Canzone del deserto

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  1. C a n n e l l a
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    Humpty Dumpty
    Parte 1


    Maledetto sia il deserto!”. Fra me e me tirai un paio di bestemmie contro quel caldo soffocante. Come facciano i sunesi a viverci non lo capirò mai. Forse non indossano pesanti tute di pelle nera. Molto probabile. Fatto sta che quel giorno, sotto un sole quanto mai impietoso, arrancavo verso il Villaggio della Sabbia, come mi era stato detto di fare nella lettera ricevuta tre giorni prima. Come sempre il mio vecchio me l’aveva quasi fatta mangiare, prima di permettermi di leggerla. Lì per lì mi domandai per quale motivo il Kazekage in persona avesse domandato di me. Poi giunsi alla più giusta delle conclusioni: perché ero, sono e sempre sarò il più figo di tutti i ninja del globo terracqueo! Armato di questa convinzione e ringalluzzito all’idea di interpretare il ruolo di un novello Sherlock Holmes (non chiedetemi chi è, né come faccio a conoscerlo), mi incamminai subito verso Suna, con Pa’ che mi tirava dietro ciotole di riso e bottiglie. Ah, quando si dice l’amore paterno!

    Ovviamente per la strada non mi ero perso una volta, ma dieci, e fu solo quando cominciai a sudare come un maiale nel forno che capii di essere sulla via giusta. Allora era cominciato il calvario vero e proprio.
    Nel momento in cui stavo profferendo le offese verso il deserto e i suoi divini abitanti ero ormai quasi arrivato a Suna. Dovevo incontrarmi con i miei compagni alle sei e mezza fuori dalla mura, nel punto in cui lo sconosciuto suicida Otomo aveva deciso di diventare una frittata. Il sole davanti a me stava tramontando finalmente, e dentro di me tirai un sospiro di sollievo. “Almeno con la notte verrà un po’ di fresco”, mi dissi, provando a consolarmi. Ma era davvero difficile consolarsi quando avevo anche le sopracciglia grondanti sudore. Tirando un gran sospirone, mi feci forza per raggiungere la mia meta.

    [...]


    Arrivato ad una decina di metri dalle mura una cosa mi colpì: qualcosa di rosso fuoco contro il pallido bigiolino delle mura stesse. Qualcosa di rosso che mi parve molto familiare. Qualcosa di rosso sotto il quale si trovava un ragazzo.

    «Hoshi-kun!!!», gridai, «Guarda un po’ chi si rivede!!!»

    Accanto a lui, in piedi e fermo come uno stoccafisso, c’era un altro tizio, tutto in nero. Non lo conoscevo. Percorsi a tutta velocità lo spazio che ci separava.

    «Ciao Hoshi, amico mio! Anche te invischiato in questa storia del suicida?»

    Dopo aver ricevuto la sua risposta, l’altro si presentò col nome di Luxeifer (un nome strano per un individuo ancora più strano). A prima vista pareva un bonzo. Uno di quei bonzi pacifici che infestano i templi. Però, a guardarlo meglio, mi resi conto che la prima impressione era, come spesso succede, sbagliata: non avevo davanti un bonzo, ma un superbo ninja-bonzo! Mi brillarono gli occhi. Non avevo mai visto un monaco combattente, e dovetti ammettere che sembrava davvero uno in gamba. La forza del Chakra combinata alla potenza della Fede!
    Visto che presentandosi si era inchinato, feci altrettanto.

    «L’onore è tutto mio, onorevolissimo bonzo-sama! Io sono Aki Hitori, del villaggio della Foglia. Sono sinceramente entusiasta di poter lavorare con qualcuno così vicino agli dei. Ultimamente ho un po’ trascurato preghiere e roba varia, ma prometto solennemente di riprendere a portare offerte al tempio quando questa triste storia sarà finita.»

    Dopo i convenevoli, abbrancai Hoshi per le spalle e, mentre ci incamminavamo verso il punto esatto dov’era avvenuto il fattaccio, gli dissi:

    «Cavolo Hoshi, il viaggio fino a qui mi ha stremato. Non ti dico in che condizioni ho i piedi: con tutto quel che ho sudato e tutta la sabbia maledetta che mi ci è entrata s’è formato una specie di pantano fangoso dentro gli stivali, e credo che stiano cominciando a formarsi le prime forme di vita acquatiche...»

    [...]


    Una volta arrivati ad aspettarci trovammo una guardia. Dalla cima delle mura si dominava tutto il deserto. Mi detti un’occhiata intorno: sul bordo dell’imponente struttura rocciosa si notava bene l’impronta lasciata dalle chiappe del defunto, circondate da una miriade di impronte. Impossibile definire quali fossero le sue e quali no. Chiesi alla guardia se potevo fargli qualche domanda. Visto che mi rispose di sì, cominciai.

