Kakurenbo

Role free: Arashi - Sasori - Asgharel

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  1. Arashi Hime
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    Y Danone
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    C H E C K:
    You might not have the things you want, but if you check carefully, you got all you need.

    This is Shizuka Kobayashi.




    divisore





    “...Sei uscito di senno, oppure sei serio?”



    Shizuka Kobayashi era seduta per terra quando le venne dato quell'ordine. La divisa che Ritsuko le aveva messo addosso nel cortile della magione del suo Clan, mentre lei rimaneva immobile a guardare un punto indefinito dello spazio –ancora annebbiata da un sentimento pesante come un sudario che solo il Colosso della Foglia era riuscito a strappare via, restituendola alla vita– fasciava il suo corpo con aderenza come sempre perfetta, proprio come ci si sarebbe aspettati da un abbigliamento confezionato su misura dalla stirpe della “K.” ricamata a filo d'oro.
    “Ti pare che stia scherzando, idiota?”
    “Raizen, amore mio... il mio affetto per te valica i confini del mondo, sai che inghiottirei le fiamme dell'inferno in nome del nostro legame, ma questo...”
    “Che poeta. Finito di cincischiare, gallina? Vai a prendere quel tizio, e valuta le condizioni in cui sta messo.”
    “Ehi kitsune, non basteranno tutte le tue code e le mie rotelle per impedire agli Uchiha di farmi saltare via la testa se sottraggo loro un cane sotto custodia... sempre messo che io ci riesca, ovviamente.”
    “Non sei tu l'esperta in infiltrazioni? Beh, esperientizza.”
    “...esp- cosa?”
    “Shizuka, dacci un taglio. Il tipo è rimasto imprigionato per mesi e quando sono andato a tirarlo fuori non mi è parso proprio intero, è possibile che il suo cervellino abbia ceduto.”

    A quelle parole l'Erede del Clan Kobayashi era scoppiata a ridere e alzandosi in piedi aveva inarcato un sopracciglio, mettendosi a braccia conserte.
    “...Ceduto, eh? Accipicchia, è proprio un bel problema!” Aveva esclamato allora, sarcastica, facendo roteare gli occhi al cielo; dopotutto parlare a lei di precarietà mentale era uno scherzo di pessimo gusto che solo pochi si sarebbero potuti permettere.
    “Fai poco la simpatica, deficiente. E' un creatore, hai capito, ora?”

