Perché non c'è altro posto a cui appartengo

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  1. Arashi Hime
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    Y Danone
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    L' A M O R E.

    due-chiacchiere-con-dario-tonani-L-Al3kCt




    Itai Nara era un traditore.
    Carnefice nei confronti del suo stesso villaggio natio, cui aveva voltato le spalle preferendo la fuga, era giunto a Kiri, che aveva reso la sua nuova casa. Per questo, in molti, avevano dubitato di lui.
    Il processo di riabilitazione del suo nome era stato lungo, in molti casi pietoso e certo non privo di sofferenze, ma dopo anni di dedizione e instancabile fiducia era finalmente riuscito a convincere tutti che il suo cuore risiedeva ora al Villaggio della Nebbia, ottenendo in questo modo la più stimata resa indietro mai vista prima: il titolo di Mizukage.
    Non era infatti importante cosa sarebbe successo, Itai Nara agiva veramente sempre nell'interesse del suo amato Villaggio.
    «E' un buon Mizukage.» Affermò Tarou Kiriyama, annuendo compiaciuto. I fogli firmati dall'oggetto di quell'affermazione giacevano lui in grembo ordinati. Il silenzio della stanza ormai vuota era incantevole come lo poteva essere l'atmosfera di una fiaba appena iniziata. «Si vede che ci tiene davvero molto al suo villaggio.» Continuò il Daimyo, sorridendo. Vi era in quel sorriso una forma di timidezza rispettosa e ammirata che poche volte si era rivelata durante il colloquio. A quanto pareva l'uomo provava, nei confronti del nuovo Kage, una stima sincera.

    Il sole, proprio come lasciato presagire durante le ore della mattinata, si era del tutto rannuvolato, costringendo alcune delle cameriere ad accendere tutti i lumi del Palazzo. Solo nella Sala dei Ricevimenti, per far sì che questa rimanesse illuminata in modo distinto, vi erano decine di candele bianche, la cui fiamma tremava sui piedistalli inondando con la propria luce le pareti della stanza.
    Ancora seduto sul suo ampio cuscino di piume il Daimyo sospirò, scuotendo la testa, cui si portò una mano. Parlare per così tanto, essere sottoposto ad un simile impegno gravoso, provocava in lui un pesante senso di disagio e stanchezza che non era sicuro di poter alleviare neanche riposando durante tutto il resto della giornata. Rabbrividì.
    «Penso che andrò a dormire.» Annunciò infine, dopo essersi convinto che l'unica cura alla sua fiacchezza poteva essere appunto il sonno.

    «Hara... siete così stanco, mio nobile signore?»



    La voce che si delineò nella stanza era femminile, bassa, suadente come il canto di una creatura tradizionale narrata nelle storie della notte. Il timbro era talmente abituato a parlare a impostazione leggera che il tentativo di alzare il tono gli causò un leggero tremore, che pur tuttavia il Daimyo non poté considerare che incantevole. Come sempre, del resto.
    «Oh Fuji-san... se non fosse stato per voi lo sarei molto di più.» Rispose l'uomo, sospirando. Le spalle precipitarono verso il basso sotto il peso di una frustrazione visibile e lui, dopo essere rimasto qualche istante a ciondolare, si portò di nuovo con la schiena pericolosamente indietro, verso il paravento alle sue spalle, riprendendo a dondolare su se stesso come innumerevoli volte aveva fatto durante il colloquio.
    «Il mio signore è troppo gentile nei riguardi di una donna come me, come potrei mai esservi stata di aiuto?» Chiese in risposta la voce, ridendo con cristallina gioia, quasi infantile, mentre il Daimyo si riportava seduto correttamente e si voltava. Il paravento si mosse.
    «Fuji-san, la sola vostra presenza, il modo in cui mi spingete a riflettere su questioni a cui altrimenti non avrei prestato attenzione, e la vostra incredibile capacità di suggerirmi quelle parole che vorrei dire ma che non riescono mai a giungere alla mia bocca in tempo...» Gemette Tarou, allungando debolmente una mano verso la cascata di bamboo chiari, ma subito la ritrasse, imbarazzato. «...siete indispensabile per me, vi prego di credermi. Da quando ho voi al mio fianco anche affrontare impegni come quelli di oggi non risulta più uno spaventoso onore.» Esitò. «Mia nobile sposa, vi prego... solo per oggi, potreste...» Insinuò, senza però terminare la frase. Nella sua voce non vi era più l'impetuosa enfasi che lo aveva spinto alla conversazione di quella giornata.
    «Il mio amato signore non deve supplicare per vedere il volto di sua moglie, è mio grande piacere poter vedere i vostri occhi su di me.» Rispose la voce dopo una breve pausa e solo a quel punto, con una lentezza quasi angosciante che indusse il Daimyo a trattenere il respiro, il paravento di bamboo si alzò. Le liste orizzontali ben limate e laccate si sollevarono da terra, arricciandosi le une sulle altre fino a quando della decorazione del soppalco del signore non vi fu più traccia.
    Lì dietro, seduta sulle ginocchia, vi era una splendida donna.
    I lunghi capelli di un castano color polvere di cioccolato cadevano lisci fino a toccare il pavimento di legno, incorniciando con il taglio tipico delle Principesse di nobile rango, un volto ovale dalla carnagione di un adorabile rosa pesca. Grandi iridi grigie illuminavano zigomi alti e delicati, e due sottili labbra scarlatte sorridevano con affetto e una punta di malizia in direzione di quell'uomo che sembrava incantato come un viandante da una Mononoke.
    Prima ch'egli dicesse qualsiasi cosa la donna aprì un ventaglio dipinto a mano di fronte al suo volto, trattenendosi una manica del grande e meraviglioso kimono di epoca Heian con la mano libera. Dietro di lei, ancora intenta a fermare il filo del paravento ad un piccolo chiodo nel muro, vi era una domestica dal viso inespressivo e una crocchia ben fatta di mossi capelli neri.
    «Oh, Fuji-san...» Gemette Tarou Kiriyama, incapace di trattenere il moto di ammirazione e profondo sconvolgimento che una visione talmente splendida suscitò in lui.
    «Il mio nobile signore è diventato un uomo degno di rispetto.» Rispose la donna, e i suoi occhi, dietro il ventaglio, sorrisero. «Valutate le decisioni del concilio Shinobi, prendete impegni e doveri degni del vostro rango... e tutto da solo, non vi sentite incredibile, mio signore?»
    «Ma Fuji-san, senza di voi io non sarei che...»

