Kakurenbo

Role free: Arashi - Sasori - Asgharel

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  1. Arashi Hime
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    Y Danone
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    S O R R Y:
    Affliction comes to us, not to make us sad but sober; not to make us sorry but wise.

    Shizuka Kobayashi's breakaway




    divisore





    “Solo tu avresti potuto distruggere il villaggio mentre cercavi di proteggerlo.”




    Uscire dall'abitazione di Sasori Uchiha fu semplice come previsto, anche troppo. Non avvertì la presenza di nessuno di troppo vicino da indurla a credere di essere oggetto di attenzioni di un certo tipo, almeno fino a quando, d'improvviso, la percezione di un'identità le si dichiarò nitida alle spalle.
    Stupida come una tortora e goffa come un bambino, la presenza parve godere per qualche istante della felicità di chi crede di essere dalla parte avvantaggiata delle cose, come se fosse realmente sicura di averla presa di sorpresa. Ignorando la situazione la kunoichi continuò ad avanzare, tenendo il braccio del finto Atasuke che, al suo fianco, ancora guardava il mondo con gli occhi confusi di chi non è sicuro di cosa credere.
    Per un istante, suo malgrado, la Principessa dei Kobayashi si chiese se non avesse caricato quel ragazzo e la sua mente debilitata dal trauma della segregazione, di una sorgente di notizie troppo grande per essere digerita. Non tutti, come lei, erano in grado di reagire alla difficoltà con rapidità, perché non tutti erano stati abituati a far dipendere quella tempistica veloce alla propria sopravvivenza. Si morse il labbro inferiore, interdetta: che avesse sbagliato a non dare lui più tempo? A non rispettare i suoi pensieri?

    "Heilà puttanella... Ti va se facciamo quattro passi in un vicoletto buio? Non ti preoccupare, ti proteggo io..."



    Tacque, fermandosi.
    Un uomo, un ragazzino forse. L'innocenza con cui l'aveva presa alle spalle era talmente adorabile che, per un attimo, ricordò le prime volte in cui era stata introdotta all'omicidio da Norio. Al tempo anche lei, guidata solo da una cieca voglia di dimostrare quanto poteva essere temibile e soffocata dall'esigenza impellente di dare sfogo alla sua ira latente, commetteva quel genere di errori infantili e sciocchi; non nascondere la propria presenza all'obiettivo per esempio o, peggio, parlare prima di essersi sincerata di non poter errare nell'intenzione.
    Abituata a quel genere di situazioni, non fu necessario alla ragazza voltarsi per sentire il tocco di una lama fredda sul collo. Questa era corta, tozza: un coltello, più probabilmente un tanto. Buona scelta, difficile da disarmare, facile da riporre... ma così terribilmente semplice da sottrarre.
    Sorrise, divertita.
    «Questa “puttanella” non te la puoi permettere.» Si limitò a rispondere la kunoichi stringendo debolmente il braccio dell'Uchiha sopravvissuto, come a volerlo rassicurare, prima di lasciarlo andare facendo scivolare la sua mano lungo il fianco corrispettivo, così da liberare il ragazzo dalla sua presa di modo che non rimanesse coinvolto in quel battibecco tra bambini. «Costo troppo e, credimi, non sapresti come gestirmi.» Sospirò, avvicinando la mano destra alla lama sul suo collo, che scostò con scarsa convinzione. Era talmente poco spaventata e agitata dalla situazione da risultare persino offensiva nei confronti di chi tentava di angustiarla con così tanta passione ardente. «Torna quando avrai imparato almeno a toccarmi il seno in modo da provocarmi piacere.» Aggiunse volgarmente, ghignando, e solo a quel punto avrebbe mosso di scatto il braccio sinistro con supposta ferocia. Proprio come aveva immaginato il ragazzino, niente più di un biondino dallo sguardo arrabbiato che sembrava saperla lunga su chissà quale sua immaginaria cattiveria desiderosa di mostrarsi a qualcuno, scattò rapidamente indietro, leccandosi le labbra.
    Gli Dei lo perdonassero... era così simile alla se stessa di solo qualche anno prima che guardandolo in volto, per un attimo la kunoichi ebbe i brividi.

