Messa a punto

Perfezionamento di un ninja [Villa Kobayashi]

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Admin
    Posts
    18,986
    Reputation
    +684

    Status
    Offline

    L'ispezione iniziale







    Un tramonto tranquillo, dopo un bel pezzo tra l’altro, anche se non per tutti era facile apprezzarlo, tra le persone che non ci riuscivano era compreso lo stanco ragazzo che si stringeva nel suo mantello, lievemente infreddolito dall’inverno che arrivava in ritardo e dalla posizione che manteneva da ormai qualche oretta.
    L’indecisione fatta persona, a dirla tutta.
    Non sapeva se scendere o meno a terra, aprire quel cancelletto e bussare alla porta, magari buttandola a terra.
    Per cui sarebbe rimasto li sopra ancora per un po’, guardando chi passava li sotto.
    Non vedeva Shizuka Kobayashi da un pezzo, e a dirsela tutta la ragazza non gli stava troppo simpatica, se proprio doveva costringersi a riportarsela alla mente ben poche erano le cose piacevoli che si ricordava, in quanto la più indelebile restava il suo nobile sarcasmo che non infastidiva Raizen tanto per gli insulti quanto per il fatto che non facessero minimamente ridere!
    Per il Colosso era quasi un codice d’onore. Se doveva insultare qualcuno doveva quantomeno far ridere, altrimenti tanto valeva star zitti.
    Se insultare voleva solo dire affermare in un modo o nell’altro la propria superiorità allora era solo una gara a chi aveva il pistolino più grosso.
    Senza contare che gli faceva bollire il sangue nel cervello il fatto che avesse da ridire ogni dannata volta che Raizen parlava.
    Così, sospinto dal flusso di pensieri e dalla lieve ira si ritrovò sullo zerbino d’ingresso, guardandosi dietro pareva avesse avanzato ad occhi chiusi, considerando il cancelletto divelto.
    Sbuffò mentre bussava alla porta, un rintocco di nocche ampio a sufficienza da fargli udire l’eco nel corridoio.
    Aspettò a braccia conserte che gli venisse aperta la porta.

    Raizen Ikigami, cerco Shizuka.

    Nessuna risposta, solo uno sguardo dubbioso.

    Beh? Che devo scrivertelo su un foglio di protocollo e metterci un sigillo imperiale?
    Muovi le chiappe mozzo con i piedi all'asciutto e chiamami quella disgrazia che ti da lo stipendio! Marsh!


    Disse restando a braccia conserte.
    Sarebbe stato abbastanza difficile interagire con lui, occhi torvi a causa di una mal celata ira e il suo nuovo completo da missione, del tutto nero, che lo rendeva un ombra alta oltre due metri e larga quanto bastava da coprire alla vista ciò che stava fuori dalla porta e dietro di lui.
    Il Colosso della foglia, per l’appunto.
    Aspettò li l’arrivo dell’allieva, immobile come una statua.

    Beh, e dove cazzo saresti stata tutto questo tempo?
    Da quando abbiamo perso le tracce di quel cretino che dovevamo salvare da non mi ricordo dove non ti sei più fatta viva!


    Avrebbe chiesto scocciato mentre con una spalla si poggiava al muro accanto alla porta

     
    .
  2.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Y Danone
    Posts
    8,529
    Reputation
    +561

    Status
    Anonymous

    C H A N G E of L I F E :
    "Being a Humanist means trying to behave decently
    without expectation of rewards or punishment
    after you are dead"

    Shizuka Kobayashi.




    divisore



    Hisoka Aoki era un ragazzo di venticinque anni alto come una pertica e con grandi occhioni contesi tra un debole azzurro e un metallico grigio. Era l'attendente di Akihiko Kobayashi, il cugino di primo grado della nobile Principessa ereditiera, accorso da Kiri – dove si trovava la sede da lui gestita dell'impero del commercio dalla “K.” ricamata a filo d'oro– quando aveva saputo che Konoha era stata vittima di un attacco terroristico da parte di una certa associazione nukenin di nome Kurotempi, e che Shizuka Hime-sama era rimasta coinvolta in prima persona, rischiando la vita per proteggere il suo villaggio.
    L'amore e la devozione che Akihiko –un individuo snello ed estremamente femmineo, con lunghissimi capelli color del grano, sempre raccolti in una composta treccia, e gli occhi affilati del verde profondo che contraddistingueva tutta la linea pura di sangue dei Kobayashi– nutriva per sua cugina, erano quei tipi di sentimenti che si provano per qualcuno che si desidera imitare. Per il proprio modello. La persona che si vuole raggiungere.
    In effetti Shizuka Kobayashi era stato un piccolo prodigio che persino i membri più anziani della famiglia ricordavano di non aver mai scorto neanche in suo padre, stimato come il migliore capoclan mai esistito dalla nascita della loro stirpe, vecchia come il mondo. Nulla di cui stupirsi, del resto quella bambina, dallo sguardo curioso ma gentile, si era subito distinta per un'intelligenza assolutamente fuori dalla norma e per una velocità nell'apprendimento che in poco tempo l'avevano resa una mercante scaltra e affermata come pochi altri lo erano, anche tra i membri più anziani. Il carisma che la vestiva naturalmente e che ne caratterizzava i lineamenti nobili e fieri, poi, la rendevano una burattinaia di persone come mai se ne erano vedute, ma sempre così gentile e dopotutto modesta, da non aver bisogno di lesinare l'ammirazione e l'amore di tutti, che l'accerchiavano con devozione senza che venisse loro chiesto nulla.
    ...Eppure, le cose erano cambiate.
    Quanti anni erano, ormai...? Cinque?
    Shizuka Kobayashi aveva tradito le aspettative della linea di sangue di suo padre, e aveva intrapreso una strada che, forse, non avrebbe mai dovuto scorgere: quella di sua madre.
    Al tempo al Clan si parlò di una ribellione adolescenziale, di un affronto perpetrato da quella ragazzina dal carattere indomabile come una tempesta invernale, un tentativo di lei di imitare quel fratello che aveva sempre seguito come un'ombra, piena di un amore che sfociava nell'ammirazione cieca... ma non era stato così. La splendida Principessa di Konoha non si era mai ritirata dalla vita Shinobi, continuando a lottare contro gli imprevisti e la ferocia di quel cammino che lentamente l'aveva consumata, divorata, dilaniata, portandole via tutto: l'aspetto infantile, il sorriso, l'amore, ma soprattutto la serenità.
    Non vi era più traccia di Shizuka, la gemma dei Kobayashi. Adesso, di lei, era rimasta solo l'ombra di un ricordo ormai lontano...
    … e Akihito Kobayashi –colui che, per primo, si era issato di fronte a tutta la famiglia per permettere alla sua amata cugina di inseguire il suo nuovo sogno, guadagnando per lei il tempo che le era poi servito per dimostrare che non stava giocando– si sentiva responsabile come l'emissario di un assassinio.
    Di questo, il giovane Hisoka fu sicuro quando vide il suo Padrone rimanere immobile sull'uscio scorrevole della porta di quella stanza entro cui lei si trovava. Lei. O almeno, il suo corpo.

    «Si ritirerà dalla vita Shinobi, adesso, Heiko...?»
    «Stiamo valutando questa possibilità, Mamiko-san, ne abbiamo già parlato con lei.»
    «E' un sollievo in un certo senso, non abbiatemene, Toshiro, Heiko, vi prego... la ragazza è un bene insostituibile per il nostro Clan... dopo la dipartita di Kur-»
    «Si. Lo sappiamo.»


    Aveva sempre pensato che Shizuka Hime-sama fosse una ragazza estremamente bella.
    Scherzando, lei gli rispondeva sempre, in quel tono confidenziale che lo metteva così a disagio perché incapace di comprendere come rispondere all'Erede senza apparire sfrontato o persino malizioso, che non vi era assolutamente niente di bello in lei.
    “Mia madre è bella” rispondeva ridendo “Gli Uchiha...loro si che sono belli. E' incredibile quanto lo siano, in effetti” non mancava mai di aggiungere, sorridendo ironica. E lui non capiva mai se lo diceva perché aveva sempre guardato di nascosto quel clan, che forse ammirava, o perché ciò di cui si riempiva la bocca, parlando di vendetta e odio, fosse in effetti la verità.
    Per quanto lo riguardava aveva visto quei cosiddetti “Uchiha” di cui la Principessa parlava in continuazione, ma non aveva mai pensato che ella vi fosse inferiore. Il tipo di bellezza della Padrona non era tanto volgare, come quello di loro, ma elegante e nobile come quello di una bambola di porcellana tradizionale. Ella possedeva quel tipo di bellezza rara che nasce dalla sicurezza in se stessi e dalla consapevolezza di poter arrivare dove si desidera. Una sfumatura che nessuna bocca carnosa o forma provocante avrebbe mai avuto.
    … Ma anche quello era il passato. Di quel genere di splendore, ormai, non vi era più traccia.

    «Ojou-sama...» Ritsuko Aoki. «Akihiko-sama è giunto per voi.» La voce debole, dubbiosa. Spaventata.
    «Shizuka-chan...?» L'incredulità. Lo smarrimento.
    «Ojou-sama, alzate il volto.»

    «Il suo corpo è sfregiato, abbiamo saputo.»
    «Si, è così.»
    «Toshiro! Come puoi rispondere in modo tanto leggero?! Ti rendi conto che un corpo deturpato non potrà essere appetibile per nessun uomo?!»
    «...Oba-sama...»
    «Mattakunee... provvederò a riallaciare i rapporti con il figlio del Daimyo delle Terre del Fuoco. Vostra figlia è stata di una maleducazione inaccettabile all'ultimo Omiai, ma quel giovane rampollo è rimasto comunque stregato da quella sua arroganza, forse potremmo...»
    «Si. Abbiamo già parlato lei anche di un possibile matrimonio.»
    «“Possibile”? Gli Dei ti perdonino, Heiko... vostra figlia deve sposarsi e dare almeno due eredi, dopoché sarà libera di agire come preferisce!»
    «Ne siamo sempre stati consapevoli...»


