Questioni di Famiglia

corso alle basi per Alice Sumeragi

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  1. ‡Genkishi™
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    Questioni di famiglia

    La figlia degli esiliati

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    Avevo tra le mani la chitarra usurata che avevo comprato da un rigattiere, le cui corde avevano ancora il profumo delle dita della sua precedente proprietaria. Ricordo ancora il giorno in cui decisi di uscire di casa dopo colazione per dirigermi proprio nella bottega di quell’uomo, avevo con me un portamonete di pezza che avevo ricucito da sola e l’avevo conservato al meglio nella tasca destra del vestito. E’ difficile ricordare esattamente la mia espressione durante tutto il tragitto da casa alla bottega, ma non è per nulla complicato immaginarlo. Non vi ero mai entrata prima di quel giorno, ma stranamente ero sicura di ciò che stavo facendo. Ricordo che la trattativa fu lunga in quanto quel bottegaio da strapazzo sapeva il fatto suo, non fu facile per niente riuscire a strappargli quella chitarra ad un prezzo ragionevole ma alla fine ce la feci. E quando finalmente mi ritrovai quell’oggetto tra le mani, sia per la sua bellezza e sia per la soddisfazione di aver vinto sull’ostinato venditore, non feci altro che sorridere come un’ebete per tutta la restante parte della mattinata. Solo al ricordo mi sfugge una risata. Da quel giorno iniziai a studiare le basi, ad imparare le posizioni delle mani, le varie note e il modo giusto di accordare lo strumento.

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    Quasi riuscivo a percepire lo spirito della sua precedente proprietaria muoversi assieme alle mie mani, l’odore delle sue dita e la passione nei graffi sul “corpo”, il quale aveva perso la lucentezza naturale del legno. Tutto sommato ci misi un po’ ad imparare, ma non si rilevò nemmeno tanto complicato e nel giro di poche settimane ero diventata abbastanza esperta. Anche se, proprio come la verità e tante altre cose, la concezione della bravura è soggettiva. Shiver era la prima canzone a cui stavo lavorando da tempo. Era una canzone dal titolo particolare, avevo letto da qualche parte che il suo significato fosse “brivido” e trovai fosse perfetta. Ebbi un brivido la prima volta che vidi la chitarra esposta in vetrina, e ne avevo uno ogni volta che mi approcciavo a suonarla. Ecco perché quel nome, non c’erano altri significati diversi. La mia stanza aveva un’unica, grande finestra che si affacciava su una delle strade principali del villaggio. Il letto, appostato nelle vicinanze, era un ottima postazione per guardare all’esterno ma preferivo sempre il cornicione o il tetto come punto d’appoggio, proprio perché da lì potevo guardare tutto l’esterno senza limiti.
    Come di consueto anche quella sera stavo provando. Avevo appena finito di cenare, e la brezza fredda notturna mi faceva compagnia assieme alle voci del popolo. I lumi accesi ai lati della strada davano vita a giochi di ombre frastagliate, assieme si mescolavano e quasi parevano volersi staccare dai corpi dei rispettivi proprietari per destreggiarsi in giochi ed effusioni. L’oscurità dei vicoli le avrebbe ospitate se solo lo avessero volute, ma per loro sfortuna non sarebbe mai accaduto. Le ombre non potevano vivere senza il loro proprietario, perché nel tentativo di staccarsi sarebbero morte. Comunque avevo sentito parlare di gente capace di manovrare le ombre, ma erano soltanto dicerie, balle di quartiere. O forse ero io ad essere mal informata. Legai i capelli in un'unica coda, e suonai ininterrottamente fino a mezzanotte, segnando appunti sul mio quaderno delle prove con una matita stemperata di scarsa fattura.

    Non va bene, forse dovrei provare con una nota diversa. Il suono è troppo duro, non è adatto.

    Rimuginavo continuamente su come rendere perfetta la mia prima canzone, e di certo non avevo altro nella testa se non quello.. e l’iscrizione all’accademia, ma nessun sensei si era dimostrato umano. Tutti si erano presentati a casa, con la puzza sotto il naso e quello sguardo pieno di pregiudizi nei confronti della mia famiglia. Tutti conoscevano la follia d’amore dei mie genitori, il fatto che fossero due elementi appartenenti a due mondi diversi costituiva un utile oggetto di chiacchiere. Molti dicevano che, con quel gesto, la dignità delle loro rispettive casate era stata definitivamente macchiata ma trovavo tutte quelle chiacchiere inutili. Se a capirlo ero io, una semplice tredicenne di periferia, perché non potevano capirlo anche gli altri? Bella domanda. Stesa sul letto cominciai a fissare il cielo, scivolando in un sonno profondo con la chitarra accanto allo schienale e il quaderno sotto il cuscino.