    I creatori erano soggetti rari nel Clan Uchiha e, per questo, temuti.
    Quella da cui venivano benedetti era un'abilità in grado di piegare le regole della realtà al loro volere, addomesticando la mente altrui con inganni da cui si poteva non uscire mai. Un dono senza pari, dunque, ma difficile da gestire e per questo coltivato e tenuto sotto controllo solo da chi vantava una potenza in grado di trovare la via d'uscita da quei labirinti senza fine; era proprio per questa ragione che si diceva che ogni creatore della stirpe del ventaglio avesse un maestro d'alto rango che ne educasse personalmente la preparazione... la verità, però, era che i membri in possesso di quella capacità erano talmente pochi che spesso persino i sensei più qualificati non erano in grado di capire i meccanismi di quella sfaccettatura della loro stessa Kekkei Genkai, non potendo far altro che lasciare i propri allievi in balia di loro stessi.
    Quello era ciò che era successo a Shizuka Kobayashi.
    Al tempo il fatto che la figlia di Heiko la reietta avesse manifestato l'abilità innata del clan che l'aveva ripudiata, rivelandosi una creatrice, era stata una disgrazia e un'offesa per la grande stirpe del ventaglio; che poi quella stessa usurpatrice bambina fosse stata corrotta dalla malvagità latente di quell'abilità innata per cui ogni Uchiha viene educato sin dall'infanzia, cosicché sviluppi un senso del dovere superiore alla maledizione del suo stesso sangue, era stato un rischio che nessuno a Palazzo Uchiha si era voluto assumere. Incapaci di comprendere i confini e le estensioni di quella che fino a quel momento era stata considerata niente più che una leggenda dimenticata, i maestri del Clan avevano sottoposto la ragazzina ad addestramenti al limite del concepibile, la concentrazione di anni e anni di educazione mancata, ma nel farlo avevano ottenuto solo il risultato di piegare la sua mente ancora più in basso, verso un livello di creazione che assumeva connotati grotteschi e spaventosi che persino suo zio, Isamu Uchiha, suo malgrado sangue del suo sangue, non aveva saputo come affrontare.
    Quella volta fu proposto di sigillare il suo Sharingan che, un giorno, quando quella bimba fosse diventata donna e la sua inettitudine si fosse raffinata in abilità, avrebbe potuto diventare un pericolo anziché una risorsa. A quanto pareva quello era il destino che spettava ai creatori fuori controllo, quelli cioè che avevano perduto la capacità di dominare la loro mente. Ciò però che tutti sembravano non aver preso in considerazione era che Shizuka Kobayashi non era mai stata sola. Al suo fianco aveva sempre avuto una famiglia accorta, un Clan potente deciso a supportarla, e soprattutto un maestro che mai l'aveva perduta di vista e che, quella volta come tante prima, era andato ad aiutarla.
    Era un mistero come i metodi di Raizen Ikigami, il Colosso di Konoha famoso per la sua volgarità e il carattere rude, fosse capace di sistemare sempre i deboli pezzi dell'animo della giovane Principessa dei Kobayashi, invero l'emblema della bellezza elegante e silenziosa, ma era indubbio che lui e solo lui ne fosse in grado. I due erano una coppia paradossale, per la verità piuttosto mal assortita, ma si diceva che non importava quanto lontano si trovassero, se la Volpe avesse ululato la Principessa sarebbe comparsa dalle ombre per lui, e se ella avesse cantato gentilmente egli sarebbe arrivato senza indugio in suo soccorso.
    Sasori Uchiha, però, era un caso diverso, giacché pareva che nessuno, nel suo Clan, avesse intenzione di farsi carico della sua riabilitazione, limitandosi piuttosto a metterlo semplicemente sotto osservazione in attesa che fosse lui stesso ad uscire dalla ruota di ansia e paura in cui pareva fosse finito. Niente di cui stupirsi, in linea di principio gli Uchiha non si mostravano mai compassionevoli con i propri membri a meno che non fosse strettamente necessario, il che le faceva ben sperare che le sue condizioni non fossero così critiche, giacché in quel caso il loro atteggiamento sarebbe stato più accorto. In sostanza, benché non avesse mai visto né sentito parlare di sto tipo, la sua “missione” era infiltrarsi al Quartiere Uchiha, raccogliere informazioni e poi andare a prenderlo, portarlo via, testarne l'equilibrio mentale e poi riportarlo pinto e lindo entro i sicuri confini della sua casetta. Una passeggiata insomma, soprattutto vista la descrizione gentilmente offerta da Raizen del signorino in questione (“Un ragazzo di circa la tua età, con occhi neri, capelli neri, pelle bianca e lo sguardo da coglione” ...praticamente la descrizione del 99,6% di tutti gli esponenti del Clan), e il permesso che Atasuke le aveva fatto ottenere quasi due anni e mezzo prima.
    Portandosi ambo le mani al petto la kunoichi alzò dolcemente lo sguardo al cielo, pensando a quel ragazzo tanto dolce che aveva rischiato la testa per lei e così facendo annuì con compassione: grazie Atasuke, il tuo buon cuore non andrà sprecato, farò buon uso della tua gentilezza...
    … anche perché non poteva fare altrimenti. Gli ordini di Raizen erano imperativi per lei, un po' perché far arrabbiare il Jinchuuriki della volpe a nove code era sempre una pessima idea, un po' perché scappare le era sempre piaciuto poco, ma prenderne così tante da tornare a casa sui gomiti per non aver adempiuto al suo dovere ancora meno. I metodi del suo maestro erano, del resto, la copia esatta di quelli dell'uomo che aveva cresciuto lui, un tipo talmente orribile da essere stato cancellato dagli archivi dell'accademia centrale, e perciò, come si poteva ben immaginare, non certo famoso per il suo buon cuore e i biscotti al cioccolato: Jotaro e qualcosa, se non ricordava male. Beh, non che poi le importasse poi molto. L'importante era non sperimentare più i creativi metodi di “punizione” che aveva insegnato al suo unico discepolo, che per una serie di fatti inspiegabili era il suo maestro, e che l'ultima volta l'avevano lasciata incosciente per ben due giorni.
    Sorridendo educatamente, la kunoichi si mosse nervosamente sul posto accorgendosi di sudare all'idea di essere sottoposta di nuovo a quel tipo di trattamento. Deglutendo, si accomodò più compostamente sul tatami verde salvia sul quale si trovava, mentre accanto a lei una donna alta e dai corti capelli neri le porgeva una tazza di ceramica fumante, sorridendo.
    «Dimmi un po', Shizuka...» Esordì una voce maschile, bassa e ben impostata, non appena la donna bruna fu sparita dietro l'unica porta scorrevole bianca che dava accesso alla grande sala giapponese in cui la ragazza sedeva. «...ma quella povera scimmia di Toshiro Kobayashi, che per disgrazia è tuo padre...»
    «...e vostro cognato...»
    «...è forse diventato pazzo come avevo sempre pensato che fosse, cosicché io possa finalmente ordire un piano per ucciderlo senza avere remore da parte della società?»
    «Ojii-sama, le possibilità che qualcuno, a Konoha, ritenga misericordioso il vostro desiderio di uccidere mio padre, temo siano molto basse. Credetemi.»

