Messa a punto

Perfezionamento di un ninja [Villa Kobayashi]

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  1. Arashi Hime
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    Y Danone
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    T O G E T H E R:
    Coming together is a beginning; keeping together is progress; working together is success.

    Shizuka Kobayashi and Raizen Ikigami.




    divisore




    "E rilassati, sei troppo tesa, dopotutto sei stata brava."



    Shizuka Kobayashi era allieva di Raizen Ikigami da quando aveva sedici anni.
    Molte volte, durante quel lasso di tempo, aveva pensato che qualunque cosa avesse fatto non sarebbe mai riuscita a incontrare il benestare di quell'uomo, che continuava a svilire ogni suo tentativo di miglioramento come il vaneggio di una bambina, niente più che il capriccio di un principessina viziata. Crescendo, poi, la sua strada si era divisa da quella di lui.
    Finalmente capace di comprendere le sue abilità, la sua potenzialità in quel mondo che non aveva mai guardato interamente, aveva deciso cosa fare di sé e come valorizzarsi, divenendo così una risorsa e non un deterrente, come in verità aveva sempre temuto di essere. Quella decisione l'aveva condotta a cercare nuovi maestri, perché il suo desiderio di apprendimento trovasse finalmente in qualcuno una risposta sincera.
    Mai una volta, in tutto quel tempo, aveva pensato però che se anche fosse diventata Hokage, Raizen l'avrebbe avvicinata per complimentarsi. Mai.

    Per un attimo tacque.
    Valutò di sbagliare la sua constatazione, di peccare di presunzione a ritenere che quel complimento si riferisse alla sua crescita interiore –forse dovuta al concepire il suo sacrificio nel bene del villaggio, o forse semplicemente nell'accettare se stessa come la shinobi che non aveva mai creduto di poter diventare– o persino la sua capacità di essere riuscita a colpirlo –niente più che una fantasia fino ad appena un anno prima. Suo malgrado, come una bambina che finalmente viene accettata dal genitore, che le accarezza la testa per la prima volta, la ragazza non poté fare a meno di arrossire.
    Fu appena un secondo, che lei vide bene di nascondere mentre seguiva il maestro giù dai volti di pietra dei Kage, ma Shizuka Kobayashi arrossì, sorridendo. Nella piccolezza di un'espressione tanto breve vi erano anni di attesa finalmente compiuta.
    ...Ma lei, che dopotutto era realmente la Principessa dell'orgoglio, non disse assolutamente niente in proposito.


    "E sono io che uso tutta la mia forza per rompere qualsiasi tipo di maschera tu voglia metterti addosso, da quella di una stupida bambina sulla punta dei piedi, a quella di una donna dietro una cicatrice il cui peso ormai la schiaccia. E smettila di affermare il contrario.
    Per l’inferno, smettila!
    Non esistono maledizioni, esistono solo checche smidollate dagli occhi congiuntivitici che danno parole altisonanti a scelte che il loro culo tremolante ha paura di prendere.
    Non c’è maledizione, non c’è un baratro, ci sei tu e ciò che vuoi fare di te, non raccontarmi altre storie, sono ridicole, e credimi non è un vanto, ma ne conosco davvero tante"