    Per tutta risposta la donna si inchinò, interrompendo così il parlare del padrone del palazzo.
    «Una donna è solo una donna, mio Signore. Niente più che il vanto di un ego maschile.» I capelli le ricadevano attorno alle spalle abbassate come un velo da sposa. «E' l'uomo il padrone di ogni cosa, è lui che manda avanti il mondo con le proprie decisioni... il mio Signore è sempre troppo buono con me. Non merito tanto apprezzamento.»
    Quelle parole furono pronunciate con suadenza e servilismo e andarono a colpire quella parte dell'indole maschile sensibile all'ammirazione delle donne, ma soprattutto, nel caso di un nobile, quell'antro della propria personalità che rispondeva ad una vanità tipicamente autoritaria, propria di chi può prendere decisioni in grado di cambiare un'intera nazione.
    Dopo averci pensato con attenzione e per un lunghissimo momento di silenzio, alla fine Tarou Kiriyama parve arrivare alla conclusione che si, aveva proprio ragione lei: aveva fatto tutto da solo... dopotutto le donne, sono solo donne. Oggetti nelle mani degli uomini.
    Fantocci da gestire a proprio piacimento.
    «Credo di aver fatto una grande cosa ad aver promosso Itai Nara al titolo di Mizukage.» Sentenziò allora il Daimyo, tronfio di orgoglio, sventolando con soddisfazione i fogli firmati in giro. «Ora ho tutto ciò che mi serve.» Esclamò, annuendo con vigore.
    Di fronte a lui, ormai ritornata a busto eretto, la donna tacque. Dietro il ventaglio laccato, in cui splendidi fiori si intrecciavano ad un fiume che scorreva allegro, i suoi profondi occhi grigi sorrisero.
    «Avete ragione, mio Signore.» Rispose, trattenendo una risatina entusiasta di, si sarebbe detto, estrema ammirazione. «Abbiamo tutto ciò che ci serve.» E così dicendo tornò ad inchinarsi con profonda riverenza.

    […] Si diceva che Tarou Kiriyama avesse sviluppato negli ultimi due anni e mezzo tendenze di psicosi maggiori rispetto al passato: la sensazione di essere sempre osservato, che gli impediva di rimanere solo, oppure il vizio di dondolarsi all'indietro fino quasi a cadere a terra.
    Colmo di una tarda ma sempre apprezzata tendenza a compiere finalmente il suo dovere, si diceva anche che avesse cominciato a prendere decisioni, con enfasi e passione, e che non ci fosse niente ormai che riuscisse a farlo crollar d'animo.
    Era la gioia del matrimonio quella. Così almeno si vociferava.
    ...In effetti non era una novità che il Daimyo, a dispetto dei suoi cinquantatre anni compiuti, fosse da poco convolato a nozze con la sua terza moglie, una giovane Principessa delle lontane terre dell'Est dai lunghi capelli scuri e i grandi occhioni grigi. Ella, una creatura di rara dolcezza, era una colomba nelle mani di un Dio. Si diceva che il suo carattere fosse talmente adorabile che fosse riuscita a farsi amare da tutti in davvero pochissimo tempo...

    Aah. L'amore.




     
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