Questione di Vita o di Morte

[Intro per Nago Yamagata]

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  1. Alastor
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    Questione di Vita o di Morte • capitolo cinque
    Quarantena



    Nago afferrò con la mano destra la coperta offertagli al gate dalla squadra di primo soccorso e se la sfilò dalle spalle, schiaffandola senza troppe cerimonie sul bancone della reception, dietro al quale l'impiegata esitava a rispondere a quell'energumeno decisamente malconcio. La inquietava non poco, e non la si poteva biasimare in fin dei conti.
    Tuttavia la sua professionalità non poteva essere minata tanto facilmente e la descrizione che le era stata presentata era abbastanza specifica da permetterle di capire senza troppi problemi chi era la persona a cui gli stranieri erano interessati.
    «S-Sì, dunque...la paziente è arrivata qui pochi minuti fa ma gli accertamenti sono già in corso» spiegò, riprendendo il polso della situazione.
    «Il caso è stato portato all'attenzione del primario.»
    «Si è già appurato qualcosa sulle sue condizioni?» indagò con apprensione Nahoko.
    «Veramente...»
    ...non lo sapremo mai.
    «E voi dovete essere quelli là» intervenne una voce maschile, col tono casuale di chi aveva avuto un'intuizione fenomenale ma non voleva farlo pesare poi troppo.
    In fondo un certo tipo d'acume è prerogativa solo di pochi eletti, nevvero? Le sue mani afferrarono il capo dell'addetta alle informazioni scuotendolo come aspettandosi forse che tintinnasse come un salvadanaio mezzo pieno, dopodiché la ragazza fu spinta via e fatta uscire di scena.
    Madre e figlio scrutarono entrambi il biondo, la prima aprendo leggermente la bocca in una espressione interdetta, il secondo senza fare una piega, ma piuttosto curioso di sapere chi fosse lo sconosciuto.
    «Salve, sono Kagure Atsushi, del team medico della Primario di questo Ospedale.»
    «Piacere, io sono Nahoko Shimada» si presentò la donna, riprendendosi più rapidamente di quanto fosse lecito aspettarsi dallo stupore iniziale generato dai modi dell'interlocutore.
    Ma in fondo nessuno poteva sapere, ancora, che con il figlio che si ritrovava costei doveva essere ormai cintura nera nell'arte del gestire e tollerare le stramberie comportamentali.
    «Questo è—»
    «Nago» completò laconico il diretto interessato, tagliando corto i convenevoli.
    L'unica cosa che gli premeva in quel momento era avere notizie fresche sulle condizioni di salute di Kayoko, e possibilmente vederla.
    Quindi bando alle chiacchiere.
    «Sono qui a darvi le informazioni che chiedete. La ragazzina di poco prima…tua figlia, giusto?»
    No, la domanda non era rivolta alla rossa, bensì al ragazzo.
    Ora, va bene tutto per carità. Possiamo anche riconoscere che il giovane straniero era tutt'altro che il ritratto della salute. Era deperito, smunto, insomma aveva una cera orrenda. Ci stava benissimo che dimostrasse, nelle sue attuali condizioni, qualche anno in più di quelli effettivi. Però fino a un certo punto.
    Insomma, si vedeva che non poteva avere chissà quale età ma il dottore sembrava convinto di trovarsi al cospetto nientedimeno che dell'uomo più precoce nel continente, colui il quale aveva ingravidato una donna solo qualche anno dopo aver smesso di indossare il pannolino.
    A meno che, ovviamente, non si stesse rivolgendo a lui come ipotetico patrigno della ragazzina, e in tal caso non si trattava più tanto di un torto nei confronti di Nago quanto piuttosto di un complimento verso la madre, che a quanto pare era stata capace di accaparrarsi un partner chiaramente più giovane di lei. Peccato che lei fosse, per l'appunto, sua madre.
    Ma andiamo avanti, che mi sta venendo la pelle d'oca.