    Fu impossibile non paragonarla ad una farfalla. Per la prima volta nella sua vita la vedeva così fragile da non scorgere in lei l'aquila di un tempo.
    I lunghissimi capelli castani, ormai abbastanza lunghi da essere in grado di accarezzare il suolo su cui sedeva, scomposta, le ricadevano come un lungo sudario sui lineamenti scavati del volto notevolmente dimagrito, precipitando poi sopra ad un kimono di seta leggero semi-aperto da cui affacciava un'orribile cicatrice grande tre dita, che dalla spalla sinistra si tuffava tra i due seni, sparendo poi chissà dove. La Principessa non sembrava interessata a coprirsi e di tanto in tanto guardava il suo riflesso nello specchio che aveva posizionato di fronte a sé, scrutando quell'offesa al suo corpo come si potrebbe guardare la conseguenza di una punizione meritata.
    I suoi occhi verdi erano spenti, cerchiati, segnati da due profonde occhiaie rosse. Le sue labbra secche, sembravano aver difficoltà ad articolare suoni.
    «Shizuka-chan» Esordì dopo una pausa sin troppo lunga, gentilmente, Ahikito Kobayashi, raccogliendo a due mani il coraggio di entrare nella stanza, lasciando i due Aoki sull'uscio. «Sono venuto da te, a trovarti...» Sussurrò, cercando di abbozzare un sorriso. «...Mi riconosci?» Domandò poi, dubbioso, dopo un'altra pausa.
    «Si, certo.» Rispose però subito e inaspettatamente l'Erede, annuendo e voltandosi verso il cugino. «Okaerinasai, nii...»
    «Si.»
    Mormorò lui, tremando di fronte al volto pallido della bimba. «Tadaima...»

    «Mamiko-san per favore. Con calma. Toshiro, Heiko? Non vogliamo essere così malevoli da tormentarvi dopo un evento traumatico quale quello che ha colpito la vostra famiglia, ma apparteniamo tutti al medesimo Clan e sappiamo perfettamente che gli anni stanno cominciando a passare e Shizuka dalla vita Shinobi non ha mai tratto assolutamente nulla se non disperazione. »
    «Me ne rendo conto.»
    «Heiko, la colpa non è tua. Sei stata e sei tutt'ora una splendida madre, ma per quanto Shizuka possa essere portata per la via del ninja, la vita da Principessa dei Kobayashi è sempre stata molto più idonea per lei, proprio come ci si aspetta che sia del ruolo per cui si è nati.»
    «Si. Avete perfettamente ragione Arata-san...»
    «La piccola deve tornare da noi, comprendete, suppongo... la vendetta, l'odio, la disperazione, la paura... sono sentimenti che la stanno...»
    «...che la stanno uccidendo.»


    Sembrava un'altra persona. Era completamente diversa. A tratti quasi spaventosa.
    Per un istante Hisoka Aoki si ritrasse, smarrito da quella visione, e guardandosi intorno sembrò quasi insensatamente cercare l'origine di quello che doveva senza dubbio essere uno scherzo, perché non vi era possibilità che l'amata Principessa erede si fosse ridotta ad essere quell'ombra opaca sullo sfondo di un ambiente cui non sembrava appartenere. Poi, inaspettatamente e improvvisamente, comprendendo che in quella situazione non vi era nessuno scherzo ma solo follia, si sentì profondamente arrabbiato: chi aveva fatto una cosa simile alla Principessa? Chi? Chi l'aveva ridotta a quel modo?!
    Era sempre stata un bagliore, una luce. Ella era il sole, e il sole arriva ovunque.
    Ma ora...
    Voltandosi verso Ritsuko, una parente appartenente a chissà quale ceppo confuso del loro Clan cadetto, cercando in lei qualcosa, forse una risposta, il venticinquenne notò gli stessi sentimenti suoi sul volto di lei, segnato però da un dolore maggiore, sotto molti aspetti inimmaginabile per lui.
    Per un Kumori, l'ombra del capoclan, un individuo che nasce letteralmente con il solo scopo di accompagnare la vita del suo Padrone, vedere questo morire di fronte ai suoi occhi era paragonabile alla propria morte, tanto che non era inusuale che un Kumori si suicidasse seguendo il capoclan che aveva servito, poiché la sua esistenza, senza d'egli, era inutile.
    Ella era vittima di un dolore che non aveva nome, che non poteva essere delineato, e che affondava le radici nella storia cruda del loro clan vassallo, in cui la loro vita era considerata un appannaggio di quella dei signori da loro serviti. Ma nel caso di Shizuka Kobayashi, che aveva sempre amato Ritsuko come una sorella, esortandola a vivere per l'amore che le diceva era necessario che nutrisse per se stessa, il dolore che affliggeva quella Kumori, forse, aveva le sfumature di un sentimento molto più forte.
    Poi, un rumore di piedi veloce e sconclusionato ruppe quella sorta di stazionamento che si era creato e d'improvviso, da dietro l'angolo cui proveniva il rumore, un garzone della magione Kobayashi si affacciò tutto trafelato. Il suo volto ancora troppo giovane per poter essere considerato anche solo adolescente era segnato dalla paura e dall'angoscia. Tremava come se fosse stato gettato dentro un secchio d'acqua gelida e nella mano sinistra brandiva, in modo tutt'altro che minaccioso, un coltello ancora infoderato tenuto, per altro, dalla parte della lama. Per un istante Hisoka Aoki pregò che quella misera arma non si denudasse, portando via con sé due o tre dita del povero sprovveduto.
    «R-r-r-ritsuk-...» Latrò il ragazzino, disperato. Era pallido come la nebbia.
    «Prendi fiato, Kentarou. Non posso comprenderti, altrimenti.» Si limitò a rispondere la chiamata in causa. Sembrava impegnarsi a tenersi perfettamente composta ma, da sotto l'ampia manica del kimono da lei indossato, Hisoka, fermo alle sue spalle, si stupì di scorgere una mano tremare.
    «R-ritsuko-sama!!» Continuò però il garzone, ignorando completamente il consiglio che probabilmente non aveva neanche sentito. «U-un mostro!!»
    «...Prego?»
    «U-un mostro è g-giunto alla porta p-principale... l-lui vuole...vuole la Principessa!»

    Per un istante la mano di Ritsuko Aoki serpeggiò istintivamente al fiocco dell'obi ma lì si bloccò con forza. Le dita, uncinate nel vuoto, tremavano di quello che il secondo degli attendenti di alto rango presenti alla scena avrebbe definito un terrore tanto puro da toglierle persino la parola e che per un attimo coinvolse persino lui, un estraneo in quella vicenda. Impallidendo, il giovane si irrigidì, voltandosi poi di scatto verso l'interno della stanza davanti alla quale si trovava, rivolgendo lo sguardo al suo Signore. L'unico cui avrebbe dovuto pensare. Che avrebbe dovuto salvare, in caso di reale pericolo, anche a costo di morire.
    «E' alto... come un g-gigante! E'...i c-capelli...s-sono bianchi e... è tutto... nero... il viso... e le mani come...»
    «Ah.»
    Fu però la risposta che venne improvvisamente offerta. «Ah.» Ripeté di nuovo Ritsuko, e incredibilmente, sul suo volto, comparve un tenue sorriso. «Ah.»
    La mano che si era issata all'obi precipitò pesantemente verso il basso e il corpo della donna, teso e rigido fino ad un attimo prima, si ammorbidì. Le rughe del viso dettate dalla tensione si sciolsero e un sospiro venne impercettibilmente lasciato sfuggire, lasciando il giovane garzone e il secondo degli attendenti completamente di stucco. Una situazione, però, di cui la Kumori non parve interessarsi.
    «Shizuka Ojou-sama.» Ignorando completamente lo sguardo dei suoi due interlocutori, che non ebbe neanche l'educazione di congedare o tranquillizzare, la domestica degli Aoki si girò tanto rapidamente verso la sua Signora, che chiamò con un timbro di voce assolutamente alto e per questo scioccamente inopportuno, da ignorare persino la presenza di Ahikito Kobayashi, un dettaglio quello che non poté fare a meno di indispettire Hisoka. «Andate immediatamente all'entrata della magione, pare che ci sia una visita per voi. Avete capito? Una visita per voi.» Ordinò la donna, e ripeté quella frase, invariata, fino a quando Shizuka –che parve per i primi minuti ascoltare quel comando come si ascolta il canto del vento in una foresta, in modo cioè silenzioso e poco attento– alla fine si alzò da terra. Pareva, per il vero, essersi istantaneamente scordata della presenza del cugino. Sembrava in effetti che ormai la sua mente potesse reagire ad un solo comando per volta, ad un solo stimolo. E in quel momento, il nuovo, sembrava dover avere la priorità rispetto al precedente.
    «Chi è?» Domandò la Principessa, mentre usciva dalla stanza. Camminava come un pulcino appena uscito dall'uovo, in modo incerto e scoordinato.
    «Una persona.» Rispose stupidamente Ritsuko, in un modo che in un momento del passato avrebbe fatto infuriare la sua signora, facendole urlare con sarcasmo qualcosa come “ma davvero?! Credevo lo spirito dell'intelligenza, quella che manca a te!” ...ma che in quel caso venne seguita solo da un poco interessato “capisco”, che scemò lentamente nel silenzio.
    Persino quando cinque minuti dopo la ragazza si presentò di fronte all'entrata in legno dell'enorme dimora Kobayashi, Shizuka non fece una piega trovandosi davanti Raizen Ikigami. Seguita come un'ombra da Ritsuko, a sua volta affiancata da Akihiko e Hisoka, la giovane Principessa guardò il Colosso della Foglia senza nessuna espressione sul volto. Subì il suo carattere scontroso con passività, e infine, quand'egli ebbe terminato di parlarle in quel modo brutale che gli era tipico e di fronte al quale Akihiko stesso parve sentirsi in dovere di intervenire, la ragazza annuì e poi sorrise, scevra dell'irritazione che un tempo avrebbe dimostrato.
    «Scusami.» Disse, atona, come se stesse parlando da sola. «Ho avuto dei problemi.» Aggiunse, poi parve esitare. Guardò il cielo, congiunse le mani in grembo, e infine guardò di nuovo l'individuo che gli sostava dinnanzi, alzando impercettibilmente le sopracciglia in un'espressione stupita come se lo vedesse in quel momento per la prima volta. «Oh.» Mormorò, infatti, ma poi, insensatamente, domandò: «Che giorno è oggi?» sorridendo con una cortesia che poco aveva a che spartire con quella di un tempo.