    "Uhhh Sembra che la puttanella abbia le unghie... Sarà divertente"



    Alzò gli occhi al cielo come una madre messa alle strette con la propria pazienza e poi annuì con rassegnazione, sventolandosi una mano di fronte al viso con sufficienza.
    Cresciuta da ninja realmente in grado di potersi permettere un linguaggio come quello e messa alla prova dalla forza di uomini capaci di distruggerla con un solo dito, Shizuka Kobayashi guardò il tentativo di quel pulcino di sembrare un grosso omone volgare e spaventoso come avrebbe potuto guardare al tentativo di una gallina di volare: con pietosa ironia.
    Non aveva assolutamente idea di chi quel tipo fosse e di cosa volesse da lei, ma non se ne curò troppo, un po' perché era evidente che non avrebbe risposto a nessuna domanda, un po' perché una persona come quella, incapace anche di cogliere di sorpresa qualcuno alle spalle, avrebbe potuto schiacciarla come un insetto. Analizzando altre possibilità, inoltre, anche se avesse riportato a qualcuno la sua presenza assieme ad “Atasuke Uchiha” presso il quartiere del ventaglio avrebbe riscosso poco stupore da parte di chiunque giacché non era una novità che i due fossero “amici”. Certo perché la storia reggesse doveva andarsene di lì prima che l'altro Atasuke riuscisse in qualche modo a strisciare fino all'antidoto.
    «A presto cucciolo, e buona fortuna con gli addestramenti.» Esclamò allora la kunoichi, sorridendo dolcemente, e si sarebbe a quel punto voltata per dirigersi verso l'uscita del clan se solo i suoi occhi, nel girare, non avessero incontrato la figura di Atasuke correre verso di lei.


    “Chiediti perché Kurotempi dovrebbe volere proprio te...
    ...a quanto pare sei arrivata proprio a toccare tutte le radici della vita sbagliata dello Shinobi.
    Perché non te ne vai, Shizuka? Perché, davvero, semplicemente non tradisci Konoha anziché cercare di proteggerla? Se non altro il villaggio rimarrebbe intero.
    Segui le orme di tuo fratello, concludi ciò che ha iniziato tua madre, fai quello che il tuo maestro fa ormai da anni, e vattene. Sparisci, Shizuka. Come amministratore del Villaggio della Foglia segnalerò il tuo tradimento solo tra una settimana, così da darti il tempo di correre il più lontano possibile...che ne dici?”




    Non era necessario che si fosse allenata così tanto per rendere la sua percezione pari a quella di un Jonin. I suoi addestramenti per anticipare i movimenti del nemico, per leggere le sue intenzioni nei piccoli micro-movimenti muscolari che anticipano l'azione reale, sarebbero stati inutili in quella circostanza. Fu talmente evidente quello che Atasuke Uchiha era intenzionato a fare che Shizuka Kobayashi, ritornando frontale rispetto allo Shinobi, si limitò a volgere la testa di lato, cosicché quando il ceffone arrivò il suo “compagno” non avesse nemmeno la preoccupazione di non sbagliare la mira.
    Immobile al suo posto, con il viso rigirato e nessuna espressione che potesse dare un nome ai suoi pensieri, la Principessa del Villaggio della Foglia subì il colpo passivamente, come un figlio punito dal genitore iracondo.
    Lo schiocco del colpo fu talmente forte che, da solo, bastò a cancellare la minaccia del guardiano delle mura al giovane biondino implume che a quanto pareva era una sua conoscenza, e fu così che il silenzio cadde pesantemente, come un sudario su una fredda scena di morte invernale.
    Atasuke era di fronte a lei, ansimante, tremante di rabbia. Da quella distanza poteva sentirne il respiro sul collo, il calore della sua mano ancora sul viso.
    Benché molti avrebbero esitato, Shizuka non si frenò dal voltarsi con lentezza verso colui che le sostava dinnanzi, conducendo i suoi impassibili occhi verdi in quelli corvini di lui. Questi, gelidi come l'inferno più scuro, sembravano lame affilate da un sentimento che, prima di quel momento, la ragazza non aveva mai visto nello shinobi. Qualcosa di simile alla rabbia, o persino all'ira.
    Cercò di non farlo, vista la circostanza, ma purtroppo non riuscì a trattenersi dall'abbozzare un sorriso divertito: a quanto pareva, allora, anche Atasuke Uchiha si arrabbiava sul serio.
    «Ho subito di peggio.» Disse la kunoichi a quel punto. «Potevi fare di meglio.» Aggiunse, ma sembrava più una domanda dubbiosa che una reale affermazione, come se dubitasse che quell'uomo sarebbe riuscito realmente a colpire con più forza. E non perché fosse di animo buono, ma perché, di forza, non ne avesse più di quella.

