Giusto prima di partire

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  1. -Meika
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    Giusto prima di partire

    L'ora delle risposte (e delle sorprese inattese).



    Alla fine avevo tenuto fede alle mie promesse, una volta tornata a Suna rimasi lì a dare una mano per quanto mi era possibile. Le notizie riguardo quanto accaduto nel campo profughi erano a dir poco sconvolgenti e l'emergenza era esplosa con un nuovo carico di feriti gravissimi a seguito del subdolo attacco dei Kijin. I bambini erano stati usati come trappole. Condannati a morire per sferrare un attacco a sorpresa in uno dei quattro Villaggi Accademici.
    E le conseguenze erano state devastanti dal mio punto di vista. Così tanto orrore non l'avevo mai provato in vita mia, ma probabilmente per come andavano le cose nel mondo avrei dovuto farci presto l'abitudine: era tutto un intenso vortice di violenza apparentemente senza fine e se quell'assurdo attacco non era stato isolato allora scene del genere si sarebbero ripetute. Ed avrei dovuto essere più forte di come mi ero dimostrata quei giorni.

    A Suna mi offrirono una polverosa stanza nel villaggio, ma preferii una tenda senza pretese nell'accampamento. Ogni sera, dopo intere giornate passate a scorrere la gente in condizioni più o meno critiche seguendo gente ben più esperta di me ed aiutando laddove potevo, mi ritiravo nella mia tenda e non riuscivo a dormire per ore. Pensavo, assalita dai più disparati pensieri, a tutta quella sofferenza ed al perché si stava generando così rapidamente. Non ero certo il tipo di persona che non dormiva la notte per cercare di risolvere i problemi del mondo (la mia sensibilità si fermava ben prima di una così estesa empatia quasi universale), ma quella tragedia di proporzioni quasi immani mi diede l'occasione di pensare più e più volte a mia madre. Non riuscii a capire il motivo che collegava gli accadimenti di Suna con mia madre e perché continuasse a tornarmi i mente ed a togliermi il sonno, finché una mattina mentre ero impegnata a curare a più riprese una brutta ferita infetta di una anziana donna non giunsero nella tenda due persone. Un uomo sulla quarantina che teneva in braccio una piccola bambina di otto anni, scura di capelli come tutta quella gente, dai grandi occhi dolci colore dell'oro. Poi compresi: era l'ancestrale necessità di sapere e capire che cosa fosse davvero successo a mia madre. Perché era la mia famiglia. Un legame indissolubile, nato dal sangue, che vedevo ogni giorno nella sua massima espressività fondata sul dolore della tragedia. Per questo non riuscivo a dormire se non quando il cielo iniziava a rischiarire, per questo decisi - una volta tornata a Kiri - di partire per Taki, alla ricerca di mia madre, di informazioni, di lei o della sua tomba. Di qualcosa.

    Pensai a quello per tutto il viaggio di ritorno a Kiri. Non sarei potuta partire immediatamente, dovevo stare qualche giorno con mio padre. Poi non dovevo dirglielo assolutamente: avrebbe disapprovato enormemente. Lui, del resto, aveva seppellito la mamma quando l'avevo fatto io ma al contrario di me non aveva udito le parole dubbiose dell'Uomo in Nero pronte a minare qualsiasi certezza. Non solo mio padre, nessun altro avrebbe dovuto saperlo. Taki era un posto pericoloso e chiunque avesse deciso di mettersi in viaggio con me avrebbe rischiato la propria vita per problemi che non erano i suoi. Quando misi piede sulla terraferma, nella mia cara e nebbiosa Kiri, seppi di esser pronta a partire nuovamente di lì a breve e tutto era pronto ormai.

    Mi avvicinai alle mura del villaggio, aspettandomi le solite porte spalancate e nessun controllo all'ingresso e mi sorpresi nel vedere cambiamenti in corpo e le solide mura ben chiuse. Aggrottai le sopracciglia, incuriosita e mi avvicinai ad una delle guardie, sventolando una mano dal basso. Ehi! Ehi! strillai. La guardia mi lanciò una rapida occhiata dunque si affacciò. Era una ragazza dai capelli scuri che avevo visto altre volte alle mura in passato. Vaghi ricordi mi dicevano che doveva chiamarsi Hikari. Oh, avvicinati alla porta se vuoi entrare! rispose la ragazza.
    Sono Meika Akuma, sono tornata a casa! Le state rimettendo in sesto? Sì! Il Mizukage ha nominato un Genin come guardiano e si sta rifacendo tutto per bene ora. Una buona notizia. Chi è il fortunato? Akira Hozuki. Lo conosci?

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    ... Stava scherzando? Dovetti trattenere una risata. Non perché ritenessi Akira inadatto al ruolo, o per essere preciso lo ritenevo estremamente inadatto per quanto competente. Aveva fatto arrabbiare qualcuno per ottenere una tale punizione? Posso parlargli? domandai. Hikari annuì.
    Dopo un po' le porte si aprirono ed io balzai dentro, respirando l'umida aria di casa. Dunque presi le scale diretta verso l'apice delle mura. Akira non era lì, Hikari mi disse di proseguire verso sinistra e così feci. Notai la zazzera disordinata di colori bianco-blu del ragazzo ad una certa distanza. Mi avvicinai con uno scatto, fermandomi quando lo raggiungi.
    Sono tornata ora da Suna. Quando ho saputo che ti avevano messo sulle mura ho pensato ad uno scherzo. Dissi con un tono appena ansimante e divertito. Chi hai fatto arrabbiare, eh? Dissi poi, con una certa malizia nella voce, tirandogli un debole pugnetto sulla spalla.
    Non c'era altra spiegazione, del resto. Akira doveva aver fatto qualcosa di molto sbagliato, perché conoscendolo un pochino si poteva comprendere che mettere l'Hozuki a guardia delle mura equivaleva a mettere un leone in gabbia. Una gabbia molto stretta, del resto.


     
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