    Dietro di lei, alzando due mani tremanti di fronte al volto, Ritsuko Aoki scoppiò a piangere silenziosamente.


    «E' finita, Heiko. Toshiro.»
    «Shizuka deve ritirarsi.»
    «Organizzeremo la vestizione del nuovo capoclan.»


    divisore




     
    .
  3.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Admin
    Posts
    18,986
    Reputation
    +684

    Status
    Offline

    Valutazione del danno







    Quando il ragazzetto corse dentro casa Raizen sbuffò scuotendo la testa.

    Mi domando perché in questa casa circoli questo spropositato numero di marmocchi.
    Ma non dovrebbe essere attivo un qualcosa per impedire lo sfruttamento del lavoro minorile!?


    A ben pensarci era raro vederci un adulto, e quando si facevano vivi necessitavano tutti delle virgolette, prima e dopo l’aggettivo.
    Dovette attendere qualche minuto perché Shizuka facesse capolino dalla porta, tuttavia Raizen abbassando lo sguardo non trovò di certo ciò che si aspettava.
    Per qualche secondo riuscì a fare ben poco oltre una faccia schifata, poi il suo cervello riprese contatto.

    E tu piantala! Gallinaccia! Tornatene dentro a sciacquare qualche straccetto con quelle lacrime!

    Forse si era riavviato in maniera un po’ violenta, ma non poteva sopportare quel comportamento disfattista, non in quel momento, aveva appena compreso di avere un problema, ed era più che sufficiente quello senza ulteriori aggravanti.
    Si scostò dal muro, spingendosi lievemente con la spalla, per poi avvicinarsi al piccolo pulcino che gli stava davanti, si accovacciò e la fissò negli occhi, rosso contro verde. Era già uno spettacolo di contrasti.
    Drizzò l’indice della mano destra e lentamente l’avvicinò alla fronte di Shizuka per poi spingere, sempre alla stessa velocità, continuando a fissarla negli occhi, atono e muto.
    Avrebbe continuato così fino a buttarla per terra, era evidente che non si sarebbe opposta.

    Che mezza sega.

    Accompagnò la frase con un piccolo borbottio.

    Va bene che i fili d’erba si piegano al maestro vento, ma qui si esagera.
    Piegata con un dito.
    E ora? Cosa avresti? Ti si è spezzata un unghia?
    Ha trovato un allocco che ti ha dato attenzioni per cinque minuti e poi ti ha lasciato?


    Si alzò in piedi, sovrastandola.

    Oppure è per quei quattro buchi che sono stati fatti al villaggio quando c’era quel terrorista?

    La guardò, aspettando risposta, ma la pazienza del Colosso è nota per essere sempre agli sgoccioli. Rapidamente calò la mano sopra Shizuka, afferrandola con poca grazia per il colletto, e tirata su la guardò, allo stesso modo in cui si guarda un bambino per convincerlo a fare qualcosa, fece per andare via, voltandosi, salvo rivolgerle la parola.

    Riesci a gattonarmi dietro?
    Andrò piano, così non ti perderai, promesso.


    Era sia un offerta gentile e comprensiva che una sfida, ma anche un elemosina, stava a Shizuka tradurla nella maniera corretta o a lei più congeniale.
    Accortosi della stasi di quel momento avrebbe sbuffato, girandosi verso Ritsuko.

    ANCORA QUI?!?
    Vogliamo portare a questa poveraccia qualcosa di adatto da mettersi?
    FORZA!
    Equipaggiamento e divisa ninja, subito!



    Sorrise, ma era evidente che il volto del Colosso non sapesse sorridere, per cui l’espressione risultante era quasi inquietante.

    E non provare a dire che non posso darti ordini Ritsucoso, altrimenti ti rado al suolo questa catapecchia tutta fronzoli e poi vi piscio sul giardino.

    Tacque aspettando una reazione che in caso non si fosse innescata da sola avrebbe invitato con un gesto della mano, non si sarebbe mosso se Shizuka non avesse indossato ciò che aveva richiesto

     
    .
  4.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Y Danone
    Posts
    8,529
    Reputation
    +561

    Status
    Anonymous

    D I S I L L U S I O N:
    All knowledge hurts.

    Akihiko Kobayashi and Ritsuko Aoki




    divisore





    Ritsuko trasalì. Il suo volto, in quel momento così distinto, forse perché non oscurato da quello splendido della sua signora, si delineò agli occhi del Colosso, probabilmente per la prima volta, colmo di rabbia: i grandi occhi color del male, dilatati nella determinazione, erano ancora lucidi di quelle lacrime che lui pareva volerle impedire di versare; le labbra sottili, arricciate; e i suoi lineamenti, affilati come forgiati da uno scultore avaro, erano tesi nello sforzo di non reagire, di non rispondere. Non si muoveva di un solo passo nonostante l'ordine che le era stato impartito dallo stesso Shinobi. Solo guardandola meglio ci si sarebbe potuti accorgere che tremava.
    [...] L'arrivo di Raizen Ikigami, contro ogni previsione, non riuscì in un primo istante a rompere la stasi in cui Villa Kobayashi sembrava affogare. Il trambusto che solitamente accoglieva i passi del Jonin, non si creò spontaneamente come sempre. Nessuno urlò, rise, invitò per un tè...
    … ma soprattutto Shizuka non reagì in nessun modo.
    Immobile al centro del giardino d'entrata alla sua magione, la nobile Principessa di Konoha rimase ferma a guardare il suo maestro con gli occhi verdi che osservavano la sua figura ma che si concentravano su qualcosa che andava oltre di lui. Qualcosa a cui nessuno avrebbe potuto fare caso, forse perché non esisteva. Forse perché era solo una creazione della sua stessa mente. O di ciò che ne rimaneva.
    Era bella, anzi, bellissima.
    Stava crescendo, o probabilmente era già cresciuta abbastanza. Era diventata una donna dall'ultima volta che lo Shinobi l'aveva vista, e non solo nel fisico seducente, che si affacciava a tratti dal kimono da camera argenteo che indossava, ma soprattutto nel volto. Un tempo questo, tondo e paffuto, così allegro e simpatico, tipico della bambina che era stata, era adesso un ovale perfetto in cui carnose labbra rubiconde e grandi occhi verdi troneggiavano come gemme preziose sotto ad una cascata di capelli sempre più lunghi e lisci. Seta pura lasciata libera.
    Molti, a Konoha, dicevano che era stato il dolore a forgiare la Principessa dei Kobayashi. A renderla adulta. Quel tipo di dolore che non l'aveva mai lasciata libera da quando aveva intrapreso la via del ninja, e che si era sostituito a quello più ricco e soave dell'essere l'erede di un impero che dominava l'economia di un intero Paese.
    Era stato un inferno per lei diventare una Shinobi. Un incubo che era peggiorato giorno dopo giorno, di mese in anno, e che si era concretizzato nella fuga del fratello che aveva sempre amato più di se stessa, sino alla perdita del suo equilibrio interiore ad opera di un potere latente in lei troppo forte per essere gestito.
    Si era persa, come molte volte prima di quella, ma mai, aveva coinvolto qualcun altro in tutto ciò... aah, quante volte aveva dovuto chiedere aiuto per capire in che direzione andare? Quanti innumerevoli tentativi aveva compiuto e fallito? Non si poteva tenere il conto.
    Nessuno, però, era mai morto per le sue mancanze. Nessuno aveva mai davvero approfittato della sua condizione, di debolezza e forse follia, per nuocere a chi le stava intorno.
    Improvvisamente Shizuka Kobayashi era divenuta una ladra. Una ladra di vite.
    Come Shinobi le era stato insegnato ad uccidere, se necessario. Ad attaccare prima di essere attaccata. Ad accettare il sangue sul suo volto e le mani lorde di morte... ma nessuno l'aveva mai educata a comprendere che quando il tuo nome comincia a farsi conoscere, per un motivo o per l'altro, le persone che ami e le cose a cui tieni possono essere distrutte.
    Nessuno l'aveva mai preparata alla possibilità che sarebbe stato un suo errore ad annientare tutto.
    Uccidere un nemico era possibile. Intraprendere una guerra accettabile. Distruggere il tuo stesso villaggio, uccidendo i tuoi compaesani, però, era un'altra faccenda. E a quell'altra “faccenda” la mente di Shizuka Kobayashi –colei che aveva combattuto contro Karasu Uchiha, il traditore appartenente a Kurotempi, e aveva perso– non aveva retto.
    «Ritsuko...» La voce di Akihiko Kobayashi si fece largo tra i presenti con quel suo timbro gentile che gli era peculiare, dissipando con dolcezza il muro invisibile creato dalla Kumori di fronte al Jonin della Foglia. «...sii così gentile da vestire Shizuka-chan per me.» Disse, ma i suoi occhi non si distolsero neanche per un istante dal viso del Colosso che sostava di fronte alla cugina immobile. «Porta lei i suoi soliti indumenti, quelli in cui si trova più a suo agio, e anche una sacca con dell'acqua e delle focacce di riso.»
    «Akihiko-sama, spero che voi stiate–...»
    «Non sono mai stato più serio di ora.»
    La interruppe il Kobayashi di Kiri, e solo a quel punto si voltò verso la ragazza degli Aoki, cui sorrise. «Non far aspettare la tua Signora, Ritsuko... sai quanto sia esigente nelle tempistiche quando deve partire con dei compagni di squadra.»
    Nessuna delle espressioni che Ritsuko Aoki delineò nel suo volto bastarono a indurre l'uomo a smettere di guardarla con quella sua flemma ricca d'ostentazione, e se in un primo istante la Kumori parve annaspare –voltandosi a guardare dapprima Raizen Ikigami, cui rivolse uno sguardo colmo d'astio, e poi verso la sua Padrona, in direzione della quale il suo volto si sciolse in una maschera di disperazione– alla fine lei, stringendo le mani a pugno, si limitò a voltarsi e ad imboccare il corridoio da cui era arrivata, sparendo in una manciata di istanti alla vista.
    «Mio signore...» Gemette Hisoka Aoki, guardando allarmato il suo padrone. «...non potete decidere arbitrariamente che la Principessa può andare. Non con un concilio di riunione che si sta svolgendo proprio ora nella rosa Ovest della magione... rischiate conseguenze in prima persona!»
    A quelle parole Akihiko Kobayashi, i cui lunghissimi capelli chiari raccolti in una treccia ricaddero di fronte al suo volto in ciocche disordinate, scoppiò a ridere. La sua voce, cristallina nell'oscurità di quel luogo, fu come un getto di luce in una notte senza luna.
    «Oh, ma io non ho proprio deciso nulla.» Rispose il responsabile della sede kiriana del Clan. «Shizuka-chan vuole disperatamente andare con quell'uomo, non vedi?» Domandò, indicando la cugina, ma lei, ancora immobile di fronte all'entrata alla grande magione Kobayashi, stava ora subendo passivamente le parole dello Shinobi che la guardava con schifo poco mascherato e che, di punto in bianco, la spinse a terra puntandole un dito sulla fronte. La ragazza, contro ogni previsione, morbida come una piuma piegata dal vento, cadde in terra senza opporre resistenza apparente. La sua testa si riversò di lato e i lunghi capelli castani si chiusero sul suo viso come un sudario, nascondendone i lineamenti e lasciandola lì come una bambola senza vita, tenuta dritta solo per lo sforzo delle braccia. Dopo una lungo silenzio, Akihiko Kobayashi, affinando lo sguardo, sorrise nuovamente sotto l'espressione allibita del suo servo. «Non vedi che si sta cominciando ad irritare per come è trattata?»
    «Siete uscito di senno?!»
    Esclamò a quel punto Hisoka Aoki, trasalendo allarmato nel vedere la scena. «Fate immediatamente qualcosa! Non vedete cosa diavolo sta succedendo?! Chiamerò personalmente il Capoclan! Heiko-dono saprà sicuramente porre fine a quest foll-...» ...ma non fece in tempo a finire la frase, il giovane collaboratore, che la lunga e affusolata mano del suo signore lo bloccò per un polso mentre l'altra, scivolando silenziosa verso la sua bocca, lo costringeva a tacere. Gli occhi verdi dell'uomo non si stavano distogliendo dalla scena.
    «Guarda.» Ordinò seccamente. «Guarda.»
    E fu allora che Hisoka Aoki guardò. Non ebbe possibilità di fare altrimenti. I suoi occhi scivolarono lentamente in direzione di quella scena che così disperatamente avrebbe voluto negare e ritornarono a memorizzare l'espressione di disgusto di quel gigante, le parole di disprezzo commiserevole che stava dicendo... e lei, la Principessa, ancora immobile a terra. I capelli sciolti, le spalle nude da cui faceva capolino quell'orribile cicatrice. E poi le sue mani, tremanti, che si stavano lentamente stringendo al terreno, facendolo prigioniero, arrossandosi nello sforzo prima di divenire bianche. Sempre di più. Di più.