    “Tu, Shizuka, sei la rovina di chiunque ti circondi.
    Ti rendi conto di quanta sofferenza porti alle persone che ti stanno accanto?”



    […] Shizuka Kobayashi era la Principessa del Clan da cui traeva il nome. Un Clan che, dominando tutta l'economia di Konoha e gran parte di quella del resto delle terre conosciute, poteva permettersi tutto. Lei stessa non aveva sofferto la mancanza di niente, nella sua vita.
    Cresciuta con premura e amore nella comodità di decisioni prese da altri e nella ricchezza di poter ottenere qualsiasi cosa, persino la più folle, l'erede dei Kobayashi non aveva mai patito nessuna sofferenza.
    Tranne la solitudine.
    Essere la futura capoclan di una dinastia così potente rende una bambina l'oggetto di sguardi silenziosi, di calcolate e precise frasi, di manipolazioni gentili, intenzioni celate.
    Costretta nei viaggi mercantili con suo padre dall'età di tre anni, si era sentita nomade ed estranea nel suo stesso villaggio, in cui ritornava di rado e mai senza che chiunque la guardasse come un cristallo soffiato raro e spaventoso. Incapace di instaurare relazioni durature e sincere all'infuori della sua famiglia, la piccola principessina della stirpe della “K.” ricamata a filo d'oro aveva allora focalizzato tutta la sua attenzione sullo studio di ciò che sapeva avrebbe dovuto essere di sua pertinenza, sperando così di poter riscuotere un'approvazione che dipendesse solo dalle sue capacità e magari anche delle persone che si affiancassero a lei e che si impegnassero al suo fianco rendendola loro pari; ma anche in quel campo, benedetta da una memoria quasi spaventosa e da un'intelligenza arguta e acuta di gran lunga superiore di quella che una bimba della sua età avrebbe dovuto avere, non aveva mai avuto difficoltà ad eccellere in ogni nuovo corso, ogni nuova esperienza, ogni nuova prova.
    Molti avrebbero detto di lei che era una bambina annoiata da tutto, stanca, talmente viziata da aver perduto l'entusiasmo della sua miracolosa e privilegiata vita. La verità era che non riusciva a capire cosa avrebbe dovuto fare per comprendere. Non sapeva cosa avrebbe dovuto capire, ma era sicura che c'era qualcosa che le stava sfuggendo poiché non importava quanto bene danzasse, quanto la sua voce fosse melodiosa nel canto, quanto bene sapesse leggere la letteratura in caratteri cinesi o quanto prodigiose fossero le sue trattazioni da piccola e geniale mercante: si sentiva sempre fuori posto. Tanti anni dopo, quando quella piccola dai grandi occhioni verdi e le guance paffute era divenuta una donna adulta, il suo senso di disagio non era svanito.
    Si era resa una shinobi per dimostrare di poter fare tutto, di essere geniale in ogni campo, di essere in grado di vivere delle sue sole forze. E quello che era stato un capriccio le aveva offerto degli amici, un mondo in cui per quanto si impegnasse c'era chi era migliore di lei, in cui quando si presentava come Principessa sentiva ridersi in faccia, in cui finalmente aveva capito che quello che non comprendeva da piccola era perché avrebbe dovuto vivere una vita intera ubbidendo solo a ciò che qualcuno aveva programmato per lei.
    Poteva vivere la sua vita, esplorare il mondo, vedere realtà diverse e poi tornare a casa. Aveva imparato a capire, facendo quelle nuove esperienze che tutti l'avevano scoraggiata ad intraprendere, che amava realmente, e non per imposizione, essere la Principessa del suo Clan, e che non c'era niente che la appagasse come fare la mercante. Si era anche resa conto che amava il suo villaggio anche se questo non la conosceva, perché era il luogo in cui la sua famiglia viveva con serenità. Amava i cittadini che le sorridevano e anche quelli che la ignoravano o apparivano intimoriti dalla sua presenza ma che, se chiamati gentilmente, sapevano aprirsi e mostrarsi con sincerità.
    E amava le persone che la vita shinobi le aveva dato. Dato e poi tolto.
    Non importava, difatti, quanto duramente si impegnasse perché la storia di sempre non si ripetesse, le persone attorno a lei sparivano. Morivano. La rifiutavano. Sempre.
    Corrotta da una maledizione che molti avevano fino a quel momento creduto solo una vecchia leggenda, costretta per sempre a vivere sul filo che separava ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, costantemente messa alla prova dal fato che le dava e subito dopo le toglieva, e poi toglieva e toglieva ancora, Shizuka Kobayashi aveva creduto di aver sfidato troppo la fortuna che la vita le aveva dato, e per questo adesso era punita da qualcosa che non sapeva come gestire e che, per quanto avesse cercato di cambiare, alla fine la faceva sempre rimanere sola come quando era piccola.
    E in tutta questa storia, per inciso e come se non bastasse, non c'era assolutamente niente di nuovo o incredibile, perché lei, alla fine, non era nient'altro che una persona qualsiasi, una canzone già cantata, un dipinto già rimirato: una Principessa che lotta contro il suo destino e cerca di dimostrare di poter vivere un'altra vita, cadendo poi in disgrazia... solo che per lei non ci sarebbe stato nessun lieto fine.
    Nella sua vita aveva solo due persone che bilanciavano la sua piccola e pudica realtà interiore, la stessa che sapeva l'avrebbe accompagnata lentamente al suo spegnimento: Raizen e Atasuke.
    Il primo era colui che aveva squarciato con violenza le sete che avvolgevano la sua visuale ristretta, offrendole agli occhi il mondo che poteva esplorare, le possibilità che poteva cogliere, i limiti che doveva infrangere. Era il suo principio e la sua fine. Il mentore di ciò che significava vivere la propria vita semplicemente per la gioia di poterlo fare.
    Il secondo... beh, era l'equilibrio che non aveva mai avuto. Candido come un bocciolo, giusto tanto da risultare ridicolo, fedele ai suoi principi e alla giustizia comune tanto da essere irritante, Atasuke rappresentava per Shizuka tutto ciò che di corretto e pulito esisteva al mondo.
    Era così bianco, così sincero... e non importava quanto in basso fosse sprofondato o che tipo di oscurità avrebbe visto: lui sarebbe stato un fiocco di neve in una palude di morte. La luce nella tempesta.
    Se avesse pianto, lui l'avrebbe ascoltata. Se ne avesse chiamato il nome, lui sarebbe arrivato. Come la prima volta che si erano incontrati, quando decise di credere in lei –che “non poteva essere così cattiva come diceva se aveva rischiato la morte pur di riportarlo a casa sano e salvo”– senza chiederle nulla, Shizuka sapeva che Atasuke era quel genere di persona che amava il prossimo incondizionatamente e che cerca di comprendere le ragioni reali di qualsiasi verità andando oltre la realtà apparente.
    Era un tesoro prezioso, una stola di pregiata seta candida che in qualche modo lei si sentiva di dover tutelare da tutte quelle cose brutte che esistevano al mondo. Anche da lei stessa.
    Benché fosse uno Shinobi era rimasto così puro che non poteva permettere ad un abbietto rigurgito quale era lei di contaminarlo. Questo aveva sempre pensato, eppure, egoisticamente, lo aveva sempre continuato a cercare, a infastidire, a mettere alla prova.
    Fino a quel momento.