    «Ehm, come mai nessuno ha notato Otomo quassù in cima alle mura? Voglio dire, questo posto pullula di guardie, e mi risulta difficile credere che nessuno abbia notato la presenza di un non addetto ai lavori che se ne sta seduto qui per poi lanciarsi giù. Qualcuno avrebbe dovuto vederlo...»

    Mi rispose che non ci avevano fatto caso in quanto era abitudine del morto andare a riflettere proprio sulle mura, e che quindi non era sembrato strano che lo facesse anche quel giorno. Disse però che lo aveva sentito canticchiare qualcosa, una specie di canzone mentre fissava il niente sotto di lui.
    “Strano...è piuttosto strano che un aspirante suicida canti prima di farsi un volo giù dalle mura.”, pensai, intenzionato a chiedergli di che canzone si trattasse. Il bonzo però mi precedette. Ascoltai in silenzio la risposta del monaco, riflettendo su quella storia che cominciava a farsi piuttosto interessante

    [...]


    Avrei voluto fare molte più domande alla guardia, ma il suo viso sconsolato mi fece desistere. Avrei scoperto quello che volevo sapere in altro modo. Lui sembrava davvero dispiaciuto per la morte di quello sconosciuto, tanto da lasciare un fiore nel punto in cui aveva deciso di interrompere prima del tempo la sua vita. Allo stesso modo, anche Luxeifer mi pareva dispiaciuto.
    Dopo esserci congedati dalla guardia ci dirigemmo verso un altro punto di ritrovo, dove avremmo dovuto incontrare un amico del signor Otomo. Durante il tragitto mi avvicinai al monaco.

    «Senti, onorevole Luxeifer-sama, per caso conoscevi questo Otomo? Non sono pratico del Villaggio di Suna, e vorrei sapere chi era e come mai ha suscitato così tanto interesse. A casa mia non scomodano ninja di altri villaggi per indagare su un semplice suicidio...sempre che ci sia qualcosa da indagare in un suicidio. Anche se, devo dire, questo appare piuttosto strano. Se davvero questo Otomo era così conosciuto e rispettato, che motivo aveva di togliersi la vita? E poi, perché saltare dalle mura? Avrebbe potuto farlo in maniera più discreta, magari impiccandosi.»

    Mentre ascoltavo la sua risposta arrivammo alla casa del nostro contatto. Ci stava aspettando davanti alla porta. Si trattava di un uomo piuttosto in là con gli anni, anche se non lo avrei definito un vecchio. Indossava una pesante tunica scura con striature azzurre, e aveva il viso sfregiato da una cicatrice che gli andava da orecchio a orecchio. Sembrava aver passato qualche notte insonne, oppure aver smesso di piangere da circa mezzo secondo.
    Si presentò come Imuz. Il senso degli occhi lucidi e delle occhiaie divenne evidente quando disse di essere uno degli amici più intimi del morto. Quindi si disse molto commosso dal fatto che fossimo venuti a rendere omaggio al suo amico, aggiungendo che sarebbe mancato a tutti.
    Ora, mettiamo in chiaro una cosa: io non lo conoscevo, e non la avrei conosciuto più. Però le parole di quell’uomo, così sincere, così sentite, così vere, smossero la mia scorza più dura e figa, rivelando il tenerone che si annida dentro di me. Ormai i morti mi circondavano: morti ammazzati, morti suicidi, morti per errore. Per un attimo rividi la testa di Kei rotolare sull’erba. Mi si inumidirono gli occhi, e mi sentii davvero vicino a quel tizio che aveva perso un amico. Mi inchiani.

    «Sono onorato di poter essere qui oggi. E lo dico pur non conoscendo il signor Otomo. Non so quali fossero i suoi meriti, quali le sue imprese. Però sono certo che una morte non fa mai piacere, specialmente a quelli che erano vicini al dipartito. So che non vale molto, ma la prego di accettare le mie più sentite condoglianze, e la promessa di fare tutto il possibile per lei e per la memoria del suo amico.»

    Rimasi inchinato fino alla fine della frase. Quindi entrammo in casa, seguiti dal vecchio. Attraversai quella porta in maniera con animo molto più serio di quando ero arrivato a Suna. Non era più solo una giocosa investigazione in cui figheggiare. Forse questo vuole dire crescere: perdere l’idiozia tipica del bambino e guadagnare la serietà dell’adulto.
    Beh, a conti fatti, non credo che riuscirò mai a crescere molto sotto questo aspetto.


     
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40 replies since 11/10/2010, 13:54   576 views
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