    Riesci a gattonarmi dietro?
    Andrò piano, così non ti perderai, promesso.




    Stava dicendo l'uomo. Ma di fronte a lui, Shizuka Kobayashi ancora non rispondeva.
    Le sue mani erano ormai talmente pallide che il povero Hisoka credette per un istante le sarebbero cadute le dita. E non trovava assolutamente niente di divertente in quella scena, né tantomeno nella gioia crescente del suo signore che seguiva lo svolgersi della vicenda con attenzione quasi meschina per una persona come lui, che amava la Principessa come una sorella e che era partito da Kiri solo per lei. Era così sconvolto dalla piega della situazione che quando il Jonin di Konoha si abbassò e afferrò la sua allieva, sollevandola di peso da terra, il povero domestico non riuscì a trattenere un gemito a malapena soffocato dalla mano del suo padrone che, però, al contrario, rise. Rise. Egli rise.
    Avrebbe voluto chiedergli se per caso non fosse uscito di senno, non fosse diventato davvero pazzo. Si sarebbe voluto scagliare personalmente contro quella montagna di muscoli per salvare la Principessa. Avrebbe voluto urlare il nome di Ritsuko e vederla comparire con la prima folata di vento, silenziosa e letale come sapeva poteva essere una Kumori per la salvezza del suo capoclan, ma poi ammutolì. I suoi occhi si dilatano in un'espressione di puro stupore e Hisoka Aoki cominciò a rilassare i muscoli per l'incredulità.
    Di fronte ai suoi occhi, il volto di Shizuka Kobayashi, smascherato dai capelli mentre veniva tirata in piedi da terra, tradì per un attimo, un solo debole e brevissimo istante, una microespressione di rabbia. Per un secondo i suoi occhi si curvarono verso il Colosso di nome Raizen Ikigami e la sua bocca si increspò in quel modo così peculiare, tipico di lei, rappresentante dell'inizio della sua pedante e offesa forma di protesta.
    Durò tutto solo mezzo secondo. Poi la Principessa precipitò nuovamente nella sua maschera di apatia pallida, e quando Ritsuko fu di ritorno con tutto ciò che le era stato ordinato di portare, parve allibita di vedere il suo consanguineo e il suo secondo signore così felici. Allibita e dubbiosa.
    Nonostante ciò la Kumori non fece né disse nulla, e si limitò ad avvicinarsi alla sua signora, di fronte alla quale si posizionò per cambiarne i vestiti, cosicché l'unica cosa che di lei si potesse vedere era la schiena nuda ai suoi stessi parenti. Come ci si sarebbe potuti aspettare da lei, che conosceva la Principessa meglio di quanto ella stessa potesse, impose alla sua padrona il suo bustino nero e i suoi pantaloni di pelle con i calzari più comodi che la kunoichi era solita indossare. Offrì poi lei un mantello, e la sacca a tracolla consunta che la ragazza era solita portarsi in missione. Le aggiustò i capelli, le passò una mano sulle labbra per togliere un poco di polvere, e infine sorrise con dolcezza, guardando l'espressione muta della sua amata signorina.
    Solo a quel punto si voltò verso Raizen Ikigami. E la sua espressione fu la peggiore maschera da demone che l'uomo avesse mai visto prima di quel momento.
    «So che sei diventato Jonin.» Esordì, e quella frase parve divertirla dal più profondo del cuore. «I miei più sentiti complimenti, Raizen.» Improvvisamente non c'erano più titoli onorifici e la domestica, ferma di fronte alla sua signora assorta in un mondo lontano che sembrava inaccessibile ai più, parve per la prima volta rivolgersi allo Shinobi quasi come fosse un suo misero pari. «Vedi... io so molte cose di te. So molte cose, in generale. Tu, invece, non sai niente di me, e per quanto la tua bestiola scodinzolerà non saprai mai abbastanza su nulla che io non voglia farti conoscere.» Sorrise, e la sua voce si fece più raschiante, abbassandosi. «Io so cosa fai, come, dove e perché. So le tue intenzioni prima che tu le compia e se sbaglierai qualcosa con Shizuka, stavolta, voglio che tu sappia che non importa quante code avrai il piacere di mostrare. Il vento è sempre più veloce. Ed è tagliente, te lo posso garantire.» Così dicendo, si fece di lato, e inchinandosi con reverenza ai presenti, annuì. «Auguro voi buon viaggio, miei signori.»

    Poi, ci fu il silenzio.


    divisore




     
    .
  5.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Admin
    Posts
    18,986
    Reputation
    +684

    Status
    Offline

    Saluti ad alta tensione







    Assistette impassibile a tutta la vestizione della sua allieva, cercando di carpire di più di quanto il kimono non le avesse mostrato tra un cenno e l’altro del corpo di Ritsuko, ma i risultati furono deludenti, la ragazza pareva avere un certo talento per vestire la Kobayashi in mezzo alla strada.

    Ti hanno fatto fare un addestramento specifico o è un tuo talento naturale quello di spogliare le persone senza farle vedere agli altri?
    No perché ci si potrebbe mettere su un business come prestigiatore.


    Commentò il Colosso per ingannare il tempo, pur ottenendo come risposta solo accurati movimenti dettati da un esperienza che forse avrebbe preferito fosse maturata in altre occasioni, dopotutto il fagotto che stavano incartando gli era caro.
    Il rituale finì presto, ed il pacchetto fu pronto in breve, e con esso una velata minaccia di quella tipologia che al Colosso stanno parecchio scomode.

    Cuciti la bocca, mezza tacca.

    Avrebbe interloquito con un tono secco quanto serio.