    Immobile su un tatami di bamboo finemente intrecciato un alto uomo dai capelli corvini e gli occhi neri, vestito di un pregevole kimono porpora fermato in vita da un obi argento, sorrise educatamente. La pipa di legno che teneva in mano roteò sapientemente tra le sue dita rese ruvide da lavori di fatica prima di fermarsi tra i suoi denti ed egli, a quel punto, aspirò una profonda boccata di fumo, che si trattenne per un attimo dall'espirare. Quando infine lo fece, le sue mani scattarono talmente rapide che la povera Shizuka Kobayashi non ebbe neanche il tempo di fermare la gittata dei quattro rotoli di tessuto legati dal nastro recante la “K.” di filo d'oro del suo clan, che caddero rovinosamente a terra, srotolandosi in ogni direzione.
    «Questo non toglie che per sei volte abbia chiesto lui un tessuto per un nuovo obi da cerimonia e lui mi abbia mandato... ROBA SIMILE!» Ringhiò iracondo l'uomo, indicando inorridito un rotolo di tessuto ocra con una stampa di scimmiette intente a battere piattini accerchiate da banane sbucciate danzanti. «O QUESTO!» Rincarò, prendendo tra le mani tremanti un lembo di un altro rotolo, rosa con petali di ciliegio ricamati a mano. «Mi sta prendendo in giro, forse?!»
    La risposta era così ovvia che la Principessa decise di ammorbidirla come poté.
    «...Avete chiesto una fantasia allegra, Ojii-sama.» Osservò infatti la nipote del Jonin, uno dei pezzi grossi della Polizia del Villaggio della Foglia, senza perdere la compostezza e la piccante filatura che sapeva dovesse tenere un mercante del calibro del suo Clan natio, benché il suo volto per un attimo tremò in una maschera di compostezza sin troppo ostentata.
    «Non osare ridere, Shizuka. Non osare.» Sibilò l'uomo, stringendo in una mano un terzo tessuto, verde a pallini e stelline azzurre. «Questa volta ha esagerato...lui e la sua maledetta ironia da quattro soldi... crede di essere divertente?!»
    In effetti si, Toshiro Kobayashi, il capoclan della più potente dinastia di sete e tessuti di tutto il Paese del Fuoco, quando aveva scelto quel tipo di tessuti aveva riso talmente tanto che nemmeno una pentolata in testa da parte della moglie –la bellissima Heiko Uchiha, la donna più affascinante di Konoha (di cui pochi sospettavano quale fosse il reale carattere)–, che lo aveva poi preso per il collo nei cinque minuti successivi, urlando lui di non minare i rapporti con gli Uchiha; lo aveva fatto desistere dalle sue intenzioni. Il problema era che, al pari di un bambino, Toshiro non era in grado di comprendere quando doveva smettere di scherzare... il che lo rendeva l'avversario drammaticamente perfetto di Isamu Uchiha, il cui carattere intransigente, che non torna mai sui suoi passi, lo aveva costretto in quella circostanza a rimandare indietro i tessuti scelti per lui dal cognato per ben sei volte sperando che quella successiva fosse quella buona, giacché era per lui impossibile ritirare la commissione effettuata. Per questa ragione quello era esattamente il sesto giorno che quella storia andava avanti e Shizuka, felice di avere l'occasione per gironzolare nel Quartiere Uchiha senza dare troppe spiegazioni false, aveva colto al volo quella ghiotta occasione, offrendosi di fare da commissionaria per avere modo di operare come preferiva circa la sua “seconda faccenda”.
    «Questa è l'ultima volta che quel sudicio mercante osa mancare di rispetto a me... questa farsa da bambini è durata sin troppo, e trova ora la sua fine!» Ululò Isamu Uchiha, mettendosi in piedi con lentezza raggelante. Guardando un punto indefinito del giardino in cui si affacciava la sala dei ricevimenti presso cui si trovavano, l'uomo rimase in un pudico silenzio e infine, seriamente, annuì. «Andrò personalmente da lui.» Mormorò, in quella che sembrava più una minaccia che un annuncio.
    «...Cose da uomini, Ojii-sama?» Domandò educatamente Shizuka, riordinando le stole del suo Clan per poi alzarsi in piedi.
    «Regolamento di conti.» Ringhiò l'altro, stringendo in una mano la sua pipa.
