La ChiamataRiunione Segreta dei Kage

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    九代目水影 - Kyuudaime Mizukage

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    La Chiamata


    I


    Come si può riassumere in poche parole uno statoo di continua preoccupazione verso un futuro catastrofico? Ansia? Terrore? Avevo provato quelle sensazioni in passato e negli anni, avevo imparato a gestirle, a non lasciarmi sopraffare.
    Quella volta non era così.
    Dormivo poco e si vedeva. Ciò che avevo vissuto in prima persona era un'esperienza che andava ben oltre la semplice comprensione umana. Avevo visto l'essenza del tempo, avevo vissuto in uno spazio dove questo non avevo significato. E da lì ne ero uscito con una sola certezza: guerra.
    I Cremisi avrebbero marciato su ogni cosa, avrebbero bagnato di sangue la erra ed il Veterano era un nemico troppo forte e troppo furbo per essere sconfitto, almeno attualmente.
    C'era bisogno di unità, c'era bisogno di un'Accademia forte ed in quel momento l'unica cosa forte erano le divisioni tra i quattro villaggi che componevano detta "alleanza".
    Raizen era un animale ferito. Privato di Kurama, privato del Daimyo e probabilmente, del suo orgoglio.
    Avevo saputo delle elezioni del Kazekage e del Koage. Una buona ed una pessima - ma scontata - notizia. Il Kakita era una scelta migliore di Hoshi, se non per forza, per il semplice fatto che non era compromesso con il Mikawa.
    Diogene invece era una pessima notizia. Qualcosa a cui però ero mentalmente preparato. Affrontare il Mikawa per difendere la mia patria non mi spaventava.
    Ma se avessi dovuto combattere Oto ed i Cremisi, pur con l'aiuto di Konoha e Suna... che speranze avremmo avuto? Non ero certo che i quattro Kage assieme avrebbero potuto uccidere il Veterano, figurarsi tre. Figurarsi se avessero dovuto combattere su due fronti o peggio, se i loro nemici si fossero alleati.

    Anche quella notte erano le tre quando aprii gli occhi. Sapevo che il sonno non sarebbe arrivato, il suono del mio cuore che batteva forte non mi avrebbe lasciato tregua. Mi alzai a sedere silenziosamente, mi girai verso Ayame che dormiva placidamente al mio fianco. Non la svegliai, con cautela scesi dal letto, uscendo dalla camera. La porta di quella di Natsu era aperta: il bambino era troppo piccolo per dormire in un letto vero, avevo ancora una culla. Ci entrai e mi avvicinai alla struttura di legno, posando le mani sul bordo.
    Natsu aveva preso parecchio da me. A differenza delle sorelle maggiori aveva i capelli biondi, biondissimi, simili ai miei quando avevo la sua età. Si sarebbero scuriti nel tempo. Forse la carnagione era più simile a quella di Ayame. Era un bambino attivo, curioso, impavido. Aveva tutta la vita davanti, una vita che doveva essere felice e libera.
    Io ero suo padre.
    Era compito mio far sì che ciò accadesse.
    Ero suo padre e non ero più sicuro di poterci riuscire.

    Un lieve rumore di passi mi svegliò. Mi voltai e nella penombra vidi una piccola figura in piedi davanti la porta aperta. Si strofinava gli occhi e sbadigliava. Potevano essere Jukyu o Nana, non ne avevo idea, senza luce erano praticamente impossibili da distinguere.
    Papà? La voce, assonnata, era quella di Jukyu. Mi voltai ed andai da lei, accarezzandole piano i capelli, piegandomi sulle ginocchia.
    Ehi piccola, perché sei sveglia?
    Dovevo andare in bagno, mi rispose sbadigliando. E tu perché sei sveglio?
    Avevo sentito qualcosa dalla stanza di Natsu e sono venuto a controllare, mentii, non potevo dirle che il peso e la paura mi stavano schiacciando. Direi che tu devi tornare a letto.
    Va bene, disse semplicemente la bambina. Vieni con me?
    A quella domanda sorrisi, il cuore colmo di quell'immensa tenerezza ed amore paterno che solo un figlio può suscitare. Misi le mani sotto le sue braccia e la sollevai. Andiamo.
    Ce la dovevo fare.
    Per loro.
    Solo per loro.