    Alla velocità del vento puoi al massimo spazzolarmi le scarpe, o tirarci la lingua se preferisci, con l’altezza da cui la tua testa si leva dal suolo è la cosa che ti verrebbe meglio penso.
    TU sai quello che IO voglio farti sapere, contare quante stellette ho sul petto e guardarmi negli occhi è una cosa che possono fare tutti. Se poi tutti non sono bravi a fare due più due vuol dire semplicemente che non sono abili quanto te nella matematica elementare, complimenti, il tuo livello di spia ha appena raggiunto la mezza sega.
    Sai solo ciò che credi di sapere, come tutti.


    Stava per muovere verso l’ingresso del giardino quando con un piccolo scatto di incertezza mozzò il passo evitando così di passare oltre la servetta.

    Ah, quasi dimenticavo, il mio lavoro non è proteggere Shizuka, è istruirla e lo faccio bene.
    Il tuo quale è? Proteggerla?
    L’unica volta che io ero a fare il mio lavoro in missione per il villaggio, tu anziché proteggere chi ti mette il piatto di zuppa davanti alla faccia ogni sera cosa facevi? Ti godevi i fuochi d’artificio?


    Poi, voltandosi per mostrare il viso a Ritsuko continuò.

    Vuoi davvero minacciare ME per una tua mancanza?
    Torna dentro, salame, e la prossima volta conta i gradi sul petto dei terroristi anziché quelli sulle poche persone che coprono a gratis e senza nessuna richiesta i tuoi immeritati giorni di ferie.
    Chissà forse la prossima volta tutte le cose generali che sai potrebbero aiutarti a fare decentemente il tuo lavoro e non un trucco da zingara da quattro soldi.


    Concluse sputando a pochi centimetri dalle scarpe della kunoichi, delimitando la linea invalicabile che segnava ciò che ognuno sapeva dell’altro, perché dopotutto era vero che Raizen non sapeva niente di quella che considerava poco più che una sguattera, come anche era vero che lei sapesse di lui solamente ciò che stava sotto all’abbagliante luce del sole.

    Andiamo Shizuka.

    Furono le ultime parole del Colosso che avrebbero sentito per quella serata.
    Fosse stato costretto l’avrebbe presa per mano, lievemente scocciato, anche se il vero peso di quella retromarcia non era tanto la fatica quanto il fatto che un suo ordine fosse stato bypassato.
    Avrebbe iniziato a parlare solo una volta allontanato dalla magione.

    Il tuo cane, perché son gentile a non dare nomignoli offensivi, pensi ci seguirà?
    Non vorrei dargli motivo di fare un’altra delle sue uscite ad effetto in cui dimostra di aver origliato per bene chissà quale conversazione trasformandolo nell’evento del secolo.
    Ma vabbè, aumentiamo il passo va.


    Dalla residenza dei Kobayashi la via più rapida per giungere al monte dei kage era la piccola foresta che stava dentro alle mura, bisognava tagliarla parallelamente al viale principale, per incontrare il tacco roccioso che poi verso sinistra si trasformava nei soliti volti noti del villaggio.
    Era quella la loro destinazione, per l’esattezza Raizen non si sarebbe fermato prima di raggiungere la testa del terzo Hokage, quella posta più in alto, avendo cura di passare, nel tragitto, dietro alle altre, in modo da non scorgere mai il villaggio.
    Restando nascosto dietro alla spinosa capigliatura del terzo avrebbe rivolto la sua parola alla sua allieva, con un sospiro che sapeva di “ligio al dovere” o forse semplicemente di “ricerca della serenità necessaria a comprendere il prossimo”, ma distinguere la nota di un sospiro non era semplice.

    Beh, cosa aspetti a parlare?
    Vuoi una richiesta in carta bollata?


    Ci avrebbe pensato solo dopo qualche istante che non era il modo migliore per iniziare una conversazione di quel genere, beh, se non altro era rimasto nel personaggio.

    Io non sono il migliore degli strizza cervelli, però se mi dici cosa ci fai con quella cicatrice sul petto e con quella faccia da stracciona quando hai le chiappe perennemente al caldo magari abbiamo qualcosa di cui parlare anziché stare qui come due beoti a guardare il cielo.
    Nel senso, parliamoci chiaro, sarebbe anche romantico, ma non sono mai stato romantico senza un doppio fine, non so se intendi.
    Insomma, ti tocca parlare, io dopo un po’ parto con le stronzate a ruota libera.


    Aggiunse confessandosi in tono secco e rapido.

     
    .
  6.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Y Danone
    Posts
    8,529
    Reputation
    +561

    Status
    Anonymous

    G O D S:
    Follow your inner moonlight; don't hide the madness.

    Ritsuko's devotion and Shizuka's madness




    divisore





    Ritsuko Aoki era nata per Shizuka Kobayashi.
    Concepita con insistenza quasi violenta era stata partorita con sollievo tre mesi dopo la nascita della bambina che avrebbe dominato tutta la sua esistenza.
    Sottratta ancora insanguinata dal ventre di sua madre, che non conobbe prima dei quattro anni sotto le vesti della sua maestra, venne condotta a Konoha da un luogo imprecisato della geografia conosciuta, laddove sorgeva il remoto villaggio che ospitava la preparazione della dinastia Aoki, un Clan vassallo di cui nessuno conosceva l'esisteva se non in un remoto angolo di memoria che, di tanto in tanto, per quel genere di scherzi della mente che inducono a ricordare virgole fuori posto completamente inutili, accompagnava il nome del Clan Kobayashi.
    Si diceva che gli Aoki fossero il risultato della preghiera della prima generazione dei Kobayashi, che supplicarono gli dei Izanami e Izanagi di poter essere protetti e tutelati così da riuscire nella creazione di un impero forte e solido.
    Come spesso accade per le grandi persone destinate a cambiare il mondo, gli Dei non si ritraggono dinnanzi a simili umane richieste e appoggiano dunque la creazione di imperi, la fomentazione di guerre e il canto di rivolte, cosicché la storia prosegua, vada avanti e maturi nel futuro.
    La storia dunque narra che di fronte al focolare di preghiera cui i primi capi della futura K. ricamata a filo d'oro si rivolsero, le loro ombre si levarono dal pavimento e presero la forma di uomini e donne. Essi, il vento silenzioso della notte, tagliente come la lama che li avrebbe serviti e protetti per sempre, non avevano un'anima propria, che condividevano infatti con quella dei propri signori, e vivevano dunque loro accanto poiché la loro esistenza, lontani da essi, non era nient'altro che illusione. Notte. Leggenda.
    Non esiste nessun Aoki che prescinda da alcun Kobayashi, secondo l'ordine, il patto, che intercorre tra le loro dinastie da sempre. E da prima di quel sempre.
    Ritsuko Aoki, dunque, non poteva esistere senza Shizuka Kobayashi.
    Nata per lei, era stata addestrata perché ella non subisse alcun danno e potesse perciò scalare la vetta verso il suo ruolo da capoclan senza che niente e nessuno potesse intralciarla.
    Non ci sarebbe stato niente di abbastanza orribile che Ritsuko era stata avvisata di poter fare per proteggere la sua Dea. Era stata addestrata, durante quei lunghi viaggi in cui la sua signora era intenta in quel tipo di educazione da Principessa che ad un'ombra dimenticata non spetta; a uccidere, spiare, corrompere. Avrebbe giaciuto con uomini e con donne per permettere alla sua signora di avanzare. Le sue braccia avrebbero potuto essere state amputate e la sua bocca cucita. Avrebbe ingurgitato sassi se questo fosse servito.
    E questo, perché lei non era nient'altro che la serva di una Principessa superiore. Di una stirpe benedetta dagli Dei.
    I Kobayashi: I Principi di Konoha...
    ...non vi era niente, niente che sarebbe stato considerato “troppo” dalla morale che non era stata educata ad avere. E se lei fosse morta cercando di adempiere al suo ruolo, qualche altra donna della sua stessa età, del suo stesso sesso e con il suo stesso cognome -persino nome se questo era di gusto della Principessa- l'avrebbe sostituita, riprendendo il suo dovere da dove lei aveva terminato.
    Non erano nient'altro che spie. Assassini. Mercenari. Demoni. La feccia peggiore del mondo conosciuto. Rigurgiti del creato che sprofondavano più in basso di chiunque altro credesse di essere al loro livello ma si permetteva di far conoscere il proprio nome, di possedere un'individualità. Un'identità.
    Erano niente. Erano tutto. Aoki.
    Possedevano un nome per desiderio di coloro che erano riusciti ad incatenare la loro fedeltà, di accettare la grottesca sfumatura di orrore che rappresentava il loro essere vivi. Avevano vesti perché così era ordinato loro. Parlavano e respiravano per gentile concessione di quelli che, ai loro sudici occhi velati di fango e sangue, erano Dei misericordiosi, pronti ad accettare “qualcosa” che nessuno avrebbe solo potuto comprendere.
    Ma quegli Dei li possedevano. Li ghermivano. Li avevano.
    Se un Kobayashi avesse ordinato ad un Aoki di mangiare feci e poi uccidersi, quell'Aoki lo avrebbe fatto, accecato da una forma di fanatica e disperata felicità per essere stato scelto in prima persona. Per poter morire per una causa superiore alla sua pietosa vita...
    ...così, almeno, era stato per secoli. Un tempo così lungo che la riverenza e il desiderio di obbedienza era entrato a far parte del sangue di quei vassalli a tal punto che il senso del dovere si era sostituito ad un più piacevole desiderio di aiutare e un sincero amore.
    Come cani addomesticati e allevati di figlio in figlio, gli Aoki avevano maturato nel tempo un rispetto genuino e un vero senso di servizio che niente avrebbe potuto spezzare. Eppure, era solo stato quattro generazioni prima che i Kobayashi avevano iniziato a maturare una percezione di umanità nei loro schiavi. Un senso di responsabilità nei loro confronti. Di gratitudine, persino.

    E poi vi era Shizuka Kobayashi.

