Messa a punto

Perfezionamento di un ninja [Villa Kobayashi]

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  1. Arashi Hime
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    Y Danone
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    G O D S:
    Follow your inner moonlight; don't hide the madness.

    Ritsuko's devotion and Shizuka's madness




    divisore





    Ritsuko Aoki era nata per Shizuka Kobayashi.
    Concepita con insistenza quasi violenta era stata partorita con sollievo tre mesi dopo la nascita della bambina che avrebbe dominato tutta la sua esistenza.
    Sottratta ancora insanguinata dal ventre di sua madre, che non conobbe prima dei quattro anni sotto le vesti della sua maestra, venne condotta a Konoha da un luogo imprecisato della geografia conosciuta, laddove sorgeva il remoto villaggio che ospitava la preparazione della dinastia Aoki, un Clan vassallo di cui nessuno conosceva l'esisteva se non in un remoto angolo di memoria che, di tanto in tanto, per quel genere di scherzi della mente che inducono a ricordare virgole fuori posto completamente inutili, accompagnava il nome del Clan Kobayashi.
    Si diceva che gli Aoki fossero il risultato della preghiera della prima generazione dei Kobayashi, che supplicarono gli dei Izanami e Izanagi di poter essere protetti e tutelati così da riuscire nella creazione di un impero forte e solido.
    Come spesso accade per le grandi persone destinate a cambiare il mondo, gli Dei non si ritraggono dinnanzi a simili umane richieste e appoggiano dunque la creazione di imperi, la fomentazione di guerre e il canto di rivolte, cosicché la storia prosegua, vada avanti e maturi nel futuro.
    La storia dunque narra che di fronte al focolare di preghiera cui i primi capi della futura K. ricamata a filo d'oro si rivolsero, le loro ombre si levarono dal pavimento e presero la forma di uomini e donne. Essi, il vento silenzioso della notte, tagliente come la lama che li avrebbe serviti e protetti per sempre, non avevano un'anima propria, che condividevano infatti con quella dei propri signori, e vivevano dunque loro accanto poiché la loro esistenza, lontani da essi, non era nient'altro che illusione. Notte. Leggenda.
    Non esiste nessun Aoki che prescinda da alcun Kobayashi, secondo l'ordine, il patto, che intercorre tra le loro dinastie da sempre. E da prima di quel sempre.
    Ritsuko Aoki, dunque, non poteva esistere senza Shizuka Kobayashi.
    Nata per lei, era stata addestrata perché ella non subisse alcun danno e potesse perciò scalare la vetta verso il suo ruolo da capoclan senza che niente e nessuno potesse intralciarla.
    Non ci sarebbe stato niente di abbastanza orribile che Ritsuko era stata avvisata di poter fare per proteggere la sua Dea. Era stata addestrata, durante quei lunghi viaggi in cui la sua signora era intenta in quel tipo di educazione da Principessa che ad un'ombra dimenticata non spetta; a uccidere, spiare, corrompere. Avrebbe giaciuto con uomini e con donne per permettere alla sua signora di avanzare. Le sue braccia avrebbero potuto essere state amputate e la sua bocca cucita. Avrebbe ingurgitato sassi se questo fosse servito.
    E questo, perché lei non era nient'altro che la serva di una Principessa superiore. Di una stirpe benedetta dagli Dei.
    I Kobayashi: I Principi di Konoha...
    ...non vi era niente, niente che sarebbe stato considerato “troppo” dalla morale che non era stata educata ad avere. E se lei fosse morta cercando di adempiere al suo ruolo, qualche altra donna della sua stessa età, del suo stesso sesso e con il suo stesso cognome -persino nome se questo era di gusto della Principessa- l'avrebbe sostituita, riprendendo il suo dovere da dove lei aveva terminato.
    Non erano nient'altro che spie. Assassini. Mercenari. Demoni. La feccia peggiore del mondo conosciuto. Rigurgiti del creato che sprofondavano più in basso di chiunque altro credesse di essere al loro livello ma si permetteva di far conoscere il proprio nome, di possedere un'individualità. Un'identità.
    Erano niente. Erano tutto. Aoki.
    Possedevano un nome per desiderio di coloro che erano riusciti ad incatenare la loro fedeltà, di accettare la grottesca sfumatura di orrore che rappresentava il loro essere vivi. Avevano vesti perché così era ordinato loro. Parlavano e respiravano per gentile concessione di quelli che, ai loro sudici occhi velati di fango e sangue, erano Dei misericordiosi, pronti ad accettare “qualcosa” che nessuno avrebbe solo potuto comprendere.
    Ma quegli Dei li possedevano. Li ghermivano. Li avevano.
    Se un Kobayashi avesse ordinato ad un Aoki di mangiare feci e poi uccidersi, quell'Aoki lo avrebbe fatto, accecato da una forma di fanatica e disperata felicità per essere stato scelto in prima persona. Per poter morire per una causa superiore alla sua pietosa vita...
    ...così, almeno, era stato per secoli. Un tempo così lungo che la riverenza e il desiderio di obbedienza era entrato a far parte del sangue di quei vassalli a tal punto che il senso del dovere si era sostituito ad un più piacevole desiderio di aiutare e un sincero amore.
    Come cani addomesticati e allevati di figlio in figlio, gli Aoki avevano maturato nel tempo un rispetto genuino e un vero senso di servizio che niente avrebbe potuto spezzare. Eppure, era solo stato quattro generazioni prima che i Kobayashi avevano iniziato a maturare una percezione di umanità nei loro schiavi. Un senso di responsabilità nei loro confronti. Di gratitudine, persino.