    Mi svegliai alle sette. Non mi piaceva poltrire per lunghi tempi, lo reputavo poco proficuo. La colazione era pronta sul tavolo: thè verde, pane tostato con marmellata o burro, latte scremato e cereali. A differenza del pranzo, erano rare le volte in cui trovavo entrambi i miei genitori al tavolo e seppur la cosa non mi facesse molto piacere, ero anche consapevole della situazione. Mio padre era un tipo molto strambo, i suoi orari in bottega erano praticamente impossibili da prevedere. Mia madre invece pareva ancora “umana”, con orari decenti. Preparavo raramente la colazione, ma non si poteva dire lo stesso per altre faccende domestiche: lavavo le stoviglie, pulivo il pavimento, riordinavo gli aggeggi del boss e innaffiavo le piante, in un loop continuo ma mai noioso. Sapevo che, una volta eseguiti quei compiti, avevo piena libertà di fare qualsiasi cosa volessi: potevo leggere, suonare, assistere i miei nel loro stravagante lavoro o inventarmi qualsiasi cosa. Eseguii quei compiti anche quella mattina, poi uscii a bighellonare un po’ per visionare qualche negozio particolare assieme a Nill, forse la mia migliore amica.

    Al mio ritorno mi accorsi della presenza di un ospite, notando all’entrata un paio di scarpe mai viste prima. Non detti molta importanza in quel momento, perché inizialmente valutai l’avvenimento come una comune visita d’affari da parte di qualcuno. Però la cosa si protrasse a lungo, così a lungo che dopo un’ora mi ritrovai un perfetto sconosciuto dinanzi agli occhi di cui non avevo mai sentito parlare. Il tipo partì a razzo, spiazzandomi.

    Ciao Alice. Il mio nome è Shinichi Kurogane e, per quanto ti possa sembrare strano, sono tuo cugino. Molto alla lontana, qualcosa come settimo od ottavo grado, ma sono anche il tuo sensei. Ti insegnerò le basi delle arti ninja e ti introdurrò al mondo delle tue eredità. Non so quanto i tuoi genitori ti abbiano detto, ma è giusto che tu sappia tutta la verità sulle famiglie dei tuoi genitori e sui pericoli che corri nel diventare una kunoichi. Andiamo per gradi però: il tuo nome lo conosco, però dimmi perché hai deciso di diventare un ninja.



    Cugino alla lontana? Sensei? Freni un attimo, non sono abituata a tutti questi scoop in un'unica frase.


    Ero sbalordita all’idea di avere in casa un simile individuo, ma pareva uguale a tutti gli altri venuti fino a quel momento. Visto che aveva fatto così tanta strada, perché non dargli una possibilità?

    Ok. Quindi, se non ho capito male, mi state dicendo che siete un mio parente e siete venuto qui con lo scopo di farmi da sensei. Ho rifiutato tanti insegnanti, ma se siete mio cugino allora la cosa è un po’ più complicata.

    E infatti era proprio così. D’altra parte però, avrei potuto rifiutare anche lui valutandolo sulla base di una singola domanda. Però, come detto, lo avrei accontentato rispondendo alle sue domande.
    Vuole sapere perché vorrei diventare un ninja? Mi pare ovvio. Ho valutato varie opzioni in questi anni, ma ho sempre pensato che intraprendere la carriera di shinobi potesse.. come dire… farmi evolvere. È nel gene dell’uomo evolversi e crescere, ottenere una forte indipendenza economica e uno status sociale dignitoso. Di certo quest’ultimo punto mi interessa meno del primo. Diciamo che l’ho fatto per non dover sputare sul mio stesso riflesso. E, seppur possa rispettare gli ideali altrui, trovavo stupida l’idea di diventare un ninja per diventare un salvatore: insomma, quale bambino della mia età può pensare di salvare qualcuno senza le necessarie capacità?

    Sorrisi. Ero conscia delle mie parole pungenti, ma ero fatta così: amavo la verità e non mi feci scrupoli nel dire la mia opinione. Poi, come ogni persona, ritenevo la menzogna di grande utilità ma quella era meglio utilizzarla in casi di pericolo.

    Comunque, date le circostanze, mi piacerebbe sapere la sua opinione su una cosa. O meglio, la mia è più una curiosità che nasce in virtù del legame che può esserci tra sensei-allievo, legati al tempo stesso dalla parentela. Vorrei sapere.. cosa pensa dei miei genitori. Insomma, dite di essere mio cugino, quindi avrete sicuramente un’opinione apprezzabile su mia madre e mio padre no? Insomma, dite di sapere cose che io potrei non sapere, quindi sono interessata a questo dettaglio.


    Se fosse stato come tutti gli altri, avrei rifiutato la sua proposta senza ripensamenti. Volevo capire quanto fosse leale un Kurogane, non ero un manichino da manovrare a piacimento. Avevo tredici anni, ma non di certo ero scema.




    Edited by ‡Genkishi™ - 25/8/2015, 08:51
     
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