    "Quando cazzo lo capirai che non posso continuare a proteggerti se continui così ardentemente a cercare di distruggerti e di distruggere tutto ciò che hai intorno a te!?"



    Sorrise, e adesso appariva sinceramente stupita.
    Quindi era lui che credeva di proteggere lei? E da cosa, precisamente?

    "Quando capirai che le tue azioni hanno delle ripercussioni sulle persone e su ciò che ti circonda?"



    Guardò Sasori ancora imbambolato accanto a lei. Ancora sottoforma di Henge.
    Torna normale, stupido, ormai la copertura è saltata, non vedi?

    "Ma non pensi che se continui con questi stupidi e teatrali colpi di scena non puoi fare altro che attirare altre sventure su di te?"



    Che tipo di percezione aveva Atasuke di lei?
    Quella, probabilmente, che lei le aveva sempre dato: nessuna.
    Non le aveva mai raccontato niente di sé, non si era mai rivelata, mai scomposta. Aveva semplicemente lasciato che quell'uomo, perché era un uomo e non un ragazzo, non un coglioncello, interpretasse i suoi comportamenti e le sue parole a modo proprio.
    Una “teatrale” e “stupida” ragazzina viziata, figlia di un privilegio che probabilmente non meritava e che certamente non sapeva gestire.
    Una sciocca, sciocca bambinetta urlante.