    E poi vi era Shizuka Kobayashi.

    Lei andava oltre ogni altro Capoclan esistente. Oltre persino suo padre, che aveva accettato Mamoru Aoki come migliore amico, confidente e consigliere. Che aveva diviso il suo cibo con nient'altro che il suo squallido Kumori, l'ombra che guidava la sua vita, offrendo lui il suo riso e il suo pianto. Le sue intenzioni. Le sue idee.
    Shizuka andava ben oltre e di Ritsuko Aoki aveva fatto la sorella che non aveva mai avuto.
    La giovane Principessa amava la sua sottoposta come se ella fosse sangue del suo sangue, aveva offerto lei l'educazione di cui lei stessa aveva goduto, i kimono più belli che aveva indossato, i balocchi quando erano bambine e le opportunità che a lei non erano mai mancate quando erano divenute adulte.
    E Ritsuko aveva allora capito che era un essere umano e non l'ultima boccata di fiele del peggior Clan di rifiuti del mondo. Che era viva. E nell'esserlo, era amata.
    In quel momento, aveva capito di amare Shizuka Kobayashi. Di amarla più di quanto fosse concesso ad una donna verso un'altra donna. Di amarla come non aveva mai amato neanche se stessa.
    L'amava perché le aveva dato un nome, la vita e la sua ragione di viverla, e l'amore che sapeva di non poter mai avere se non per produrre un figlio che avrebbe servito un altro Kobayashi.
    L'amava e l'avrebbe amata per sempre, anche se suo fratello avesse tradito Konoha per rincorrere un ideale lontano e lei fosse stata imprigionata in un luogo dimenticato per impedirle di seguirlo. Anche se il suo animo fosse stato corrotto da una maledizione che sembrava essere nient'altro che una lontana leggenda. Anche se la sua bontà innata si fosse trasformata in oscurità e la sua Principessa fosse diventata la Regina della notte.
    L'avrebbe amata anche quando si sarebbe accorta di essere innamorata di un uomo con cui si sarebbe spostata per dare al suo Clan dei discendenti. L'avrebbe amata anche se lei stessa sarebbe prima o poi stata costretta a sposarsi per la stessa ragione.
    E l'aveva amata anche quel giorno, quando Kurotempi aveva irrotto in Konoha per portarla via e lei era quasi morta per proteggere la sua gente, rinunciando a se stessa per il bene di loro. L'aveva amata quando la sua rete di informazioni aveva scoperto essere corrotta, quando lei era stata guidata troppo lontano perché, nel momento fatidico, potesse accorrere accanto alla sua Signora rivelando la sua vera abilità e le sue reali capacità, sconfinate, affilate. Aveva continuato disperatamente ad amarla correndo tra gli alberi, mentre rovi e alberi graffiavano le sue vesti, e lei tornava al villaggio con la velocità del vento, facendosi lei stessa vento.
    L'aveva amata quando aveva pianto, di fronte al suo corpo sventrato. Di fronte ai tentativi dei medici di rianimarla. Dei sigilli sul suo corpo nudo e lordo di sangue. Dei suoi occhi semi-aperti e vuoti.
    L'aveva amata anche in quei minuti in cui l'aveva creduta morta. In cui aveva deciso che si sarebbe uccisa e l'avrebbe seguita. E non perché così doveva essere, ma perché una vita senza Shizuka non poteva esistere.
    L'aveva amata e l'amava oltre tutto questo...