    La piazza in cui Raizen l'aveva condotta puzzava di abbandono, con quelle panchine scricchiolanti –su cui si vide bene di sedersi– e la fontana rotta, nonostante ciò per la ragazza quel luogo avrebbe potuto essere il più accogliente di tutto il Villaggio, e non vi era probabilmente nessun motivo ragionevole dietro quella sensazione se non il semplice fatto di essere di nuovo con il suo maestro.
    Come la Luna e il Sole che si incontrano solo nei brevi momenti del Crepuscolo, dando vita a panorami e colori rari e meravigliosi, pareva che non esistesse il reale splendore della Principessa senza la presenza della maestosa Volpe.
    «Senti, sei diventato Jinchuuriki non deficiente.» La voce della kunoichi si sarebbe fatta largo nel silenzio leggermente venata di stupore, come avrebbe confermato l'espressione di lei, perplessa e interdetta. «Ho detto queste stesse cose proprio mentre eravamo appesi lassù.» Disse indicando il volto dei Kage. «Ho già detto che sto cercando di mostrarmi con sincerità al mondo, per quella che sono, senza nessuna maschera; che non esistono maledizioni, che quindi io non sono affatto maledetta o chissà che altro, ma ci sono solo io che ho preso una serie di decisioni, che accetto e di cui mi assumo la piena responsabilità...» Inarcò un sopracciglio, stupita, mettendosi poi a braccia conserte. Vi era in lei, nella movenza e nella mimica facciale per esempio, un qualcosa di molto simile al Colosso, da cui sembrava aver preso non solo la rudezza del linguaggio o dei gesti, ma molto di più, come se lo studio che avesse effettuato sul suo maestro affondasse le radici in lunghe osservazioni silenziose. «...non ripetere ciò che ho già detto per fingerti intelligente, lo so io e lo sa la tua kitsune che sei cresciuto solo nel fisico e poco nel cervello.» Disse, facendo roteare gli occhi al cielo. «Mi ascolti quando parlo o fai finta, giusto per...?» E così dicendo sospirò stancamente, come una madre alle prese con un figlioletto problematico.
    A quel punto, però, si zittì. Senza dire più una sola parola la ragazza ascoltò tutto il lungo discorso del suo maestro, su ciò che pensava di lei, su ciò che aveva fatto mentre lei lo cercava senza trovarlo, e mentre egli parlava lei si limitò ad aprire la sua sacca a tracolla, la stessa che Ritsuko le aveva messo addosso prima che se ne andasse. Al suo interno vi trovò le deliziose focacce di riso di Mayuko, dell'acqua, e con suo grande stupore un coltello a serramanico a doppia lama, due cartabombe e un rotolo di spago trasparente. L'essenziale per un diversivo, o per un omicidio. Sorrise tra sé e sé, abbassando lo sguardo.


    "Quella cicatrice è orribile, non te la meriti."




    Aveva gli occhi chiusi, in mano una delle focacce di riso ripiene e il suo volto, affascinante come quello di una Principessa di altri tempi, ancora sorridente.
    «Non è questione se io la meriti o meno.» Rispose, riportando solo a quel punto gli occhi su Raizen. «Non porto con me questa cicatrice perché tutti possano vedere quanto sono tosta o quanto sia afflitta dell'accaduto, a me di quello che la gente pensa non può importare sinceramente più nulla. Faccio solo ciò che trovo giusto, e facendo così saprò di non dover temere il giudizio altrui in quanto il mio scopo è sempre e solo proteso a ciò che c'è di corretto in questo mondo di merda. Pertanto questo è giusto.» E così dicendo si portò una mano al petto, indicandosi la cicatrice. «Questa è la mia storia, Raizen. E' il mio corpo che vive, che si segna, che invecchia. Sono le decisioni che prendo che mi rendono ciò che sono, è quello che faccio che mi plasma in ciò che vedi.» Scosse la testa. «Muto il mio aspetto nelle missioni perché questo sfregio non si veda se è quello che ti angoscia, ma cambio anche di modo che i miei capelli diventino biondi, o rossi o neri... perché i miei occhi cambino di colore, il mio linguaggio di cadenza, l'inclinazione della voce si faccia più scura o più acuta. Plasmo me stessa a seconda della situazione, e non perché io indossi una maschera, come credi, ma perché sono la ricercata da un gruppo terroristico di cui nessuno sa niente e non posso rischiare di compromettere la sicurezza di Konoha, o l'incolumità della mia famiglia, più di quanto già non sia. » Tacque per un istante. «Non ho intenzione di morire. Mentre ci stavo riuscendo ho capito che non mi piaceva quella sensazione, quindi ho visto bene di rimandarla.» Fece spallucce, e a quel punto addentò la sua focaccia. Il riso le si appiccicò agli angoli della bocca come quando era più piccola e lo stesso Raizen era costretto a pulirle il viso inveendo. «Tu non ascolti proprio un tubo di quello che dico eh?» Sghignazzò, deglutendo rumorosamente. In un solo boccone trangugiò il restante pezzo di focaccia. A quanto pareva l'appetito proverbiale del pozzo nero di Konoha non era del tutto svanito. Era ancora incredibile quanto diavolo mangiasse (e poi si lamentava dei fianchi grossi...). «Ogni Shinobi vive nell'oscurità, che lo ammetta oppure no: uccidiamo, mentiamo e ci vendiamo all'offerta migliore. Io ho semplicemente deciso di rendere questa cosa, ciò che ho sempre considerato un problema, il mio punto di forza.» Prese un'altra focaccia, una per sé e una per il Jinchuuriki. Gliela lanciò senza troppi complimenti. «Posso sedere nella parte scura delle cose, ma ho anche detto che tale condizione è reversibile. Ognuno di noi può decidere di camminare avanti e indietro sulla stessa strada, no? E' un po' la stessa cosa. Mi ascoltavi prima o facevi solo finta?» Addentò il secondo spuntino, continuando a bocca parzialmente piena. «Il mio Sharingan mi influenza in un modo che non saprei ben definire, potremmo dire che tira fuori il peggio di me... che sia una maledizione o solamente una potenzialità latente così grande da rendermi incapace di controllarla non ne ho idea, so solo che ho qualche problema a gestire la rabbia ora come ora.» Sorrise educatamente, grattandosi la testa. «Non posso essere la bambina di un tempo, Raizen, come tu non puoi più essere il ragazzo che eri tanti anni fa, ma nessuno ha mai detto che ciò che sono ora non sia Shizuka.» Si infilò in bocca il restante pezzo di focaccia e a quel punto si leccò anche le dita. Sembrava tentata di prendere la terza pagnottella, ma esitò. «Shizuka è sempre e solo una, e per quanto cambierà la base rimarrà sempre la stessa. Nessuno dimentica realmente ciò che è. Ah si, un'altra cosa: non odio il mondo, non voglio la gente morta a caso. Questo mondo mi fa schifo, è vero, perché è marcio, ma non mi pare di aver mai detto che non è possibile cambiare le cose. Voglio la gente morta? Si, quella che vuole morta me. Dovrei offrire loro un tè? Stringere la mano e perdonare? Raizen io voglio vivere e non credo di aver fatto niente di male perché qualcuno voglia impedirmelo. Non so nemmeno perché mi danno la caccia, gli Dei li perdonino.» Alla fine parve decidere che fosse meglio bere e non continuare a ingozzarsi. «Non siamo bambini, siamo Shinobi. Qui la gente ti uccide e purtroppo non sempre hai modo di fermarti a parlare e chiarire. Se devo decidere se morire o uccidere per prima, preferisco uccidere per prima ma...!» Alzò una mano a fermare qualsiasi replica o sproloquio del ragazzo. «...ma ovviamente ogni situazione deve essere valutata a modo suo. In questo caso però, per quanto riguarda Kurotempi intendo, temo che non sia necessario stare troppo a chiaccherare. Ucciderò Karasu, che tu voglia oppure no, posso al più dare una possibilità di spiegazione a Kuroro il giorno in cui lo troverò, anziché strappargli subito il cuore dalla tassa toracica per ciò che ha fatto alla mia famiglia.» Sorrise con rinnovata educazione, e a quel punto fece spallucce. «Non puoi farmi sentire in colpa perché quando cammino non inciampo più sui miei stessi piedi o non mi arrabbio di fronte alla tua malizia. Dovresti solo sentirti colmo di gioia che nonostante il cambiamento che ho affrontato, io tenga a te esattamente come quegli anni in cui, zampettandoti dietro, sbattevo il naso sulle tue gambe.»