    «Oh! In tal caso, Ojii-sama, ritengo che sia più corretto non accompagnarvi... il posto di una donna non è presso lo scontro di due ego maschili, d'altronde.»
    «Esatto, bambina mia.»
    Approvò il Jonin, grattandosi il mento, chiaramente soddisfatto della pudicizia intellettuale della nipote, che si vantava di rendere ogni giorno più simile ad una vera Uchiha. Era incredibile quanto nell'ultimo periodo fosse diventata abile nel parlare e nell'accontentare il proprio interlocutore, in effetti... «Torna a cose fatte.» Ordinò a quel punto, colmo dell'autorità che gli era riconosciuta dal Villaggio, e così dicendo, dopo aver preso sotto braccio i quattro rotoli di tessuto (che incartò preventivamente in un lungo foglio di carta di riso perché nessuno ne vedesse il contenuto), l'uomo imboccò l'uscita della villetta giapponese in cui abitava, dirigendosi a passo spedito verso l'uscita del Quartiere Uchiha.
    “Finiranno a bere sakè e giocare a Go” Pensò la ragazza, sventolando la mano nel salutare il parente. “Spero che Oto-sama non si mangi di nuovo le pedine di Isamu-jii quando capirà di star perdendo...” anche perché l'ultima volta Heiko voleva sventrarlo per tirargliele fuori dallo stomaco, e non era stato facile farle capire che assassinare il marito le sarebbe valso molto più di qualche rimprovero da parte della giustizia (che essendo rappresentata da suo zio le lasciò comunque qualche dubbio).
    Sospirò, e non seppe quanto fu felice di capire che da quel momento in poi era libera di occuparsi della sua altra faccenda, che fu ben lieta di risolvere immediatamente.
    […] Arrivare fin dove aveva compreso trovarsi l'abitazione di Sasori Uchiha fu facile grazie alle informazioni che aveva ottenuto chiaccherando con tutti coloro che avevano avuto la voglia di farlo, e scivolare dentro la casa aprendo la finestra del retro con un foglio rigido e fine di bamboo laccato lo fu altrettanto, anzi, forse troppo, tanto che quando la ragazza entrò nell'abitazione, ritrovandosi sopra il piano cottura della spartana cucina in stile giapponese dell'edificio, che sorvolò con un balzo leggero e privo di rumore, non poté fare a meno di rimanere interdetta. Rimase immobile, aspettando per una manciata di minuti che accadesse qualcosa, ma niente di quello che aveva ipotizzato (e sperato) si concretizzò neanche quando gettò sul pavimento due sassolini raccolti dal ghiaino del cortiletto posteriore e lei, a quel punto, non riuscì a nascondere il suo stupore: nessuna trappola, nessun allarme. Niente di niente.
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    «Spero vivamente che questo tipo sia un ninja abile come un Kage per poter dormire senza nessun riguardo dopo un trauma come quello che ha subito. Altrimenti è un pazzo sul serio.» Mormorò la Principessa, grattandosi la testa. «“E' una questione delicata, stai attenta”» Scimmiottò la voce di Raizen poi, dandosi una rapida occhiata intorno, prese ad avanzare.
    Si trovava al piano terra di una villetta studiata su misura secondo i dettami della tradizione giapponese, un dettaglio che apprezzò e che compensò nella sua mente, almeno in parte, il raccapriccio che aveva provato quando aveva scoperto che la sua collocazione era così vicina a Palazzo Uchiha. Incurante di trovarsi in casa d'altri, la ragazza avanzò con disinvoltura, osservando con curiosità gli ideogrammi dipinti secondo la tradizione Shodo che erano appesi alle pareti, e dopo aver fatto capolino nel corridoio, di cui scrutò i dettagli, zampettò senza nessun ritegno nel grande salone, che si poteva indovinare affacciarsi su di un classico giardinetto zen. Avrebbe scommesso cento ryo che dietro i pannelli di riso scorrevole chiusi c'era un laghetto, qualche sasso, magari una o due carpe e anche qualche alberello. Classico abbinamento. Ridacchiò tra sé e sé, scuotendo la testa.