    Più tardi quella notte un corvo beccò la finestra del mio studio privato in casa. Era seduto dietro la scrivania, leggevo documenti ufficiali, cercavo di trovare una soluzione che sapevo non avrei trovato rimanendo lì.
    L'unico modo era incontrarci tutti. Definire le alleanze. Ma avevo timore, timore di non essere pronto all'estrema prova che mi attendeva. Timore che tutto ciò che avevo creduto fosse inutile. Mai prima la guerra. Mai prima la vendetta. Mai prima la rabbia.
    Ma sarebbe stato così di fronte al Mikawa?
    Il corvo beccò ancora.
    Non era un animale comune: mi alzai ed aprii la finestra. L'uccello balzò dentro ma non scappò, mi guardo con aria misteriosa, attendendo. Alla zampa portava legato un rotolo. Lo presi ed in quel momento il corvo gracchiò, uscendo dalla finestra aperta. La richiusi per bloccare l'aria gelida e tornai alla scrivania con il piccolo messaggio in mano.
    Mentre lo leggevo sentivo prudere vecchie cicatrici, precisamente, vecchie cicatrici dietro le gambe. Speravo che a Jotaro facesse male l'orecchio almeno.

    Sospirai, bruciando il biglietto subito dopo. Una riunione dei Kage. Era ciò che ci voleva... e dunque, era giunto il momento.
    Il momento della verità.
    Il momento di capire se questa Alleanza poteva essere ancora definita come tale



    Il messaggio per Kensei giunse il mattino dopo seguente. Mi trovai il tetro spadaccino nel mio studio. Avrei chiamato Akira. Era stato promosso a Jonin, sarebbe stato quello il suo posto. Ma Akira non c'era. Dopo la missione nel Paese del Gelo, qualcosa in lui si era rotto. Non era ancora tornato al villaggio ed io avevo deciso di dargli tempo.
    Però aveva responsabilità. Verso il Villaggio, verso le persone che stava lasciando lì. Aveva le responsabilità della spada che i portava dietro.
    Ma c'era Kensei. Quando la mano destra non era amputata, la sinistra sarebbe rimasta lì, pronto a sostituirla. Per qualche motivo Kensei mi inquietava, come se qualcosa in lui fosse del tutto opposta a me. Ma ciò non mi impediva di fidarmi completamente di lui.
    Una riunione segreta tra i quattro Kage, Kensei. Io, Raizen Ikigami, Hohenheim Kakita e Diogenes Mikawa. Saprai cosa significa. Voglio che tu venga con me come mia scorta... non mi aspetto combattimenti, ma la fiducia è una merce rara ultimamente. Spiegai al Kenkichi, che poi mi ricordò di Akira. Lo so. Diamogli tempo, almeno un altro po'. A volte, quando le cose vanno tremendamente male, serve. Scostai lo sguardo dallo spadaccino, sospirando. Parlo per esperienza personale.



    Eravamo a circa trenta chilometri dal luogo prestabilito quando dissi a Yogan di atterrare. Proseguiremo a piedi, spiegai. La riunione è segreta ed un drago è un ottimo segnaposto. Torna pure Yogan, dobbiamo essere solo io e Kensei. Dissi alla dragonessa la quale fece un verso di disappunto, ma scomparve. Andiamo.

    Un luogo freddo, spartano. Cibo pessimo. Nessuna comodità. Nessuna guardia. Nessuna richiesta di cedere le armi. Eravamo lì, con i nostri capelli, con le nostre armi e tutte le migliori intenzioni che potevamo mostrare verso gli altri. Mi trattenni forse troppo a lungo nella mia stanza, racchiuso in una forzata meditazione. Quando ne uscii, cappello in testa, camminai fino ad entrare nella stanza. La mano di Kensei mi toccò la spalla, ma non mi voltai. La mia attenzione fu catturata dai due che entrarono: Jotaro ed... Akira.
    Sentii Kensei sussurrai il nome dell'Hozuki, io, invece, non dissi nulla.
    Ci fu solo uno sguardo, lanciai al ninja di Kiri, severo.


    Presi posto, silenziosamente, dove mi spettava, poggiando il capello di Mizukage sul tavolo, unendolo a quello degli altri. Solo allora guardai i presenti, fermamente.
    Lì non c'era più Itai Nara.
    Non c'era più un uomo. Non c'erano più sentimentalismi o personalismi. Non c'era spazio per null'altro che non fosse Kiri.
    Ero l'incarnazione del Villaggio. Solo e nient'altro che il Mizukage, l'idea astratta di esso fatta carne.
    Quella riunione poteva iniziare.
     
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