Messa a punto

Perfezionamento di un ninja [Villa Kobayashi]

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  1. Arashi Hime
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    G L A C I A L:
    Do not go gentle into that good night but rage, rage against the dying of the light.

    Shizuka Kobayashi's face




    divisore





    Shizuka Kobayashi era una mercante. Come tale, aveva fatto della parola e dell'intelligenza la sua arma vincente nella vita. Anche nel mondo Shinobi, infatti, laddove la forza bruta sembrava regnare su arguzia e silenzio, la Principessa del Clan Kobayashi non aveva mai smesso, neanche per un istante, di credere di poter vincere una battaglia senza combattere. Di ottenere ciò che desiderava, semplicemente facendo in modo che l'oggetto del suo interesse si avvicinasse a lei spontaneamente.
    Nonostante ciò, non sembrava più desiderosa di parlare.
    Mentre Raizen discuteva, con la sua solita rude schiettezza, alternando frasi di scherno o di offesa a forme più affettuose di preoccupazione, Shizuka rimaneva assorta in altri pensieri, poco interessata ai discorsi del suo maestro, come se lo slancio di poco prima fosse stato nient'altro che appannaggio di un entusiasmo perduto.
    In qualche angolo remoto e dimenticato della sua mente, in quella parte ancora lucida e senziente del suo essere una grande osservatrice e una valutatrice di vite e inclinazioni, sapeva cosa stava cercando di fare il Colosso di Konoha. Come già era accaduto in passato, in modi diversi, più violenti forse ma non meno efficienti, cercava di entrare nella sua mente, di dissipare le ombre che l'avvolgevano e di tirare i fili di un gioco di spaghi che aveva costruito attorno a lei una gabbia difficile da aprire.
    Ad essere onesti, però, quella consapevolezza non la entusiasmava. Non le piaceva.
    Non era sicura di voler seguire le parole del suo maestro, di quel ragazzo quasi suo coetaneo che negli anni aveva assunto più le vesti di un fratello o di un migliore amico che di un mentore. Non era sicura, in un certo senso, di voler uscire dal caldo nido accogliente in cui si trovava. Certo, poteva essere una gabbia quell'intreccio di nodi e fili che vedeva chiuderla in una sfera perfetta, ma dentro d'essa vi erano ovatta e sete pregiate e lei, abbandonata nella morbidezza di assenza di decisioni e nella felicità di non dover più offrire alle persone ciò che loro si aspettavano facesse, viveva bene. E non aveva nessuna intenzione, perciò, di interrompere quel soave stato di grazia.


    Siamo precisi, tu non sei stata solo a dormire e riposarti, sei stata la bellezza di non so quanto, ma di sicuro era tanto tempo visto che ti davano ormai per spacciata -e non so quanto sia corretto parlare al passato- , sta di fatto che eri in stato catatonico, e credimi, devi essere un individuo profondamente stronzo per ridurti in quello stato.




    Non aveva assolutamente idea di cosa avesse detto prima di quella frase.
    Come spesso accadeva da qualche settimana, le parole degli altri le arrivavano a tratti, spesso frammentarie, e lei si limitava dunque ad accogliere quello che sentiva come l'unica cosa effettivamente detta, come se il movimento delle labbra del suo interlocutore non fosse nient'altro che un vizio da eliminare, poco educato e per niente simpatico, una sorta di balbuzia muta che certe volte, persino, la infastidiva.
    Ancora seduta al suolo, curva in avanti e per niente desiderosa di alzare lo sguardo in quello del Jonin, Shizuka assorbì dunque passivamente le parole che le erano state dette e, dopo un lungo attimo di silenzio, raggiunse la conclusione che non sapeva come rispondere, pertanto annuì.
    Annuì come faceva ormai per qualsiasi cosa, quando la sua mente non sembrava reagire agli stimoli, giacché di solito questo bastava ad indurre nel suo interlocutore uno stato di convinzione che sembrava suggerire la felicità di essere finalmente stato ascoltato e di aver raggiunto qualcosa di grandemente ambito.
    Non che le importasse, ormai, cosa diavolo pensasse la gente.