    Sasori doveva essere il tipico ragazzino di buona famiglia, una di quelle attaccate alle tradizioni, con ogni probabilità idolatrante quel povero coglione del Capoclan, l'uomo a cui lei, al contrario, desiderava così ardentemente strappare gli occhi per farglieli masticare e poi ingoiare. Era possibile che non avesse avuto assolutamente nessun problema serio nella sua vita se non quell'imprevisto in missione –come suppose guardando le foto incorniciate su una cassettiera, in cui lui sorrideva quasi sempre con sincerità– che l'aveva cambiato gli Dei solo sapevano come. Fino a quel momento si era limitato ad essere l'orgoglio di mamma e papà, loro forse morti o lontani da parecchio tempo a giudicare dalla polvere e dalla freddezza del luogo, che non vedeva un'accurata pulizia e una presenza costante da parecchio tempo. Un ninja provetto pieno di impegno, devoto alla sua causa e con tanta buona volontà, insomma. Il classico Uchiha, niente di più, niente di meno.
    Alzando gli occhi al cielo la ragazza sospirò sonoramente, lasciandosi poi cadere a terra vicino al tavolo basso della sala principale, sul cui piano vi era un cestino intrecciato pieno di mandarini che avevano l'aspetto di non essere mummificati come il posto in cui erano collocati. Appurando che erano freschi come davano l'impressione di essere, la ragazza non si fece poi troppi problemi a prenderne uno, che cominciò a sbucciare sorridendo grata.
    […] Vista in quel momento, immobile e silenziosa, Shizuka Kobayashi non dava affatto l'idea di essere la shinobi che molti dicevano fosse, soprattutto all'interno del Clan Uchiha.
    I lunghissimi capelli castani si erano fatti ormai abbastanza lunghi da ricadere sul pavimento, incorniciando con ciuffi ribelli un volto ovale simile a quello di una bambola di porcellana tradizionale: profondi occhi verdi, labbra carnose e lineamenti delicati. In verità, nel suo aspetto, non vi era niente che richiamasse la bellezza fatale della madre, l'emblema della sensualità della stirpe del ventaglio. Ella era la rappresentazione più perfetta del sangue dei Kobayashi, una Principessa considerata bella non per le forme, invero morbide e prosperose, ma per l'eleganza nobile e fiera, distintiva di chi sapeva ciò che voleva e non si faceva problemi ad ottenerlo.
    Purtroppo una vita trascorsa tra le grinfie del peggiore ninja mercenario di tutto il continente, o poco ci mancava, aveva affinato il suo carattere tagliente e ambizioso in una mordace personalità piena di sarcasmo e scarsa sensibilità.
    Aah... pessimo connubio, quello, per una così nobile e graziosa Principessina, erede di una così ricca dinastia, che avevano creato molte, troppe voci, sul suo conto... tante delle quali erano solo invenzione, solo malizia. Forse.
    «Sasori, qui ci vuole un kotatsu, tu sia dannato, inizia a far freddo, sai?» Esordì la kunoichi, come se conoscesse il proprietario della casa da tempo immemore. «Quando ospiti una donna devi sincerarti di metterla a suo agio... santi Numi, sempre così sempliciotti gli uomini Uchiha: abbaiate tanto in combattimento, ma quando si tratta di femmine cadete sempre sulle basi.» Sospirò, fingendosi sconsolata, e a quel punto, affilando gli occhi in un sorrisetto, prese un altro mandarino, che lanciò con una precisione millimetrica nelle scale che si affacciavano di fronte alla sala in cui si trovava. Il frutto, dopo aver delineato un arco perfetto nell'aria, cadde sul primo pianerottolo di svolta che conduceva alla seconda rampa, quella che portava effettivamente al secondo piano.
    Non fu ben chiaro perché ripeté l'operazione altre cinque volte, lanciando tutti i mandarini a distanze sempre inferiori fino a creare una pista che conduceva a lei, se per divertimento o per accelerare l'incontro, ma quello che fu evidente è che, mentre rimaneva in attesa della comparsa del padrone di casa, che sapeva trovarsi lì con una certezza che rasentava la perfezione –poiché a Konoha vi erano pochi shinobi abili quanto lei a ottenere informazioni–, tese i sensi e raffinò la sua percezione poiché la fortuna non era mai stata dalla sua parte e, con ogni probabilità, si sarebbe potuta trovare davanti qualsiasi cosa.

    Ecco come avvenne il primo incontro tra Shizuka Kobayashi, la Principessa della Foglia, e Sasori Uchiha, il sopravvissuto.


    divisore




     
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