    Lei andava oltre ogni altro Capoclan esistente. Oltre persino suo padre, che aveva accettato Mamoru Aoki come migliore amico, confidente e consigliere. Che aveva diviso il suo cibo con nient'altro che il suo squallido Kumori, l'ombra che guidava la sua vita, offrendo lui il suo riso e il suo pianto. Le sue intenzioni. Le sue idee.
    Shizuka andava ben oltre e di Ritsuko Aoki aveva fatto la sorella che non aveva mai avuto.
    La giovane Principessa amava la sua sottoposta come se ella fosse sangue del suo sangue, aveva offerto lei l'educazione di cui lei stessa aveva goduto, i kimono più belli che aveva indossato, i balocchi quando erano bambine e le opportunità che a lei non erano mai mancate quando erano divenute adulte.
    E Ritsuko aveva allora capito che era un essere umano e non l'ultima boccata di fiele del peggior Clan di rifiuti del mondo. Che era viva. E nell'esserlo, era amata.
    In quel momento, aveva capito di amare Shizuka Kobayashi. Di amarla più di quanto fosse concesso ad una donna verso un'altra donna. Di amarla come non aveva mai amato neanche se stessa.
    L'amava perché le aveva dato un nome, la vita e la sua ragione di viverla, e l'amore che sapeva di non poter mai avere se non per produrre un figlio che avrebbe servito un altro Kobayashi.
    L'amava e l'avrebbe amata per sempre, anche se suo fratello avesse tradito Konoha per rincorrere un ideale lontano e lei fosse stata imprigionata in un luogo dimenticato per impedirle di seguirlo. Anche se il suo animo fosse stato corrotto da una maledizione che sembrava essere nient'altro che una lontana leggenda. Anche se la sua bontà innata si fosse trasformata in oscurità e la sua Principessa fosse diventata la Regina della notte.
    L'avrebbe amata anche quando si sarebbe accorta di essere innamorata di un uomo con cui si sarebbe spostata per dare al suo Clan dei discendenti. L'avrebbe amata anche se lei stessa sarebbe prima o poi stata costretta a sposarsi per la stessa ragione.
    E l'aveva amata anche quel giorno, quando Kurotempi aveva irrotto in Konoha per portarla via e lei era quasi morta per proteggere la sua gente, rinunciando a se stessa per il bene di loro. L'aveva amata quando la sua rete di informazioni aveva scoperto essere corrotta, quando lei era stata guidata troppo lontano perché, nel momento fatidico, potesse accorrere accanto alla sua Signora rivelando la sua vera abilità e le sue reali capacità, sconfinate, affilate. Aveva continuato disperatamente ad amarla correndo tra gli alberi, mentre rovi e alberi graffiavano le sue vesti, e lei tornava al villaggio con la velocità del vento, facendosi lei stessa vento.
    L'aveva amata quando aveva pianto, di fronte al suo corpo sventrato. Di fronte ai tentativi dei medici di rianimarla. Dei sigilli sul suo corpo nudo e lordo di sangue. Dei suoi occhi semi-aperti e vuoti.
    L'aveva amata anche in quei minuti in cui l'aveva creduta morta. In cui aveva deciso che si sarebbe uccisa e l'avrebbe seguita. E non perché così doveva essere, ma perché una vita senza Shizuka non poteva esistere.
    L'aveva amata e l'amava oltre tutto questo...

    ...ma tutto ciò che comparve sul suo volto, fu solo un sorriso.
    Ritsuko Aoki, immobile nel cortile della magione, venne investita dalle parole di Raizen Ikigami come avrebbe potuto esserlo da una pioggia di spade, eppure non si mosse, né replicò.
    Rimase in silenzio, ferma, con i suoi profondi occhi blu puntati in quelli scarlatti del Jonin, e allora sorrise ancora una volta. E lo fece perché sapeva che egli aveva ragione.
    Raizen Ikigami, il Colosso rude e volgare della Foglia, il peggior mercenario, si diceva, delle Terre del Fuoco, non avrebbe creduto ciecamente alla sua rete d'informazioni come lei aveva fatto. Mai tradita da quella fitta rete di ragno creata e imboccata decade dopo decade dalla sua dinastia, Ritsuko aveva ceduto alle sue informazioni come una bestia al suo istinto, sicura di non sbagliare. Ma aveva sbagliato.
    Lui, invece, di quelle informazioni, se ne sarebbe “fottuto”. Avrebbe riso, sputato a terra, bestemmiato e poi, fregandosene di tutto, lamentandosi addirittura, sarebbe andato da quella “cogliona”. Aiutandola. Proteggendola, forse.
    Volgendo i suoi occhi in direzione della sua Principessa, intenta ad osservare la sua divisa ninja come fosse la prima volta che la vedesse, e poi verso colui che le sostava al fianco, la Aoki sorrise ancora e, infine, si inchinò.
    «Buon Viaggio, miei signori.» Si limitò a ripetere, rimenendo abbassata, e così rimase fino a quando la figura della sua signora e quella del Colosso svanirono.
    Fu solo per il tocco gentile della mano di Akihiko Kobayashi sulla schiena che lei, solo molto dopo, fu in grado di alzare la testa.


    . . . . .


    Beh, cosa aspetti a parlare?
    Vuoi una richiesta in carta bollata?



    Non era molto sicura di come aveva fatto ad arrivare lì. Per la verità non era sicura di molte cose, nell'ultimo periodo.
    La sua mente viveva in una sorta di paradiso morbido e silenzioso, in cui la voce degli altri arrivava lei distante e sfocata dandole perciò la possibilità di vivere solo dei suoi pensieri e della sicurezza calda e accogliente che questi le offrivano.
    Di tanto in tanto si rendeva conto che chi la circondava appariva contrito, ferito addirittura, o arrabbiato. Capitava allora che si sentisse in dovere di dimostrare loro che andava tutto bene, e concentrandosi al massimo delle sue possibilità si impegnava a scindere il perenne mormorio di fondo, quello sotto all'ovatta presso cui riposava, in frasi distinte e domande desiderose di risposta. Spesso dimenticava parte di ciò che ascoltava prima di avere il tempo di pensare ad una risposta, e allora si limitava ad annuire e intervenire solo su quella parte di discorso di cui ricordava i lineamenti. Purtroppo però i suoi tentativi, per quanto sinceramente rivolti, sembravano riscuotere l'effetto opposto a quello desiderato e spesso, mentre rimaneva assorta a contare gli intrecci del tatami della sua camera, sentiva Ritsuko piangere sommessamente fuori dalla porta.
    In verità, non ne capiva la ragione.
    Davvero, non la capiva.


    ...ono il migliore degli strizza cervelli, però se mi dici cosa ci fai con quella cicatrice sul petto e con quella faccia da straccio...




    La gente non riusciva a capire quante cose riuscisse a valutare adesso, rispetto a prima. Adesso che, finalmente, poteva pensare solo a se stessa.
    Faceva cose incredibili, cose che prima non avrebbe mai pensato di avere il tempo di fare, e in un certo senso quella circostanza le dava sicurezza. Il fatto, improvviso e sconvolgente, per cui nessuno sembrava aspettarsi più assolutamente niente da lei, la consolava.
    Era felice.
    Contare le foglie di un albero era qualcosa che, da bambina, sognava di poter fare, un giorno. E poi rifare dopo l'inverno, per vedere se la natura, birbante, avesse contato male.
    Dormire cullata dal canto degli uccelli. Leggere haiku ogni giorno, tutto il giorno.
    Non vi erano più pretese verso di lei, né quelle in cui era cresciuta, né quelle altre che si era imposta. Nessuno la guardava più con gli occhi di rimprovero che cercano di spingerti a fare di più, sempre di più, come se tu non conoscessi limiti e non avessi una fine a cui, prima o poi, arrenderti.
    Nessuno, semplicemente, la guardava. Il volto, forse, con grande fatica. Dal mento in giù, però, nessuno più osava posare gli occhi.


    ...appe perennemente al caldo magari abbiamo qualcosa di cui parlare anzic...




    Raizen.
    Erano mesi che non lo vedeva. Anni, forse.
    Forse non lo aveva mai incontrato.
    Perché era lì?
    I suoi occhi erano strani. La percezione di lui, diversa.
    «Sei malato?» Avrebbe domandato improvvisamente la Principessa, interrompendo il Colosso come se nulla fosse, ma poi sarebbe subito sprofondata in un altro silenzio.
    Era diverso. O forse non era mai stato più uguale di ora. Forse era lei che era diversa.
    Si chiese, scioccamente, cosa potesse delineare allora qualcosa di normale da qualcosa di anormale e qualcosa di giusto, invece, da qualcosa di sbagliato.
    Dov'è che finiva l'oscurità e dove iniziava la luce, precisamente?


    ...Nel senso, parliamoci chiaro...




    Roccia. Odiava la roccia in inverno.
    Improvvisamente si accorse di essere seduta in terra. Le ginocchia disordinatamente scomposte al suolo e la schiena ricurva in avanti. Il suo volto era in parte coperto dai suoi capelli. Lei era vestita.
    Quando andava in missione era spesso costretta a sedere in luoghi del genere, o anche altrove, roba molto peggiore. Non ci poteva fare niente. Era il suo lavoro.
    ...No?


    ...sarebbe anche romantico, ma non sono mai stato romantico...