    "Hai mai provato a pensare quanto tu mi abbia rovinato la vita con le tue azioni da quando ci siamo conosciuti? Ci hai mai pensato?"

    “Tu, Shizuka, sei la rovina di chiunque ti circondi.
    Ti rendi conto di quanta sofferenza porti alle persone che ti stanno accanto?
    Riesci a capire che anche il tuo tentativo più buono si trasforma nella disgrazia di un intero villaggio? Sei esattamente come il tuo maestro: l'ultimo appannaggio della corruzione dell'uomo, troppo deteriorata per essere ripristinata. Un buco in un tessuto altrimenti perfetto.”



    Tacque.
    Ferma nel punto che aveva fatto proprio, un passo avanti a Sasori, di cui sembrava porsi quasi a scudo, la kunoichi accolse quelle parole in silenzio totale.
    I suoi occhi verdi per un attimo si mossero con nervosismo, vagando dalla bocca del suo interlocutore fino al suo mento, poi il torace e infine il suolo, per poi subito rialzarsi nel tradire una sorta di smarrimento che assumeva i connotati dell'incomprensione, quasi la ragazza non capisse ciò che le era stato appena detto.
    Esitò. Si mosse sul posto. E solo a quel punto aprì la bocca, che si richiuse un secondo dopo nel silenzio.
    La fronte si aggrondò, il piccolo naso si arricciò e infine le sue labbra, dipinte con un rossetto neutro che ne valorizzava il naturale colorito scarlatto, si piegarono verso il basso. Sembrava una bambina appena colta a commettere un errore troppo grave per essere perdonato e, d'improvviso accorgendosi di provare davvero quella sensazione, la ragazza indietreggiò.
    «Io non...» Si mangiò le sue stesse parole, e di nuovo corrugò le sopracciglia in una maschera di incomprensione. «Io non ti ho mai chiesto di starmi accanto.» Disse a quel punto, e si rese conto che non lo aveva mai fatto davvero. Non gli aveva mai detto quanto in verità necessitasse di qualcuno vicino che non sparisse da qualche parte, prima o poi. «Non ti ho mai chiesto di rovinare la tua vita a causa mia.» Per la verità era proprio quello che aveva sempre cercato di evitare che accadesse. Come per Raizen, Atasuke era il suo piccolo tesoro, che lei riponeva gelosamente in uno scrigno che custodiva nel modo che riteneva migliore.
    Tacque nuovamente, e si rese allora conto che non sapeva cosa dire. Probabilmente non c'era molto altro da aggiungere.

