Perché non c'è altro posto a cui appartengo

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  1. Arashi Hime
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    Y Danone
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    T A R O U K I R I Y A M A

    due-chiacchiere-con-dario-tonani-L-Al3kCt



    Tarou Kirayama era un uomo di cinquantatre anni dai lineamenti del volto leggermente curvati verso il basso.
    Grandi occhi un tempo azzurri, resi opachi da una vecchiaia precoce, e una nuca squadrata di capelli brizzolati, rendevano il suo aspetto quello di un giovane anziano e gracile signore di mezza età, dallo sguardo burroso e le labbra secche.
    Essere nato per succedere a suo padre come Daimyo delle grande Terre dell'Acqua era stato un incarico che, nel corso degli anni, aveva acuito la sua naturale inclinazione all'ansia, un dettaglio che si manifestava nel suo perenne tic al labbro inferiore, che si muoveva ritmicamente senza un vero e proprio motivo, e nel movimento instancabile delle sue dita, che nei momenti di estremo stress, solitamente quelli in cui doveva dare prendere qualche decisione importante, continuavano a unirsi e poi allontanarsi, a girarsi intorno come due cani che si rincorrevano la coda.
    Cresciuto sotto l'influenza di una reputazione familiare di grande prestigio, che non lasciava spazio per nessun errore, Tarou era divenuto ossessionato dal senso, invero umano, di potersi dimenticare qualcosa. Qualsiasi cosa, soprattutto ciò che decideva o che diceva, spesso appannaggio di quello che il Concilio Shinobi voleva e non il risultato di un suo reale ragionamento. Questo si era ripercosso in una serie di prese di posizione che potessero in qualche modo aiutarlo a non cadere mai vittima della rete dei falsi ricordi: l'abitudine di appuntarsi, su taccuini di pelle di vacca, ogni cosa dicesse e ogni decisione prendesse, era una delle sue strategie più evidenti, un'abitudine da cui non poteva in nessun modo prescindere.
    Ogni qualvolta terminava uno di quei quadernetti, il Daimyo cadeva infatti in una sorta di disperato senso di smarrimento, come se il suo nido sicuro fosse improvvisamente andato in pezzi, e l'unico modo che aveva per calmarsi e non cedere a quelle crisi di puro panico che spesso gli impedivano anche di dormire, era rinchiudersi in una sala dell'estrema ala ovest del suo palazzo assieme a diversi suoi attendenti, per farsi rileggere dagli stessi fino a dieci taccuini indietro rispetto a quello appena concluso, in modo da avere sempre la mente fresca su ciò che era successo. Era persino arrivato ad assumere subordinati perché memorizzassero i taccuini ancora più vecchi e potessero, all'occorrenza, correggere sue eventuali sviste o errori... che comunque non accadevano mai.
    Un po' per questa ragione e un po' per il fatto che i luoghi troppo silenziosi provocavano lui l'instancabile sensazione di essere costantemente osservato, un altro lato del suo carattere psicotico che si era rivelato presente negli ultimi due anni e mezzo, Tarou Kiriyama era solito discutere di fatti particolarmente importanti davanti a molti dei suoi attendenti, ragion per cui quel giorno, quando fu costretto a rinunciare a quella sua abitudine per poter accogliere Itai Nara, o ciò che di lui rimaneva, il Daimyo era talmente nervoso che solo guardarlo avrebbe potuto gettare nello sconforto chiunque.
    «Nara-dono!» Esclamò l'uomo, e la voce uscì lui più nasale e squillante di quello che avrebbe voluto. Esitò, incrociando lo sguardo dello Shinobi circa due volte e si mosse poi sul posto con nervosismo. Aprì la bocca una, due e persino tre volte, ma non riuscì mai a dire niente. Solo dopo aver inspirato profondamente e aver lasciato che la sua pancetta flaccida -l'unica appendice del suo corpo che sembrava raccogliere la totalità del suo quasi inesistente grasso corporeo- avesse tremato e si fosse poi fermata; l'uomo sembrò riuscire a decidersi su cosa dire. «...bentornato?» Per la verità sembrava una domanda più che un'affermazione, ma il Daimyo parve comunque molto appagato della sua scelta di parole, e annuì con soddisfazione, sorridendo in quel suo modo peculiare per cui il suo labbro superiore si arricciava, dando quasi l'impressione che avesse un paio di baffetti di carne.