    "Vieni"



    «Eh, ora non allarghiamoci, Kitsune... cosa penseranno le persone del Villaggio a vederci mano nella mano come due sposini?» Ridacchiò, piazzando la sua mano in quella di lui. A differenza di ciò che ricordava lo Shinobi, la mano della Principessa non era più piccola e cicciottela, ma callosa e affusolata, delicata come se fosse abituata a lavori aggraziati e silenziosi. Piccole cicatrici bianche si erano fuse con il colorito pallido della carnagione.

    "Senza Shizuka non ci sarà MAI Raizen"



    «E' un modo carino per dirmi che mi offri la cena...?» Insinuò. Ed in effetti il gorgoglio di sottofondo a quella scena non era la fontana rotta, ma lo stomaco della ragazza. «Perché ho giusto un po' di fame...» Protestò, leccandosi le labbra. «Ah, e passiamo anche dal negozio di Mariko nella sesta strada. Non si è mai visto che vado in giro senza trucco, Santi Numi, se mi vedesse qualcuno in queste condizioni potrei davvero andarmene con Kutempi senza più preoccuparmi di niente.»
    Era civetta. Civetta in un modo tipicamente femminile, una caratteristica che in passato non aveva mai denotato ma che, ora, sembrava governare molta della sua attenzione.
    Era cambiata, è vero... ma la Principessa di quel giorno, che si presentò ad un corso Genin in furisode, con geta smaltati e un'ombrellino parasole laccato di rosa, a quanto pareva, sopravviveva ancora. Vanitosa e pretenziosa.

    "E spegni quelle ridicole rotelle"



    «Al diavolo, lo avrei fatto anche se non me lo avessi detto. Hai idea di quanto sia difficile controllarsi con sti lampeggianti accesi?»

    Già.


    divisore




     
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