    ...ma tutto ciò che comparve sul suo volto, fu solo un sorriso.
    Ritsuko Aoki, immobile nel cortile della magione, venne investita dalle parole di Raizen Ikigami come avrebbe potuto esserlo da una pioggia di spade, eppure non si mosse, né replicò.
    Rimase in silenzio, ferma, con i suoi profondi occhi blu puntati in quelli scarlatti del Jonin, e allora sorrise ancora una volta. E lo fece perché sapeva che egli aveva ragione.
    Raizen Ikigami, il Colosso rude e volgare della Foglia, il peggior mercenario, si diceva, delle Terre del Fuoco, non avrebbe creduto ciecamente alla sua rete d'informazioni come lei aveva fatto. Mai tradita da quella fitta rete di ragno creata e imboccata decade dopo decade dalla sua dinastia, Ritsuko aveva ceduto alle sue informazioni come una bestia al suo istinto, sicura di non sbagliare. Ma aveva sbagliato.
    Lui, invece, di quelle informazioni, se ne sarebbe “fottuto”. Avrebbe riso, sputato a terra, bestemmiato e poi, fregandosene di tutto, lamentandosi addirittura, sarebbe andato da quella “cogliona”. Aiutandola. Proteggendola, forse.
    Volgendo i suoi occhi in direzione della sua Principessa, intenta ad osservare la sua divisa ninja come fosse la prima volta che la vedesse, e poi verso colui che le sostava al fianco, la Aoki sorrise ancora e, infine, si inchinò.
    «Buon Viaggio, miei signori.» Si limitò a ripetere, rimenendo abbassata, e così rimase fino a quando la figura della sua signora e quella del Colosso svanirono.
    Fu solo per il tocco gentile della mano di Akihiko Kobayashi sulla schiena che lei, solo molto dopo, fu in grado di alzare la testa.


    . . . . .


    Beh, cosa aspetti a parlare?
    Vuoi una richiesta in carta bollata?