    […] La sala dei ricevimenti di Palazzo Fuyamizu era davvero splendida, proprio come si diceva: l'abbondante uso di sete e tessuti pregiati, di intagli nel legno di minuzia quasi fiabesca, e i grandi dipinti di tecnica Shodo alle pareti, davano ad intendere un'assoluta assenza di attenzione alle spese per la sua organizzazione, quanto piuttosto un'interessante devozione allo sfarzo e lo splendore.
    Il Daimyo era seduto in fondo al salone, su una pedana rialzata rispetto al pavimento di legno in cui i visitatori erano invitati a inginocchiarsi o, preferendo, a rimanere in piedi.
    Un poggia braccio corvino di legno di mogano era posto alla sua destra, di modo che lui, seduto su un abbondante cuscino di piume con quattro pendenti alle rispettive estremità, potesse non stancare eccessivamente la schiena nel mantenersi composto. Alla sua sinistra, invece, un'alzata di cristallo conteneva qualche mandarino odoroso e due dolcetti di riso.
    Come antica tradizione Giapponese voleva, la pedana del Daimyo era circondata ai lati di stole di splendidi e ricchi broccati, forse i più belli che Itai avesse mai avuto modo di vedere, e alle sue spalle troneggiava un grande paravento di bamboo, limato tanto da esser divenuto naturalmente bianco. Questo, calato fino al pavimento, conduceva alla seconda parte della pedana stessa, laddove il Signore del palazzo poteva ritirarsi per impedire che il suo ospite, solitamente sgradito in circostanze simili, non avesse modo di vederlo direttamente in volto.
    Ma queste accortezze non erano necessarie. Tarou Kiriyama conosceva Itai Nara, se non altro di fama. Almeno su quello, non c'erano dubbi.
    «Il fato è stato ingiusto, mio caro Nara-dono.» Esclamò nuovamente l'uomo, scuotendo la testa e indicando il pavimento, in cui evidentemente voleva si accomodasse il suo ospite, su cui una domestica dai lunghi capelli castani, fermati in più trecce a loro volta unite insieme, si sbrigava a posizionare un basso cuscino viola per gli ospiti, una tazza di tè bollente e una piccola alzata con qualche biscotto di alga dolce. La ragazza, che non poteva avere più di sedici anni, si sbrigò a togliere il tappino dalla tazza di porcellana finemente dipinta di Itai e dopo essersi inchinata un numero imprecisato di volte, corse a tutta velocità verso la porta scorrevole di riso azzurro. Anche troppo velocemente, dato che per poco non sbatté contro lo stipite, cosicché lei, arrossendo fino alla punta delle orecchie, richiuse dietro di sé il pannello tremando di vergogna.
    Solo a quel punto il Daimyo, che nel mentre si era appuntato la frase appena detta con grande compiacimento personale, riprese a parlare.
    «Potremmo dire che è la prima volta... che ci conosciamo?» Beccheggiò il Signore del palazzo, muovendosi nervosamente sul posto. Non sembrava molto sicuro nemmeno di quello. «Anche se ovviamente vi conosco di fama.» Aggiunse educatamente, sorridendo, e il paio di baffetti di carne fece nuovamente capolino sul suo viso prima che egli fremesse tutto. «Ma la fama non è tutto!» Esclamò infatti, con un'enfasi tale che la sua voce parve farsi decisa e cristallina in appena in un attimo. «Come un'opera d'arte la fiducia è un tesoro prezioso che merita di tempo per essere costruita con precisione e perfezione, e una volta perduta è difficile da ricreare, e non sarà mai uguale alla prima.» Annuì, e subito si trascrisse sul quadernetto, con soddisfazione, anche quella frase. «Quindi ditemi, Nara-dono, per quale ragione siete seduto ora davanti a me...?» Sembrava chiederlo sul serio, come se sinceramente non sapesse la ragione che induceva lo Shinobi a quella conversazione. «Siete qui per parlare del vostro titolo di Mizukage?» E così dicendo reclinò leggermente la testa all'indietro verso il paravento, raccogliendo le mani in grembo prima di annuire e poi chiudere gli occhi. Sospirò impercettibilmente, con flemma e grave serietà. «Ditemi, Nara-dono...» Esitò, ma poi riprese, riaprendo gli occhi e sfoggiando nuovamente una passionale enfasi che sembrava affondare le radici nella convinzione profonda di non sbagliare minimamente in ciò che stava dicendo. «...in questi due anni che voi eravate imprigionato, cosa può essere accaduto a Kiri? Il vostro “Clone” o qualunque creatura essa fosse, cosa potrebbe aver fatto?» A quel punto però parve angosciato. «Perché dovrei confermarvi in un titolo che è stato così facile togliervi e far fruttare in mano d'altri?»

    [...] Tarou Kiriyama era un uomo tremendamente insicuro. Si diceva che non ci fosse stata una sola volta, nella sua vita, in cui non avesse preso parte ad un importante riunione senza aver prima fatto leggere le stelle ai sacerdoti del tempio del suo Paese. Mai, prima di quei due anni e mezzo, aveva avanzato pretese o aveva imposto il suo potere sul volere dei grandi concili ninja.
    L'allineamento delle stelle di quel giorno, però, sembrava essere eccezionale.





     
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