si era sollevata in una sfera larga circa un metro, per poi congelarsi a formare una specie di masso di ghiaccio. Quello contribuì a far comprendere al bullo che non era aria e che la ragazzina che aveva aggredito senza motivo non era esattamente indifesa. Così lui, ed i suoi compari, filarono.
    Prima che il ragazzo si voltasse verso di lei lasciò cadere il pezzo di ghiaccio in acqua. Fece un tonfo, ma non le importava davvero tanto essere discreta. Non che si stesse nascondendo.
    Sto bene, grazie dissi brevemente. Avevo dimenticato quanto Kiri fosse piena di idioti aggiunsi voltandomi verso il mare.
    Tolsi il cappuccio lasciando intravedere il mio volto, certo che potesse intravederlo. Con la mano sinistra, istintivamente, toccai la destra fasciata. Non erano bende. Erano fasce da combattimento, di quelle che si usavano per avere un certo grado di protezione. Pensai che forse qualcuno avrebbe potuto trovare strano che lo indossassi solo ad un braccio. Pensai che da quello si potessero scoprire i segni che così stavo cercando di nascondere. Volevo solo un po' di pace, qui sugli scogli. Aggiunsi con un sospiro.

    Misi un piede sul basso muretto di pietra a secco che separava il piano della strada dagli scogli e mi diedi una spinta, mettendomici in piedi, per poi saltare verso il basso, quasi con noncuranza. Atterrai leggera e mi diedi una spinta verso l'alto, saltando in cima ad uno scoglio più piatto, adocchiato in precedenza.
    Da lì, forse, si sarebbe capito che la ragazzina era in realtà una Kunoichi.
    Sono Jukyu, comunque, Jukyu N... Mi bloccai. Stavo parlando spinta dall'abitudine, e nel farlo stavo per dire quel cognome che avevo deciso di lasciare. Il cognome dell'uomo che aveva deciso di abbandonarmi, dopo aver causato più o meno direttamente la morte di suo fratello, sua sorella e sua madre. Shinretsu. Jukyu Shinretsu.

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