    Romantico.
    La voce le sembrava cambiata, come arricchita da qualcosa di più caratteristico e intrigante. Quella di prima le piaceva poco, la considerava quasi nasale. Come il verso di quell'animale che canta sempre alla mattina, quando lei è ancora sveglia e guarda fuori dalla finestra perché non ha ancora preso sonno, e le tende rosa pallido, quasi antico, che beccheggiano silenziose di fronte alla finestra chiusa. Ritsuko dorme per terra, in fondo alla stanza. Vestita. In mano ha qualcosa, un flauto.
    No. E' un coltello.
    Reclinando leggermente la testa di lato, Shizuka apparve perplessa. «Perché ha un coltello?» Domanda.
    Non ci aveva, in effetti, mai fatto caso. Lo porta spesso con sé, ultimamente. Sembra terrorizzata, come se qualcosa possa arrivare da un momento all'altro e lei non si senta pronta per affrontarlo.
    Non l'ha mai vista così... spaventata di non riuscire in qualcosa.
    «Nemmeno io sono romantica.» Si limitò ad esclamare dopo qualche attimo la ragazza, alzando lo sguardo verso il suo interlocutore. I suoi profondi occhi verdi si dilatarono, cristallini. «Non ci riesco, sai, divento impacciata, sbaglio tutto...» Scoppia a ridere, e ricorda di quando, molti secoli prima, un uomo dai capelli d'argento l'aveva fatta sentire in quel modo. Impacciata.
    Come una bambina.


    Insomma, ti tocca parlare, io dopo un po’ parto con le stronzate a ruota libera.




    Nitide.
    Le parole improvvisamente le apparvero nitide, come se per un istante un velo si fosse sollevato e lei si fosse ritrovata a guardare qualcosa che prima di quel momento le era apparso appesantito da una coltre.
    Sollevò le sopracciglia, stupita. Poi alzò lo sguardo, e a quel punto parve essere ancora più incredula.
    «Raizen!» Esclamò, come se fosse davvero quella la prima volta che lo vedesse. «Ma dove sei stato tutto questo tempo?! Hai idea di quanto io ti abbia cercato, di quanto ti abbia voluto accanto a me?!» Adesso sembrava fuori di sé dalla rabbia. «Jaken è tornato, io ho provato a salvarlo, ma è stato esiliato! Masayuki è morto!» Si interruppe e, per un secondo, un'espressione stranita le si dipinse in volto come se quello che avesse appena detto fosse stato in grado di aprire il livello di una realtà diversa da quella in cui lei sembrava trovarsi. L'impressione, però, durò appena un secondo e la ragazza, scossa da un fremito, tornò calma.
    Sembrava un dipinto reso stanco dal tempo e dalle intemperie, lasciato fuori alla pioggia e sbiadito. Un dipinto vive per chi lo guarda, ma se nessuno può più vederlo, non diventa forse tela bianca?
    «Sai...» Disse ad un certo punto, e sorrise. «...un certo tipo, un nukenin, è venuto a Konoha. Mi ha messo un collarino, mi parlava da un microfono installato lì. Ha detto che era di Kurotempi, o qualcosa del genere.» Ridacchiò, come se la situazione la divertisse. «Era un Uchiha. Un creatore.» Tacque. «Come me.» Univa la punta delle dita della mano con quelle dell'altra. «Kurotempi è interessato a chi, come me, ha corrotto la sua innata. C'erano delle bombe. E una brocca d'acqua. E io dovevo, sai, solo rispondere agli indovinelli, ma sono così intelligente che non era un problema, però ho sbagliato a rovesciare l'acqua perché ero così accecata dalla rabbia...» Sospirò, facendo spallucce, e a quel punto alzò lo sguardo al cielo. Sembrava sbiadita. «Così ho fatto saltare in aria tutta Konoha e ho ucciso ottanta persone. Ho contato le lapidi, ho chiesto scusa, e ho ripagato qualche danno. Beh, poi sono tornata a casa, che dovevo fare? Stavo morendo, in ospedale, io. Ero così stanca che, davvero, ho sempre voglia di dormire ultimamente...» Borbottò, poi, come se stesse spiegando una cosa elementare, si zittì, sorridendo gentilmente.


    divisore




     
    .
  7.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Admin
    Posts
    18,986
    Reputation
    +684

    Status
    Offline

    Primo Intervento







    Mentre il Colosso parlava Shizuka continuava a borbottare come una povera demente, particolare a cui per un primo momento Raizen non badò, lasciando che quanto di sbagliato ci fosse in lei in quel momento fluisse all’esterno in un modo o nell’altro.
    Soltanto quando lui finì di parlare lei parve recuperare improvvisamente la lucidità, cosa che meravigliò non poco lo shinobi, disarmato di fronte a quel cambiamento repentino.
    Si voltò aggrottando la fronte.

    Non sei normale.
    E non lo dico tanto per dire, lo dico perché davvero, non sei normale.


    Interagì con scarso tatto.

    Ti ho preso da casa tua qualche minuto fa, e la cosa a cui ti si poteva rassomigliare con maggiore immediatezza era una larva troppo timida e indecisa sul da farsi dentro la propria crisalide.
    E mo, tutto ad un tratto parli come se ti avessero inserito un CD preimpostato sulla testa che ti fa raccontare tutto quello avvenuto in mia assenza.


    Contrasse la bocca in una smorfia che Shizuka sapeva essere un misto di scarso convincimento e abbondante insoddisfazione.

    Il percorso classico sei tu che piangi, io che ti ignoro e tu che ti sfoghi.
    Non tu che ti svegli all'improvviso e parli a ruota continua sparando informazioni che già sapevo e di cui, obiettivamente mi importa poco.
    Ora.


    Disse con tono al contempo conclusivo e di avvio.

    Siamo precisi, tu non sei stata solo a dormire e riposarti, sei stata la bellezza di non so quanto, ma di sicuro era tanto tempo visto che ti davano ormai per spacciata -e non so quanto sia corretto parlare al passato- , sta di fatto che eri in stato catatonico, e credimi, devi essere un individuo profondamente stronzo per ridurti in quello stato.

    Mentre parlava cambiò posizione, spostandosi dal fianco di Shizuka per mettersi di fronte a lei.

    Per cui, ora, interagiamo.

    Le mani si mossero avanti e indietro indicando uno scambio tra i due che pareva fosse indispensabile.

    Non mi interessa nulla di Masayuki, so a malapena il suo nome e l’ho sempre considerato a malapena un cazzone, figurati quanta considerazione potevo avere di lui, e figurati quanto potrebbe importarmi se il mondo può vantarsi di essersi scrollato dalla groppa un altro come lui. Insomma, non dico di essere felice, ma non sono decisamente triste.
    E ti dirò, non mi importa neanche di Kurotempi, ma lo senti che nome del cazzo hanno?
    È così ridicolo che avendo un gatto non mi sognerei nemmeno di punirlo per tutta la sua vita con un nome simile.
    Appurato questo.


    Sorrise bonariamente mentre tendendo l’indice la indicava.

    È di te che mi importa.
    O meglio.


    Aggiunse l’ultima frase mentre roteando la mano spingeva nuovamente avanti il discorso.

    Ho legato il mio nome a poche cose in questa vita di mondo e diciamo che sono stato abbastanza selettivo, escludendo qualche povero demente che fortunatamente il corso degli eventi è stato così gentile da digerire, impedendo al mondo di ricordare che fosse in qualche modo legato a me i rimanenti sono tutti primi in qualcosa.
    Tu, al momento.
    Beh.


    La guardò seriamente con quella compassione che sapeva piacergli ben poco, quel genere di compassione che si riserva agli storpi e agli invalidi.

    Diciamo che non avrei troppa pena a farti digerire.
    Non perché tu abbia in qualsiasi modo fallito, ma per il modo in cui lo fai.
    Parliamoci chiaro. Guardati allo specchio, se non ti fai pena è solo per autoempatia nel vedere il tuo riflesso.
    Spiegami dunque, devo proseguire oppure tutto questo ti è sufficiente per farti comprendere che mi interessa comprendere cosa è successo DOPO l’attacco?


    Attese a braccia conserte e gambe distese la sua risposta, nascondendo una piccola nota di piacere nel notare che sotto ai suoi fili la marionetta aveva fatto qualche piccolo movimento.

     
    .
  8.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Y Danone
    Posts
    8,529
    Reputation
    +561

    Status
    Anonymous

    G L A C I A L:
    Do not go gentle into that good night but rage, rage against the dying of the light.

    Shizuka Kobayashi's face




    divisore





    Shizuka Kobayashi era una mercante. Come tale, aveva fatto della parola e dell'intelligenza la sua arma vincente nella vita. Anche nel mondo Shinobi, infatti, laddove la forza bruta sembrava regnare su arguzia e silenzio, la Principessa del Clan Kobayashi non aveva mai smesso, neanche per un istante, di credere di poter vincere una battaglia senza combattere. Di ottenere ciò che desiderava, semplicemente facendo in modo che l'oggetto del suo interesse si avvicinasse a lei spontaneamente.
    Nonostante ciò, non sembrava più desiderosa di parlare.
    Mentre Raizen discuteva, con la sua solita rude schiettezza, alternando frasi di scherno o di offesa a forme più affettuose di preoccupazione, Shizuka rimaneva assorta in altri pensieri, poco interessata ai discorsi del suo maestro, come se lo slancio di poco prima fosse stato nient'altro che appannaggio di un entusiasmo perduto.
    In qualche angolo remoto e dimenticato della sua mente, in quella parte ancora lucida e senziente del suo essere una grande osservatrice e una valutatrice di vite e inclinazioni, sapeva cosa stava cercando di fare il Colosso di Konoha. Come già era accaduto in passato, in modi diversi, più violenti forse ma non meno efficienti, cercava di entrare nella sua mente, di dissipare le ombre che l'avvolgevano e di tirare i fili di un gioco di spaghi che aveva costruito attorno a lei una gabbia difficile da aprire.
    Ad essere onesti, però, quella consapevolezza non la entusiasmava. Non le piaceva.
    Non era sicura di voler seguire le parole del suo maestro, di quel ragazzo quasi suo coetaneo che negli anni aveva assunto più le vesti di un fratello o di un migliore amico che di un mentore. Non era sicura, in un certo senso, di voler uscire dal caldo nido accogliente in cui si trovava. Certo, poteva essere una gabbia quell'intreccio di nodi e fili che vedeva chiuderla in una sfera perfetta, ma dentro d'essa vi erano ovatta e sete pregiate e lei, abbandonata nella morbidezza di assenza di decisioni e nella felicità di non dover più offrire alle persone ciò che loro si aspettavano facesse, viveva bene. E non aveva nessuna intenzione, perciò, di interrompere quel soave stato di grazia.