    Non era molto sicura di come aveva fatto ad arrivare lì. Per la verità non era sicura di molte cose, nell'ultimo periodo.
    La sua mente viveva in una sorta di paradiso morbido e silenzioso, in cui la voce degli altri arrivava lei distante e sfocata dandole perciò la possibilità di vivere solo dei suoi pensieri e della sicurezza calda e accogliente che questi le offrivano.
    Di tanto in tanto si rendeva conto che chi la circondava appariva contrito, ferito addirittura, o arrabbiato. Capitava allora che si sentisse in dovere di dimostrare loro che andava tutto bene, e concentrandosi al massimo delle sue possibilità si impegnava a scindere il perenne mormorio di fondo, quello sotto all'ovatta presso cui riposava, in frasi distinte e domande desiderose di risposta. Spesso dimenticava parte di ciò che ascoltava prima di avere il tempo di pensare ad una risposta, e allora si limitava ad annuire e intervenire solo su quella parte di discorso di cui ricordava i lineamenti. Purtroppo però i suoi tentativi, per quanto sinceramente rivolti, sembravano riscuotere l'effetto opposto a quello desiderato e spesso, mentre rimaneva assorta a contare gli intrecci del tatami della sua camera, sentiva Ritsuko piangere sommessamente fuori dalla porta.
    In verità, non ne capiva la ragione.
    Davvero, non la capiva.


    ...ono il migliore degli strizza cervelli, però se mi dici cosa ci fai con quella cicatrice sul petto e con quella faccia da straccio...




    La gente non riusciva a capire quante cose riuscisse a valutare adesso, rispetto a prima. Adesso che, finalmente, poteva pensare solo a se stessa.
    Faceva cose incredibili, cose che prima non avrebbe mai pensato di avere il tempo di fare, e in un certo senso quella circostanza le dava sicurezza. Il fatto, improvviso e sconvolgente, per cui nessuno sembrava aspettarsi più assolutamente niente da lei, la consolava.
    Era felice.
    Contare le foglie di un albero era qualcosa che, da bambina, sognava di poter fare, un giorno. E poi rifare dopo l'inverno, per vedere se la natura, birbante, avesse contato male.
    Dormire cullata dal canto degli uccelli. Leggere haiku ogni giorno, tutto il giorno.
    Non vi erano più pretese verso di lei, né quelle in cui era cresciuta, né quelle altre che si era imposta. Nessuno la guardava più con gli occhi di rimprovero che cercano di spingerti a fare di più, sempre di più, come se tu non conoscessi limiti e non avessi una fine a cui, prima o poi, arrenderti.
    Nessuno, semplicemente, la guardava. Il volto, forse, con grande fatica. Dal mento in giù, però, nessuno più osava posare gli occhi.


    ...appe perennemente al caldo magari abbiamo qualcosa di cui parlare anzic...




    Raizen.
    Erano mesi che non lo vedeva. Anni, forse.
    Forse non lo aveva mai incontrato.
    Perché era lì?
    I suoi occhi erano strani. La percezione di lui, diversa.
    «Sei malato?» Avrebbe domandato improvvisamente la Principessa, interrompendo il Colosso come se nulla fosse, ma poi sarebbe subito sprofondata in un altro silenzio.
    Era diverso. O forse non era mai stato più uguale di ora. Forse era lei che era diversa.
    Si chiese, scioccamente, cosa potesse delineare allora qualcosa di normale da qualcosa di anormale e qualcosa di giusto, invece, da qualcosa di sbagliato.
    Dov'è che finiva l'oscurità e dove iniziava la luce, precisamente?


    ...Nel senso, parliamoci chiaro...




    Roccia. Odiava la roccia in inverno.
    Improvvisamente si accorse di essere seduta in terra. Le ginocchia disordinatamente scomposte al suolo e la schiena ricurva in avanti. Il suo volto era in parte coperto dai suoi capelli. Lei era vestita.
    Quando andava in missione era spesso costretta a sedere in luoghi del genere, o anche altrove, roba molto peggiore. Non ci poteva fare niente. Era il suo lavoro.
    ...No?


    ...sarebbe anche romantico, ma non sono mai stato romantico...