    Per cui, ora, interagiamo




    Era stanca delle persone. Di tutte. Di quelle buone e di quelle cattive.
    Era stanca dei sentimenti umani, da cui non era mai riuscita ad estraniarsi, come da bambina, quando piangeva se vedeva qualcuno piangere, ferita come quell'estraneo di cui sentiva in dovere di condividere i sentimenti. Diventando adulta, le cose erano cambiate poco. Faceva sue cause in cui non c'entrava niente, si faceva carico dei problemi degli altri come fossero i propri, era pronta a rischiare la vita per gente mai vista, e benché si approcciasse ormai alla vita con quel tono di sufficiente e divertito sarcasmo che aveva portato all'estremizzazione della sua forma da quando era divenuta kunoichi e, in particolare, allieva di Raizen, sotto quella scorza rude e strafottente si nascondeva ancora la stessa bambina che regalava i suoi dolci ad un bimbo sconosciuto cui erano caduti in terra e che rinunciava a qualcosa per offrirlo a suo fratello.
    In cambio, però, non aveva mai ottenuto niente.
    Crescendo si era resa conto che la gente guardava solo ciò che veniva mostrato perché non aveva voglia di scavare, di comprendere la verità dietro l'apparenza, e non era perciò importante quanto si sforzasse, spesso veniva persino derisa dalla sua voglia di porre in pericolo se stessa in prima persona per qualcuno che non conosceva.
    Aveva dato a suo fratello il mondo, e suo fratello aveva tradito il villaggio e il suo Clan. Aveva tradito lei, lasciandole solo un biglietto sciocco e sintetico che ancora non riusciva a interpretare.
    Aveva dato tutto a Konoha: i suoi allenamenti, le sue fatiche, i proventi delle sue missioni. Aveva accettato i lavori più umili che nessuno voleva, perché anche se mal pagati dietro una richiesta d'aiuto si celava qualcuno che aveva bisogno, eppure adesso quello stesso villaggio, l'amministrazione instaurata al posto di un Hokage che non sapeva più se esisteva o meno, la voleva fuori da lì, perché una ricercata troppo pericolosa da tenere in casa.
    Per quanto tempo i Kobayashi avrebbero insistito a tutelarla? A tenerla al riparo della magione principale, prima di spostarla in qualche filiare sconosciuta, lontana, in una montagna aspra e silenziosa di cui nessuno avrebbe saputo la collocazione?
    Sorrise. e insensatamente fece spallucce.
    Aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per continuare a pensare che il bene vincesse sul male e che anche in un mondo in cui il ninja, un mercenario al servizio di una causa che poteva variare, poteva seguire un ideale di giustizia e bontà. E tutto questo mentre lottava contro una Kekkei Genkai che la snaturava, che la divorava dall'interno, che la rendeva sempre più scura, sempre più cattiva, costringendola a vivere sul filo di un rasoio che separava ciò che è giusto da ciò che non lo è, un binomio mentalmente stressante che avrebbe fatto diventare pazzi chiunque. Chiunque.


    È di te che mi importa.
    O meglio.




    Era ricercata da gente che non sapeva nemmeno chi fosse, una sorta di cellula terroristica dal nome idiota che vantava gente dalle capacità inquietanti e straordinarie e che raccoglieva traditori, assassini e reietti da ogni parte del mondo shinobi. Non aveva neanche capito che cosa diavolo volessero da lei: il suo Sharingan? Il suo cervello? I suoi soldi, il suo titolo, il suo potere da erede?
    Non ne aveva idea, ma nonostante questo era rimasta infognata in quel caos e aveva ammazzato otto decine di persone, distrutto metà di un villaggio. Del suo villaggio. Aveva messo a lavoro, per spostare le macerie dalle strade, bambini di sette anni che avrebbero dovuto frequentare le lezioni all'accademia, e a servire i pasti donne incinte che avrebbero invece dovuto riposare e fare a maglia per i propri futuri figli.
    Non che avesse importanza quanto lei stessa avesse donato per il villaggio, quanto fosse stata chinata nel fango a raccogliere detriti, sotto il sole, la pioggia o la nebbia a riordinare, costruire, pulire. Ormai le sembrava che ovunque si girasse ci fosse qualcuno pronto a biasimarla con orrore per ciò che aveva fatto. E lei, questo, non lo poteva più tollerare.
    Aveva rinunciato alla sua parte candida in quella battaglia, si era abbandonata completamente all'energia degli Uchiha, alla sua stessa abilità innata, perché questa la dominasse e ne aumentasse le capacità, per poter rincorrere un Jonin traditore che voleva tenere lontano dalla sua amata Konoha, e che ovviamente l'aveva ridotta in fin di vita, lasciandola quasi morta. Eppure nessuno si era reso conto di questo, a suo avviso. Nessuno aveva capito, secondo lei.


