Canzone del deserto

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  1. C a n n e l l a
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    Humpty Dumpty
    Parte 4


    La musica ci avvolgeva come in un sogno. Il tramonto, con il suo manto color pastello, si sposava con quella nenia, e dal loro rapporto nacque un’illusione. L’illusione di qualcosa di indefinitamente opprimente, anche se non triste. Gelido, a modo suo, ma decisamente umano. Le note del flauto mi confusero al punto che quasi non mi resi conto del momento in cui si erano fermate. Quando me ne accorsi, non feci in tempo a chiedere a Lux cosa ne pensasse che quelle si levarono di nuovo, in un folle crescendo: una disordinata cacofonia. La piazza già si apriva davanti a noi, sempre più scura contro il cielo all’imbrunire.

    Darei qualsiasi cosa per non essere entrato a corsa nella piazza. D’altro canto, se mi fossi avvicinato lentamente, non credo avrei avuto il coraggio di entrarvi. Non credo che il più truculento dei macellai sarebbe riuscito a reggere quello scempio: l’intero vuoto tra le case era teatro di quello che, a prima vista, poteva essere preso per il massacro di un intero villaggio. Ma, purtroppo, si trattava di una sola persona. Sparpagliata (non trovo altre parole per descriverlo) per l’intera piazza. Il corpo vero e proprio si trovava nel mezzo, orrendamente squarciato, gli organi interni esposti e riversi sul selciato. Prima di allora avevo visto una sola immagine più disgustosa e scioccante: la testa di Kei che rotolava sull’erba dopo un teletrasporto andato decisamente male. Il mio stomaco non resse il colpo. Alla vista di quel corpo mutilato e sventrato tutto il suo contenuto andò a far visita al terreno. Dopo essermi salutarmente svuotato le viscere, mi asciugai la bocca, e il sapore acido mi fece ritornare in me.
    Mi avvicinai con cautela. Cosa diavolo poteva aver ridotto così quell’uomo? Di sicuro non un altro essere umano, o quantomeno non con armi a me note. Vari parti del corpo erano sparse per la piazza. Impossibile che un colpo di spada o una tecnica avessero provocato quello sfacelo. Mi avvicinai, sempre lentamente, mentre la sera scendeva a coprire, almeno in parte, la mattanza.
    Giunto che fui ad una distanza sufficiente, notai due cose che mi sconvolsero, se possibile, ancora di più. Quell’uomo non era ancora morto, e si teneva aggrappato alla vita con quel poco di corpo che gli rimaneva. Evidentemente le ferite non gli avevano danneggiato gli organi interni, condannandolo ad una lenta morte per dissanguamento. In secondo luogo mi resi conto che quell’uomo lo conoscevo: neppure un’ora prima lo avevo visto fuggire da un tetto, dopo averci lanciato un sasso. Quegli occhi erano inconfondibili, così come la barba, benché imbrattata di sangue. Doveva essere lui, inoltre, il misterioso suonatore: nell’unica mano rimastagli teneva stretto un flauto, ancora avvicinato alla bocca, come se il poco fiato che ancora lo attraversava fosse potuto bastare anche per lo strumento.
    Diede segno di avermi notato fissandomi con quelle profonde schegge di ghiaccio. Non poteva evidentemente parlarmi, ma con quello che parve uno sforzo immenso intinse un dito nel suo stesso sangue e prese a scrivere qualcosa sul selciato. Capii subito di cosa si trattava: erano note, un’altra parte della sonata di cui Lux teneva in affidamento le varie parti ritrovate da Hoshi. Subito tirai fuori dalla tasca un paio di sigilli. Il desiderio di non far andare sprecato il messaggio del moribondo mi spinse ad inzuppare un dito nel suo sangue, e trascrivere quindi sui pezzetti di carta le note che contemporaneamente tracciava sul terreno. Quando ebbe finito (e l’ultima parte della musica fu al sicuro nelle mie tasche), il moribondo scrisse una frase, stavolta in un linguaggio comune: “Anche nella musica, siate ninja”. Parole ben strane per un moribondo. Con un ultimo sforzo mi consegnò il flauto, e spirò lentamente, guardando il cielo diventato nero.