    Romantico.
    La voce le sembrava cambiata, come arricchita da qualcosa di più caratteristico e intrigante. Quella di prima le piaceva poco, la considerava quasi nasale. Come il verso di quell'animale che canta sempre alla mattina, quando lei è ancora sveglia e guarda fuori dalla finestra perché non ha ancora preso sonno, e le tende rosa pallido, quasi antico, che beccheggiano silenziose di fronte alla finestra chiusa. Ritsuko dorme per terra, in fondo alla stanza. Vestita. In mano ha qualcosa, un flauto.
    No. E' un coltello.
    Reclinando leggermente la testa di lato, Shizuka apparve perplessa. «Perché ha un coltello?» Domanda.
    Non ci aveva, in effetti, mai fatto caso. Lo porta spesso con sé, ultimamente. Sembra terrorizzata, come se qualcosa possa arrivare da un momento all'altro e lei non si senta pronta per affrontarlo.
    Non l'ha mai vista così... spaventata di non riuscire in qualcosa.
    «Nemmeno io sono romantica.» Si limitò ad esclamare dopo qualche attimo la ragazza, alzando lo sguardo verso il suo interlocutore. I suoi profondi occhi verdi si dilatarono, cristallini. «Non ci riesco, sai, divento impacciata, sbaglio tutto...» Scoppia a ridere, e ricorda di quando, molti secoli prima, un uomo dai capelli d'argento l'aveva fatta sentire in quel modo. Impacciata.
    Come una bambina.


    Insomma, ti tocca parlare, io dopo un po’ parto con le stronzate a ruota libera.




    Nitide.
    Le parole improvvisamente le apparvero nitide, come se per un istante un velo si fosse sollevato e lei si fosse ritrovata a guardare qualcosa che prima di quel momento le era apparso appesantito da una coltre.
    Sollevò le sopracciglia, stupita. Poi alzò lo sguardo, e a quel punto parve essere ancora più incredula.
    «Raizen!» Esclamò, come se fosse davvero quella la prima volta che lo vedesse. «Ma dove sei stato tutto questo tempo?! Hai idea di quanto io ti abbia cercato, di quanto ti abbia voluto accanto a me?!» Adesso sembrava fuori di sé dalla rabbia. «Jaken è tornato, io ho provato a salvarlo, ma è stato esiliato! Masayuki è morto!» Si interruppe e, per un secondo, un'espressione stranita le si dipinse in volto come se quello che avesse appena detto fosse stato in grado di aprire il livello di una realtà diversa da quella in cui lei sembrava trovarsi. L'impressione, però, durò appena un secondo e la ragazza, scossa da un fremito, tornò calma.
    Sembrava un dipinto reso stanco dal tempo e dalle intemperie, lasciato fuori alla pioggia e sbiadito. Un dipinto vive per chi lo guarda, ma se nessuno può più vederlo, non diventa forse tela bianca?
    «Sai...» Disse ad un certo punto, e sorrise. «...un certo tipo, un nukenin, è venuto a Konoha. Mi ha messo un collarino, mi parlava da un microfono installato lì. Ha detto che era di Kurotempi, o qualcosa del genere.» Ridacchiò, come se la situazione la divertisse. «Era un Uchiha. Un creatore.» Tacque. «Come me.» Univa la punta delle dita della mano con quelle dell'altra. «Kurotempi è interessato a chi, come me, ha corrotto la sua innata. C'erano delle bombe. E una brocca d'acqua. E io dovevo, sai, solo rispondere agli indovinelli, ma sono così intelligente che non era un problema, però ho sbagliato a rovesciare l'acqua perché ero così accecata dalla rabbia...» Sospirò, facendo spallucce, e a quel punto alzò lo sguardo al cielo. Sembrava sbiadita. «Così ho fatto saltare in aria tutta Konoha e ho ucciso ottanta persone. Ho contato le lapidi, ho chiesto scusa, e ho ripagato qualche danno. Beh, poi sono tornata a casa, che dovevo fare? Stavo morendo, in ospedale, io. Ero così stanca che, davvero, ho sempre voglia di dormire ultimamente...» Borbottò, poi, come se stesse spiegando una cosa elementare, si zittì, sorridendo gentilmente.


    divisore




     
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