Tomodachi

[Free Kairi - Shin]

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    Tomodachi

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    Shin se ne stava disteso sul letto ad occhi chiusi. La stanza era avvolta dall'oscurità e dal silenzio, ma il ragazzo non stava dormendo. Era in uno stato di apatia che durava da almeno due giorni, alternato da scatti di iperattività. Aveva già distrutto due shinai da allenamento, i resti dell'ultimo dei quali giacevano ancora abbandonati nel giardino che si stendeva sul retro dell'abitazione, racchiuso da alte mura di cinta. Con un movimento flemmatico si portò una mano fin sopra la fronte. Si trovava in quelle condizioni fin dal suo rientro dal Paese delle Sorgenti Termali. Era ad un bivio, ma non sapeva che strada prendere, quindi passava le giornate in bilico, oscillando tra la disperazione e la speranza, tra l'apatia e la foga, senza soluzione di continuità, rimandando la scelta. Saltuariamente le immagini che gli si erano impresse in profondità dentro la sua mente, generate, o meglio estratte dai suoi stessi incubi dall'arte oculare dell'uomo che era divenuto suo maestro, tornavano a fargli visita, provocandogli reazioni contrastanti. Una volta, angosciato, si era rannicchiato contro la parete, nascondendo la testa tra le mani come per nascondersi. Un'altra invece aveva colpito con un manrovescio la tazza poggiata sul piano cottura con un rabbia, scagliandola contro il muro dove era esplosa in mille pezzi. Che schifo... Le parole, prive di forza, erano uscite dalla sua bocca seguendo le fila di un pensiero già disperso nel turbinio dentro la sua testa. Non poteva continuare così. Pregava, o almeno auspicava in un angolo della sua anima, che qualcosa giungesse a risollevarlo dall'abisso in cui stava sprofondando, ricordandogli quale era il suo scopo nel mondo. Ed infine, quel qualcuno arrivò.

    Il rimbombo si diffuse per tutta la casa vuota. Qualcuno bussava alla porta della dimora Kinryu. Shin, che aveva istintivamente aperto gli occhi, li richiuse. La persona che chiedeva udienza tuttavia non desisteva e i colpi contro il legno robusto continuavano. Una, due, tre, quattro volte. Il giovane si mise seduto sul letto con rassegnazione. Perfino il suo caratteristico sospiro sembrava averlo abbandonato. Nessun altro avrebbe accolto l'ospite, chiunque fosse. Era rimasto solo lui. Subito dopo la riunione di Villaggio aveva invitato la famiglia a prendersi una lunga vacanza. Ora i genitori e l'amata sorella si trovavano in un angolo sperduto del Paese del Fuoco, ben lontani dalle nubi di guerra che si intravedevano ormai ad occhio nudo all'orizzonte e sotto l'attenta custodia della kitsune del santuario di Inari. Muovendo i piedi con riluttanza, sollevandoli il minimo per non trascinarli, Shin scese le scale, raggiungendo l'ingresso al termine dell'ennesima sequenza di quattro colpi. Ritrovando un briciolo di vitalità l'aprì di scatto, squadrando la persona che aveva di fronte con un'espressione facilmente riconoscibile come stizza. Per l'ennesima volta si trovava a passare repentinamente da un atteggiamento all'altro, sebbene il suo morale rimanesse basso. L'uomo, che gli aveva cordialmente rivolto la parola, era senza dubbio un Uchiha. Lo stemma, il fisico, il portamento stesso ne erano testimonianza. Il padrone di casa rispose con voce piatta, in contrasto con lo scatto di poco prima. Sono io. Uno sguardo difficile da decifrare comparve sul volto del poliziotto, suscitando una strana sensazione nel Kinryu. Quando si presentò come il padre di Kairi poi, gli occhi del giovane si spalancarono per bene. Se era uno scherzo, era di cattivo gusto. Possibile che proprio lui tra le mille persone disponibili avevano scelto di inviargli i kami? Con un'espressione contratta, Shin chinò appena il capo, mentre ascoltava quanto l'uomo aveva da dirgli. Il suo sgomento crebbe ulteriormente quando lo shinobi, di sicuro superiore a lui in grado e esperienza, si chinò più del dovuto, chiedendo, anzi implorando il suo aiuto.
    In un'altra vita, il ragazzo si sarebbe messo a ridere. Si sentiva proprio l'ultima persona al mondo che poteva aiutare qualcuno, e Kairi in particolare. Si prese del tempo per rispondere, cercando con attenzione le parole. Quando finalmente aprì bocca, con il capo abbassato, lo fece parlando piano, sottovoce. Izuna-san, lei mi sopravvaluta. Io non ho la forza di aiutare nessuno. Nel suo petto però il suo cuore fremeva mentre pronunciava quelle parole. Che fosse debole, era una realtà per lui. Nonostante il suo sforzo incessante per diventare più forte, alla fine il terrore di non essere in grado di proteggere ciò a cui teneva lo aveva avvolto, paralizzandolo. Eppure, desiderava con tutto se stesso poter stare vicino a quelle persone. Strinse i denti. Sì era debole, inutile, ma non intendeva rinunciare senza averci almeno provato. Kato gli aveva fatto capire una cosa: la vera forza non era una conquista, ma un processo. Tuttavia, lui non aveva trovato in sé l'energia per ricominciare a camminare su quel sentiero. Ma ora, davanti al padre della sua migliore amica che lo supplicava con il cuore in mano di prendersi cura di lei, qualcosa si era smosso. Appena appena, ma quel tanto che bastava per fargli fare un passo, come un sassolino che cade dalla sommità di un monte e che con un po' di fortuna poteva trasformarsi in una valanga. Alzando gli occhi sull'uomo davanti a lui, Shin raccolse quel sentimento, aggrappandovisi per uscire dal torpore in cui era sprofondato. Però...farò del mio meglio per Kairi. Non reclamare le cose, ottienile. Solo così sarai ricompensato. Già, il maestro aveva ragione. La soluzione non sarebbe piovuta dal cielo, nessuno avrebbe risolto la faccenda al posto suo. Non poteva starsene in un angolino a guardare, mentre i grandi si davano da fare. Anche lui, per quanto piccolo, doveva impegnarsi e fare la sua parte. Con un gesto aperto della mano rivolto verso il vestibolo, invitò l'Uchiha ad entrare. Prego, da questa parte. Mi racconti tutto nei dettagli. L'ultima volta che ho visto sua figlia è stata alla riunione, e quando si è allontanata aveva un'espressione seria in viso. Cosa le è successo?
     
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