    Mentre mi rialzavo in piedi mi sorsero spontanee parecchie domande: prima di tutto, qual’era il ruolo di quello spartito nell’intera faccenda? E perché quell’uomo era stato ucciso così brutalmente? Da chi, poi? Chi aveva materialmente la capacità di devastare un corpo umano fino a quel punto? E anche l’uomo, perché aveva trasmesso loro (semplici ninja in missione di rappresentanza) quelle note come ultimo atto in vita? E Otomo, e Imuz che cosa aveva a che fare con tutta quella storia? Ripensai mentalmente agli indizi scritti sul taccuino di Hoshi, ma non ne cavai nulla. Quell’omicido così brutale sembrava non avere niente a che fare col presunto suicidio di Otomo. Però c’era la musica a collegare le due cose. Entrambi erano morti suonando quello spartito. Che fosse maledetto? Improbabile, anche perché l’estremo gesto dello sconosciuto morto ai miei piedi era stato di darmi lo spartito stesso e il flauto, dicendomi praticamente di suonarlo. Forse dovevo davvero farlo...

    Non feci in tempo a provare: le mie cogitazioni vennero interrotte da un urlo più che disumano. Un urlo di bestia, tremendamente vicino.
    Alzai il capo e lo vidi, là su un tetto: grande più o meno come un essere umano, non aveva con la gente comune nessun altro tratto in comune. La testa, stagliata contro la luna, ricordava molto un cranio di lupo. Un braccio era oscenamente sproporzionato, muscoloso e artigliato. Decisamente poco umano. Il mostro terminò il suo ululato di gioia. Ero ammutolito. Non riuscivo a pensare ad altro che all’abominio che avevo davanti. Il sangue che grondava dal suo braccio gargantuesco non lasciava dubbi su chi fosse l’omicida del poveraccio il cui cadavere era stato sparso come foglie al vento. La bestia sembrava volersi allontanare. E non potevo permetterlo.
    Dovevamo prendere una decisione, e in fretta. Il mio cervello, spronato dall’adrenalina, correva veloce.

    «Lux, dobbiamo fare alla svelta. Dammi subito i pezzi di spartito che prima ti ha dato Hoshi: voglio provare a suonare questa melodia. Credo che la chiave sia al suo interno, e devo provare. Ho un’infarinatura di musica, e credo di poterla eseguire. Quel mostro sembra volersela dare a gambe. Quello che ti chiedo e di provare a inseguirlo. Se possibile attaccagli addosso uno dei miei sigilli. Eccotene uno. Io ti verrò dietro più lentamente, suonando la melodia. Anche tu non ti avvicinare troppo. Ho paura che quella cosa sia spaventosamente forte, e non voglio rischiare che tu muoia. Seguila, vedi dove va. Se si ferma lancia in aria il kunai di Hoshi. Eccola qua. Io ti raggiungerò subito, e spero che anche Hoshi faccia lo stesso. Se possibile evita di farti notare, evita il combattimento. Ora va, Luxeifer-sama, e che la buona sorte ci aiuti!»

    Gli detti un sigillo e il kunai esplosivo che mi aveva dato Hoshi poco prima. Ormai era mio dovere capire che diavolo stava succedendo: quella storia mi aveva intrigato, lo ammetto, e non riuscivo a pensare ad altro che alla risoluzione di quel caso all’apparenza impossibile.

    [...]


    Se Lux fosse stato d’accordo come me, avrei preso i pezzi di spartito e sarei corso a prendere una lanterna alla casa più vicina, per poter leggere anche al buio. Quindi mi sarei avviato dietro il mio compagno e la belva. Avrei provato a suonare. Il flauto non era uno strumento nuovo per me: già una volta, da piccolo, ne avevo avuto uno e mi divertito a strimpellare note. Ero inoltre sempre in grado di leggere uno spartito. Sforzandomi con tutto me stesso {Interpretazione}, avrei avvicinato il flauto alle labbra e avrei cominciato a seguire le note che si avvicendavano sullo spartito.

    [...]1


    Se invece Luxeifer-sama non fosse stato d’accordo col mio piano d’azione, avrei atteso che si esprimesse, sempre lanciando occhiate fugaci verso il mostro, pronto a scattare all’inseguimento al minimo accenno di fuga. Ero abbastanza sicuro di potergli tenere dietro per un po’.

    SPOILER (click to view)
    1: Chiedo esito della mia prova di suonare il flauto (non sapevo con che diavolo di abilità provare se non Interpretazione).


     
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40 replies since 11/10/2010, 13:54   576 views
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