    «No, è sua sorella» si intromise inaspettatamente la donna, senza neanche sforzarsi di nascondere una faccia basita.
    «E io sono sua madre» aggiunse, ormai poco fiduciosa delle doti deduttive dell'uomo.
    «Sono suo fratello» confermò l'altro annuendo tranquillamente, non sembrando affatto turbato da quello che ai suoi occhi era stato un chiaro e comprensibilissimo malinteso.
    La madre li guardò male entrambi.
    «Allora, dicci come sta!» proseguì lui, cercando di andare al sodo.
    «Beh, non sta benissimo, ma la donna a capo di questo posto pare sia un bel pezzo grosso nel mondo medico.
    Quindi insomma, la bambina è in buone mani. Signora, non si preoccupi.
    »

    "Pare"? Come sarebbe a dire "pare"?
    Quello dove si trovavano era il luogo decantato come la suprema dimora dei più grandi luminari della medicina di tutto il continente, e si aspettavano che colei che si trovava al vertice di tale struttura poco ci mancava che avesse doti taumaturgiche, chiunque ella fosse.
    Malgrado le parole del medico dagli occhi azzurri, che volevano essere pur maldestramente di rassicurazione, i due familiari restavano ancora parecchio preoccupati. Anche perché quel tipo non è che ispirasse molta fiducia.
    Quando si scambiarono uno sguardo si capì subito che stavolta erano sulla stessa lunghezza d'onda, ed erano pronti a chiedere ulteriori chiarimenti sulla situazione effettiva, quando l'arrivo di un'infermiera catturò inevitabilmente la loro attenzione, avidi com'erano di informazioni.
    Costei bisbigliò qualcosa all'orecchio di Atsushi per poi ritirarsi celermente.
    Al che l'uomo tornò a rivolgersi ai due visitatori ribadendo che la ragazza era stabile e sotto le cure del primario in persona, ma che probabilmente ci sarebbero volute ancora diverse ore per trarre elementi certi e chiari dalle indagini cliniche.
    E fu proprio in vista di tale attesa che si recarono tutti, compresi medici, infermiere e persino il povero Atasuke, che ormai aveva portato a termine il proprio compito e in teoria non aveva altro a che spartire con quella vicenda, presso l'ala est dell'edificio.
    La stanza in cui entrarono era piuttosto grande. Vi erano soffici poltrone, un paio di tavolini e anche quattro letti, vuoti, da poter essere occupati all'abbisogna.
    Nago non fu affatto ammaliato da quel posto. Oddio, lo stesso si poteva dire per l'intero ospedale a dirla tutta.
    Quell'odore, o piuttosto insieme di odori, forti, appartenenti a chissà quali sostanze ignote gli riempivano le narici, facendogli quasi girare la testa. Quelle mattonelle lisce e chiare, le pareti dipinte senza macchia. L'arredamento lucido, scarno, così ostentatamente artificiale e anonimo.
    Il ragazzo si soffermò a scrutare per diversi istanti i tubi al neon attaccati al soffitto, vagamente turbato. Ebbene sì, non ne aveva mai visti prima, ma bisogna tenere presente che nel piccolo villaggio da cui veniva le candele erano il massimo della tecnologia.
    Ma neanche quei bastoni luminosi gli lasciarono una bella sensazione, messi lì a proiettare quella luce così fredda e spettrale. Sembrava quasi di essere in un altro mondo, tipo sulla Luna. Però in una versione deforme, da incubo dell'incantevole astro.
    Chissà come mai quel luogo, edificato appositamente per accogliere i più deboli e bisognosi, sembrava essere così privo di calore e cordialità. E al di là dei malati, che bene o male non avevano troppa scelta, il ragazzo proprio non invidiava lo staff sanitario che ci trascorreva una buona fetta delle sue giornate.
    Lui sarebbe uscito fuori di testa dopo qualche giorno a stare tappato lì dentro.