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    «Da cosa pensi di “salvarmi”? Da cosa sei sicuro di tutelarmi?» Con suo sommo stupore le parole le salirono alla bocca da sole. «Da me stessa?» Sentiva un forte prurito al naso che le saliva lungo il setto e arrivava fino agli occhi, stuzzicati tanto da farsi umidi, ma si impose comunque di ridere. «Credi davvero...» Esitò. «...di poter combattere tutto il male del mondo? Di poter “impedire” ogni sorta di aberrazione?» Non seppe nemmeno perché indicò Sasori. «Se avessi saputo che intendono sigillare il suo Sharingan “non lo avresti permesso”? Quanto in alto ti credi di essere?» Lentamente la voce iniziava ad assumere una sfumatura di rabbia. Di tradito e risentito rancore. «Sei solo un volgare genin!» Esplose con rabbia subito dopo. «Un guardiano, niente più del cane di un Hokage che non c'è più, ma questo, ops, tu non lo sai, perché sei troppo impegnato a seguire la tua morale pulita e retta che non hai mai guardato dentro lo schifo che c'è in giro!» I suoi occhi tremarono e poi vacillarono, facendosi ancora più umidi, ma l'espressione che la kunoichi aveva era più simile alla rabbia che al grande e profondo dolore. «Credi davvero di poter sapere tutte le ingiustizie del mondo prima che vengano commesse e poi agire per impedirle? Credi davvero che qualcuno ti avrebbe detto, a te, uno Shinobi innocente che considera la sua innata una gioia e un onore, quanto in basso può cadere un creatore, quanto orrore è in grado di creare e quanta poca voglia Palazzo Uchiha abbia di accollarsi questa responsabilità?!» Si girò verso Sasori. «E tu, ti credi sano, non in pericolo, pensi davvero che la tua situazione non sia così grave... ma arriverà il momento in cui le conseguenze della tua esperienza si manifesteranno nei tuoi Genjutsu, e allora vedrai il mondo con gli occhi di chi sei diventato e ne diverrai vittima!» Esitò ancora una volta portandosi istintivamente una mano ad indicarsi il petto, come se stesse per aggiungere qualcosa, ma non lo fece. «Per cosa sei così intontito...» Riprese dopo una piccola pausa, e in modo imprevisto abbassò la testa. «...non vedi che hai un amico qui che è pronto ad impedire che ti succeda il peggio?»
    ...Perché Raizen l'aveva mandata lì? Cosa si aspettava che facesse? Che mostrasse a quel ragazzino come non sprofondare nell'inferno, dove era finita lei per lo stesso motivo per cui si trovava lì in quel momento: la degenerazione di una Genkai Kekkei?
    Sorrise, chiudendo gli occhi che avvertì ormai davvero troppo umidi. Il naso sembrava colarle, e lei cercò impercettibilmente di tirare su senza farsi sentire. Adesso si che si sentiva una bambina.
    «Ho sbagliato a venire qui.» Sentenziò alla fine, e scosse la testa. «Non avrei mai dovuto accettare questo incarico ed intrufolarmi al quartiere per la salvezza di un volgare Uchiha.» In effetti il solo pensare di aver accettato un ruolo come quello, l'aiuto di un Uchiha, era paradossale. Non aveva motivi per rivolgersi cortesemente a nessuno dei membri di quel Clan, neanche a quelli che non la conoscevano e con cui, forse, se avesse iniziato diversamente, si sarebbe potuta avvicinare... cosicché un giorno, prima o poi, non fosse più stata “la bastarda del Clan” ma una come tanti. «Ho sbagliato ad avvelenarvi e a dire tutto quello che ho detto. Immagino che adesso dovrei chiedervi di dimenticarvi tutto, ma non credo sia possibile. Valutate perciò con discrezione l'utilizzo delle vostre nuove informazioni.» Si trattenne dal passarsi una mano sugli occhi, e dopo un secondo di esitazione, si voltò portando lo sguardo su Atasuke. «Non fare rapporto. Il fatto che sia riuscita ad entrare in un'abitazione civile con te nei paraggi, ad avvelenarti e a far abbaiare insensatamente il tuo canino mentre mi portavo via uno Shinobi accademico, dubito gioverebbe alla tua reputazione.» E così dicendo sorrise, ed era un sorriso sincero. I lunghi capelli le ricaddero di lato mentre la testa si piegava verso una spalla e lei faceva spallucce. «Dì semplicemente che volevo conoscere il sopravvissuto di cui mi zio mi ha parlato.» E rivolgendosi a Sasori: «Mio zio Isamu mi ha davvero raccontato di te e di tuo padre.» Per quanto assurdo potesse sembrare che uno dei pezzi grossi della Polizia di Konoha si soffermasse a discutere con la nipote di quel genere di futilità troppo simili a chiacchericci femminili. «Il ragazzo ha bisogno di un aiuto, ma a ben pensarci dubito di essere la persona più indicata per darglielo. Un tipo candido come te saprà sicuramente indirizzarlo meglio.» E a quel punto, forse con grande stupore di entrambi i due ascoltatori, la kunoichi si inchinò: la schiena dritta, gli occhi chiusi e le mani aggraziatamente raccolte in grembo sembravano suggerire un'educazione persino in quel semplice gesto. «Con permesso.»
    Non avrebbe detto nient'altro. Aveva già parlato troppo.
    Tipicamente in stile Raizen Ikigami, che era stato quello di Jotaro Jaku e ora il suo, Shizuka Kobayashi si voltò e così com'era arrivata, senza introduzioni né spiegazioni, prese ad andarsene.
    Sembrava quasi non aver fatto assolutamente niente di male, come se dopo una breve chiaccherata avesse deciso di tornare a casa. E fu proprio dove si diresse, mentre i suoi piedi iniziavano a muoversi sempre più velocemente e lei iniziava a correre.


    Dietro di lei, un fruscio rapido e silenzioso si rivelò dal nulla.
    «Oh.» Gemette la kunoichi. «Puoi anche smetterla di seguirmi, ora.»

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