    Diciamo che non avrei troppa pena a farti digerire.
    Non perché tu abbia in qualsiasi modo fallito, ma per il modo in cui lo fai.
    Parliamoci chiaro. Guardati allo specchio, se non ti fai pena è solo per autoempatia nel vedere il tuo riflesso.
    Spiegami dunque, devo proseguire oppure tutto questo ti è sufficiente per farti comprendere che mi interessa comprendere cosa è successo DOPO l’attacco?




    E poi c'era la gente che faceva supposizioni, perché non c'era altro che potesse fare. Che la interrogavano, ogni giorno da quel giorno. La polizia, i guardiani, l'amministrazione, suo zio.
    Isamu Uchiha veniva presso magione Kobayashi ogni giorno e ogni giorno si sedeva accanto a lei, la guardava, le prendeva una mano e le chiedeva di ripercorrere insieme a lui ciò che era avvenuto. Aveva ripetuto la stessa storia centinaia di migliaia di volte ad altrettante persone, talmente tante che lentamente le parole erano state memorizzate e alla fine la versione che offriva era sempre la stessa, almeno fino a quando non aveva cominciato a tacere, a rifiutarsi di farlo ancora. Si era zittita e da quel momento aveva aperto bocca solo poche volte.
    Era stanca.
    Era entrata nel mondo shinobi credendo di poter fare della sua innata bontà e della sua spiccata voglia di fare le cose per il bene degli altri, il nuovo verbo dell'essere un ninja. Lentamente, però, si era resa conto che i suoi tentativi non erano nient'altro che una goccia nell'oceano, inutili e invisibili. Era stata divorata, boccone dopo boccone, da tutto ciò che aveva visto, che aveva affrontato, che aveva cercato di superare con il sorriso sulle labbra.
    La gente attorno a sé moriva, spariva, tradiva. C'era chi le dava la caccia, chi la voleva morta, chi la proteggeva come fosse una pazza invalida. E lei era stanca di far quadrare tutte quelle visioni in un'unica: quella della se stessa reale.
    Era veramente stanca.
    Di tutto.
    Anche di Raizen.