    Mentre Atasuke e uno dei dottori incrociati nell'atrio si intrattenevano più o meno privi di scopo, i due parenti venivano condotti ciascuno presso uno dei letti a disposizione. Un piuttosto svogliato Atsushi e un'infermiera si occuparono del ragazzo, mentre Junko e la restante infermiera della donna. Un paravento venne predisposto affinché quest'ultima potesse spogliarsi ed essere visitata in totale riservatezza.
    Però ce n'era uno solo nella stanza, così il terzo medico, forse nel tentativo di rendersi utile, si offrì di andare a procurarsene un secondo per l'altro paziente.
    «A cosa serve?» chiese Nago non capendone bene l'utilità.
    «Be' sai, la privacy...» spiegò l'altro, una vera ovvietà a parer suo.
    «Lascia perdere» disse stancamente, scalciando via il solo zouri rimastogli al piede e slacciando l'obi, per poi farlo cadere a terra assieme al kimono che aveva cinto.
    Il giovane restò quindi nudo, fatta eccezione per il fundoshi e ovviamente la fasciatura che gli copriva il polso sinistro praticatagli dal guardiano.
    Non mostrava neanche una lontana ombra di imbarazzo o disagio. Già che c'era, dato che ormai la treccia che si era fatto quel mattino non reggeva quasi più ed era più sfatta che altro, tirò anche via il laccio che aveva ai capelli facendoli cadere disordinati, andando a coprire per intero la schiena.
    Dopo che medici e infermiera si furono scambiati un'occhiata interrogativa, procedettero coi loro compiti.
    Il corpo dello Yamagata era stato visibilmente logorato dagli stenti. Il colorito non era dei più sani e vi era qualche escoriazione ed ecchimosi, la pelle era leggermente ruvida e tirata, e al di sotto di essa le ossa, specialmente del torace e delle anche, sporgevano un po' più del dovuto. Le guance erano scavate e gli occhi piuttosto arrossati.
    Chi stava visitando la donna avrebbe scoperto che si trovava più o meno nelle stesse condizioni, sebbene conservasse molto meno forze rispetto al figlio.
    Dopo un'attenta analisi delle loro condizioni, i due furono trattati al meglio con farmaci integratori, pomate per le lesioni, tonici e delle gocce di quello che sembrava collirio per far sfiammare i bulbi oculari di lui. Nulla che potesse cambiare la loro attuale stato di salute da così a così, ovviamente, ma anche quelle piccole misure che si potevano prendere furono adottate con maestria.
    Gli abiti che avevano indossato i viaggiatori furono portati via e in cambio vennero offerti dei kimono di cotone bianco freschi di bucato. Nago indossò il suo senza dire nulla e quando anche Nahoko ebbe fatto lo stesso, fece finalmente capolino da dietro il paravento assieme alle altre due donne, ricongiungendosi così al resto dei presenti.
    E poi accadde l'inverosimile. O meglio, non c'era nulla di inverosimile in ciò che accadde, ma per i due poveri derelitti certamente come tale fu percepito.
    Entrarono degli inservienti che reggevano alcuni vassoi. Rapidi ed efficienti apparecchiarono le tavole per poi congedarsi dopo aver augurato buon appetito. I medici esortarono gli ospiti a farsi sotto senza fare complimenti.
    Il giovane si avviò con passo guardingo come quasi si aspettasse che le spettacolo che gli si parava davanti sparisse come un miraggio al suo appropinquarsi. Ma ciò non accadde.
    Sembrava proprio, anzi era cibo. Cibo vero, intendo.
    Riso, pesce, carne...ci siamo capiti, no?
    Afferrò un pezzetto di pollo, giusto per esserne sicuro al cento per cento, e lo avvicinò alle narici. Aveva la consistenza di cibo, l'odore di cibo, addirittura le sembianze di cibo propriamente detto.
    Nulla a che vedere con ghiande, erbacce e corteccia di pino macinata e bollita. Nulla a che vedere con vermi e lombrichi. Nulla a che vedere con ciò che erano stati disposti ad ingoiare nella assurda speranza di non morire come dei cani affamati.