    «Non è successo proprio niente.» Avrebbe voluto chiedersi da dove nascesse la sua capacità di rispondere così nitidamente, ma quando la rabbia cominciò a dilaniare i veli del suo freddo ed estraniamento dal mondo, non fu necessario porsi poi molte altre domande. «Cosa vuoi che sia successo, Raizen?» Chiese, freddamente. «Un'associazione terroristica che non sapevo neanche esistesse viene a Konoha, mi fa fare cose senza senso, io rinuncio alla mia integrità, alla mia parte “bianca” per cedere completamente alla mia innata, sperando di poter lottare contro un Jonin che con un solo sguardo mi getta in un Genjutsu che mi distrugge la mente, da cui esco sventrandomi da una parte all'altra, e mentre muoio dissanguata, mentre striscio come un parassita sull'erba fredda, sento i residui di terra ed erba e legno che mi entrano dentro, nella carne aperta, cerco di seguire quell'uomo che mi sorride, evoca un corvo gigante, batte le mani, mi promette che tornerà da me quando i tempi saranno maturi, perché è me che vuole e non tutti i soldi della banca che ha rubato, non le vite che si è preso e che mi ha addebitato, non la serenità di un villaggio altrimenti felice, ma me; e poi se ne va. Boh. Se ne va, così, a caso.» Sentiva che qualcosa, in lei, stava cambiando.
    Lentamente il suo volto, una tavola rasa bianca e immacolata, cominciò a venir piagato da un'espressione aberrante, un incrocio tra la rabbia, l'ira cieca e una risata divertita paga del ricordo di quella sofferenza, che si delineò nei lineamenti della ragazza con un sorriso dalle fattezze di un ghigno e un'espressione affilata in cui gli occhi, da verdi che erano, cominciarono a scurirsi pericolosamente. Le mani le iniziarono a tremare e la sua voce, piatta, si trasformò in un gracchiante e raschiante rantolo di pura, polverosa e spiazzante ira.
    Non era niente che Raizen Ikigami aveva probabilmente mai visto. Niente che avesse prima di quel momento incontrato.
    Pura e semplice, istintiva, animalesca, voglia di sopravvivere e uccidere per prima.
    «Poi cos'è successo? Niente, Raizen, assolutamente niente. Io sono diventata ciò che stai vedendo, vivo camminando su un filo sperando di non cadere perché se cado, non è della mia mente che vi dovrete preoccupare, ma di qualcos'altro, che nemmeno io ho idea di cosa possa essere.» Sorrise, ma il risultato fu agghiacciante. «Sono stanca della gente, di questa vita di merda che mi promette e poi mi toglie e...ti ricordi tutte quelle puttanate che ti raccontavo da ragazzina, prima che mi crescessero le tette e io sapessi parlare con voce suadente? Beh, erano davvero puttanate: non c'è niente di retto e giusto in questo mondo, e io sono stanca di stare dalla parte di quelli che fanno di tutto per ingannarsi che c'è ancora qualcosa di buono negli altri. Perché se davvero esistesse, non ci sarebbero davvero persone pronte a sacrificare tutti quei bambini e quella gente, per prendersi semplicemente una sola sudicia e misera donna come me, senza capacità né apprezzabili doti.» Le sue mani ormai tremavano così tanto e la sua espressione era talmente stravolta che, per un attimo, parve la rappresentazione di un demone Oni. Uno yokai nato dalle profondità del più remoto angolo della terra sotterranea. «Voglio la gente morta, Raizen. Ne voglio un sacco, morta. E no, non l'ho detto al Clan Uchiha. Cosa avrei dovuto dire? Che avevo fatto quello che mi avevano detto di non fare, che avevo guardato dentro l'abisso e ci ero caduta dentro, e che adesso mi rendo conto che non posso uscirne ma posso solo convivere con questa nuova me stessa?» Rise, ed era una risata gutturale, raggelante. «Vorrei poter pensare che questa raffinata voglia di tagliare chirurgicamente il mondo in cui vivo possa essere un'arma al mio servizio, al servizio di Konoha, o di una causa superiore. Vorrei poter pensare che questo mostro che ho dentro possa aiutarmi a proteggere gli altri.... ma vedi, Raizen, ormai ho vent'anni. Ho subito più perdite di quanto sia lecito infliggere ad una sola persona, ho visto mostruosità che nessuno dovrebbe mai neanche concepire e sinceramente, arrivati a questo punto, non credo che quello che sono diventata sarà mai niente di bello e caro.» Ringhiò. Benché la sua snaturatezza fosse nata da un'ira sorda e cieca, la sua voce era calma, fredda, tagliente. Si poteva anzi dire che non c'era stato nessun altro momento, nella vita di Shizuka Kobayashi, in cui lei non fosse stata così tanto calma. «Se il Clan Uchiha avesse posto più sorveglianza com'era stato deciso, tutto questo non sarebbe accaduto. Se i guardiani delle mura mi avessero ascoltato mentre correvo, mentre urlavo loro di impedire che quei carri entrassero al villaggio, mentre supplicavo di avvertire l'amministrazione e la polizia, forse Karasu non sarebbe scappato. Cos'altro dovrà accadere, a Konoha, quale altra disgrazia enorme, perché si capisca che le cose, in questo modo, fanno vomitare?» Sospirò e fece spallucce. «Non intendo più lavorare per nessuno, Raizen. Sono stanca. Ho gettato il mio coprifronte molti anni fa, quando Kuroro ha tradito, e non ne ho mai richiesto nessun altro e tutt'ora non ne ho intenzione. Sono stanca di far parte di quella fazione che professa di essere “la buona” ma che in verità fa più schifo di quella cattiva. Davvero. Ormai che sono in questo abisso di merda, preferisco rimanerci, almeno qui le cose schifose rimangono tali, senza veli, senza pretese e senza nessuna cazzo di ipocrisia.»
    E mentre diceva quello i suoi occhi verdi si fecero lentamente quasi neri, la sua espressione si stirò di nuovo e l'ira parve sparire, cosicché per un secondo solo in lei regnò un totale, spiazzante e raggelante equilibrio. Un equilibrio però più spaventoso della follia in cui sembrava aver vissuto in quel momento, perché a differenza di quella non aveva limiti, né confini, nessuna morale e nessuna pretesa. Era materia pura, informe, tutta da plasmare.
    Energia allo stato brado.


    divisore




     
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