    Da quand'era che non facevano un pasto come si deve, caldo e sostanzioso?
    Giorni? Abbondantemente.
    Settimane? Altroché, e più di due o tre, questo era certo.
    Il ragazzo si voltò a guardare sua madre quasi desolato quando percepì gli occhi preoccupati e severi al tempo stesso trafiggergli la nuca.
    «Vieni» disse lei risoluta, afferrandogli un braccio e trascinandolo a sedere accanto a lei a quella splendida tavola imbandita.
    «Itadakimasu» sussurrò poi con voce rotta giungendo le mani e chinando il capo, a stento trattenendo le lacrime mentre divideva gli hashi di legno.
    Il comportamento del rossiccio era effettivamente alquanto anomalo.
    In una situazione del genere, infatti, un personaggio di tal risma si sarebbe avventato senza indugi sulle pietanze come nulla di meno di un assatanato. E invece si stava dimostrando fin troppo misurato ed esitante.
    Oppure, più verosimilmente, era semplicemente stato colpito da un pensiero pesante come un macigno: che cosa stava facendo là?
    Curato, vestito, nutrito. Accudito e coccolato.
    Ma, dove si trovava sua sorella? La sua adorata Kayo come stava?
    Faceva progressi o forse peggiorava? Chi c'era a prendersi cura di lei e, soprattutto, perché lui non poteva essere lì a vegliare su di lei e a darle forza?
    Sembra assurdo ma a pensare a ciò che stava succedendo da qualche parte in quello stesso edificio, o peggio, che sarebbe potuto succedere, l'appetito che non gli era mai mancato in vita sua e a maggior ragione nell'ultimo periodo, svaniva completamente.
    Nago si rese conto di essere rimasto imbambolato a fissare la ciotola del riso per un tempo indeterminato solo quando sentì sua madre tossire forte alla sua sinistra. Forse le era andato qualcosa di traverso.
    Il giovane quasi con un gesto automatico le diede qualche pacca dietro la schiena mentre le versava dell'acqua con l'altra mano.
    Lei rapidamente impugnò il bicchiere e mandò giù il boccone. Era il minimo che ci si potesse aspettare da qualcuno che non mangiava a dovere da tempo avere qualche problemino a deglutire e ingerire cibo solido in fin dei conti.
    «Forza Nago, devi mangiare!» si rivolse allora lei al figlio.
    «Che ti prende?»
    Lui non rispose, chiudendo gli occhi e scrollando appena le spalle.
    La madre lo scrutò intensamente, con attenzione, come solo una madre sa fare.
    «Anch'io sono in pena per Kayo» gli sussurrò affinché solo lui potesse sentire, o almeno era questa l'intenzione.
    Gli prese il mento con la mano e lo girò verso di sé.
    Lui riaprì gli occhi, guardandola a sua volta.
    «Ma sarebbe sciocco e vergognoso rifiutare questo cibo, soprattutto perché ne abbiamo davvero bisogno.»
    Gli sorrise dolcemente.
    «Io ho intenzione di reggermi bene in piedi quando Kayo si riprenderà, e voglio avere la forza di abbracciarla.
    Penso che ne sarebbe felice, tu no?
    »

    Lo Yamagata restò a fissarla per alcuni indescrivibili momenti, quella donna che malgrado tutto quello che stava passando continuava pure ad incoraggiare e confortare il suo ragazzo, e con una certa efficacia tra l'altro.
    Nago fece dunque un unico cenno secco di assenso col capo, le labbra serrate. Tornando a fronteggiare le vivande sul tavolo, si fece finalmente forza.
    Sì, doveva essere forte per sua sorella e anche per sua madre.
    Affondò la mano destra nella ciotola del riso riempiendosene il pugno, che poi si portò alla bocca, masticando lentamente ma inesorabilmente.
    Solo al terzo boccone si rese conto che le lacrime gli rigavano il viso tuffandosi nella scodella ormai quasi vuota.
    «Aspettami, sto arrivando da te.»


     
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