    Siamo precisi, tu non sei stata solo a dormire e riposarti, sei stata la bellezza di non so quanto, ma di sicuro era tanto tempo visto che ti davano ormai per spacciata -e non so quanto sia corretto parlare al passato- , sta di fatto che eri in stato catatonico, e credimi, devi essere un individuo profondamente stronzo per ridurti in quello stato.




    Non aveva assolutamente idea di cosa avesse detto prima di quella frase.
    Come spesso accadeva da qualche settimana, le parole degli altri le arrivavano a tratti, spesso frammentarie, e lei si limitava dunque ad accogliere quello che sentiva come l'unica cosa effettivamente detta, come se il movimento delle labbra del suo interlocutore non fosse nient'altro che un vizio da eliminare, poco educato e per niente simpatico, una sorta di balbuzia muta che certe volte, persino, la infastidiva.
    Ancora seduta al suolo, curva in avanti e per niente desiderosa di alzare lo sguardo in quello del Jonin, Shizuka assorbì dunque passivamente le parole che le erano state dette e, dopo un lungo attimo di silenzio, raggiunse la conclusione che non sapeva come rispondere, pertanto annuì.
    Annuì come faceva ormai per qualsiasi cosa, quando la sua mente non sembrava reagire agli stimoli, giacché di solito questo bastava ad indurre nel suo interlocutore uno stato di convinzione che sembrava suggerire la felicità di essere finalmente stato ascoltato e di aver raggiunto qualcosa di grandemente ambito.
    Non che le importasse, ormai, cosa diavolo pensasse la gente.


    Per cui, ora, interagiamo




    Era stanca delle persone. Di tutte. Di quelle buone e di quelle cattive.
    Era stanca dei sentimenti umani, da cui non era mai riuscita ad estraniarsi, come da bambina, quando piangeva se vedeva qualcuno piangere, ferita come quell'estraneo di cui sentiva in dovere di condividere i sentimenti. Diventando adulta, le cose erano cambiate poco. Faceva sue cause in cui non c'entrava niente, si faceva carico dei problemi degli altri come fossero i propri, era pronta a rischiare la vita per gente mai vista, e benché si approcciasse ormai alla vita con quel tono di sufficiente e divertito sarcasmo che aveva portato all'estremizzazione della sua forma da quando era divenuta kunoichi e, in particolare, allieva di Raizen, sotto quella scorza rude e strafottente si nascondeva ancora la stessa bambina che regalava i suoi dolci ad un bimbo sconosciuto cui erano caduti in terra e che rinunciava a qualcosa per offrirlo a suo fratello.
    In cambio, però, non aveva mai ottenuto niente.
    Crescendo si era resa conto che la gente guardava solo ciò che veniva mostrato perché non aveva voglia di scavare, di comprendere la verità dietro l'apparenza, e non era perciò importante quanto si sforzasse, spesso veniva persino derisa dalla sua voglia di porre in pericolo se stessa in prima persona per qualcuno che non conosceva.
    Aveva dato a suo fratello il mondo, e suo fratello aveva tradito il villaggio e il suo Clan. Aveva tradito lei, lasciandole solo un biglietto sciocco e sintetico che ancora non riusciva a interpretare.
    Aveva dato tutto a Konoha: i suoi allenamenti, le sue fatiche, i proventi delle sue missioni. Aveva accettato i lavori più umili che nessuno voleva, perché anche se mal pagati dietro una richiesta d'aiuto si celava qualcuno che aveva bisogno, eppure adesso quello stesso villaggio, l'amministrazione instaurata al posto di un Hokage che non sapeva più se esisteva o meno, la voleva fuori da lì, perché una ricercata troppo pericolosa da tenere in casa.
    Per quanto tempo i Kobayashi avrebbero insistito a tutelarla? A tenerla al riparo della magione principale, prima di spostarla in qualche filiare sconosciuta, lontana, in una montagna aspra e silenziosa di cui nessuno avrebbe saputo la collocazione?
    Sorrise. e insensatamente fece spallucce.
    Aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per continuare a pensare che il bene vincesse sul male e che anche in un mondo in cui il ninja, un mercenario al servizio di una causa che poteva variare, poteva seguire un ideale di giustizia e bontà. E tutto questo mentre lottava contro una Kekkei Genkai che la snaturava, che la divorava dall'interno, che la rendeva sempre più scura, sempre più cattiva, costringendola a vivere sul filo di un rasoio che separava ciò che è giusto da ciò che non lo è, un binomio mentalmente stressante che avrebbe fatto diventare pazzi chiunque. Chiunque.


    È di te che mi importa.
    O meglio.




    Era ricercata da gente che non sapeva nemmeno chi fosse, una sorta di cellula terroristica dal nome idiota che vantava gente dalle capacità inquietanti e straordinarie e che raccoglieva traditori, assassini e reietti da ogni parte del mondo shinobi. Non aveva neanche capito che cosa diavolo volessero da lei: il suo Sharingan? Il suo cervello? I suoi soldi, il suo titolo, il suo potere da erede?
    Non ne aveva idea, ma nonostante questo era rimasta infognata in quel caos e aveva ammazzato otto decine di persone, distrutto metà di un villaggio. Del suo villaggio. Aveva messo a lavoro, per spostare le macerie dalle strade, bambini di sette anni che avrebbero dovuto frequentare le lezioni all'accademia, e a servire i pasti donne incinte che avrebbero invece dovuto riposare e fare a maglia per i propri futuri figli.
    Non che avesse importanza quanto lei stessa avesse donato per il villaggio, quanto fosse stata chinata nel fango a raccogliere detriti, sotto il sole, la pioggia o la nebbia a riordinare, costruire, pulire. Ormai le sembrava che ovunque si girasse ci fosse qualcuno pronto a biasimarla con orrore per ciò che aveva fatto. E lei, questo, non lo poteva più tollerare.
    Aveva rinunciato alla sua parte candida in quella battaglia, si era abbandonata completamente all'energia degli Uchiha, alla sua stessa abilità innata, perché questa la dominasse e ne aumentasse le capacità, per poter rincorrere un Jonin traditore che voleva tenere lontano dalla sua amata Konoha, e che ovviamente l'aveva ridotta in fin di vita, lasciandola quasi morta. Eppure nessuno si era reso conto di questo, a suo avviso. Nessuno aveva capito, secondo lei.


    Diciamo che non avrei troppa pena a farti digerire.
    Non perché tu abbia in qualsiasi modo fallito, ma per il modo in cui lo fai.
    Parliamoci chiaro. Guardati allo specchio, se non ti fai pena è solo per autoempatia nel vedere il tuo riflesso.
    Spiegami dunque, devo proseguire oppure tutto questo ti è sufficiente per farti comprendere che mi interessa comprendere cosa è successo DOPO l’attacco?




    E poi c'era la gente che faceva supposizioni, perché non c'era altro che potesse fare. Che la interrogavano, ogni giorno da quel giorno. La polizia, i guardiani, l'amministrazione, suo zio.
    Isamu Uchiha veniva presso magione Kobayashi ogni giorno e ogni giorno si sedeva accanto a lei, la guardava, le prendeva una mano e le chiedeva di ripercorrere insieme a lui ciò che era avvenuto. Aveva ripetuto la stessa storia centinaia di migliaia di volte ad altrettante persone, talmente tante che lentamente le parole erano state memorizzate e alla fine la versione che offriva era sempre la stessa, almeno fino a quando non aveva cominciato a tacere, a rifiutarsi di farlo ancora. Si era zittita e da quel momento aveva aperto bocca solo poche volte.
    Era stanca.
    Era entrata nel mondo shinobi credendo di poter fare della sua innata bontà e della sua spiccata voglia di fare le cose per il bene degli altri, il nuovo verbo dell'essere un ninja. Lentamente, però, si era resa conto che i suoi tentativi non erano nient'altro che una goccia nell'oceano, inutili e invisibili. Era stata divorata, boccone dopo boccone, da tutto ciò che aveva visto, che aveva affrontato, che aveva cercato di superare con il sorriso sulle labbra.
    La gente attorno a sé moriva, spariva, tradiva. C'era chi le dava la caccia, chi la voleva morta, chi la proteggeva come fosse una pazza invalida. E lei era stanca di far quadrare tutte quelle visioni in un'unica: quella della se stessa reale.
    Era veramente stanca.
    Di tutto.
    Anche di Raizen.

    «Non è successo proprio niente.» Avrebbe voluto chiedersi da dove nascesse la sua capacità di rispondere così nitidamente, ma quando la rabbia cominciò a dilaniare i veli del suo freddo ed estraniamento dal mondo, non fu necessario porsi poi molte altre domande. «Cosa vuoi che sia successo, Raizen?» Chiese, freddamente. «Un'associazione terroristica che non sapevo neanche esistesse viene a Konoha, mi fa fare cose senza senso, io rinuncio alla mia integrità, alla mia parte “bianca” per cedere completamente alla mia innata, sperando di poter lottare contro un Jonin che con un solo sguardo mi getta in un Genjutsu che mi distrugge la mente, da cui esco sventrandomi da una parte all'altra, e mentre muoio dissanguata, mentre striscio come un parassita sull'erba fredda, sento i residui di terra ed erba e legno che mi entrano dentro, nella carne aperta, cerco di seguire quell'uomo che mi sorride, evoca un corvo gigante, batte le mani, mi promette che tornerà da me quando i tempi saranno maturi, perché è me che vuole e non tutti i soldi della banca che ha rubato, non le vite che si è preso e che mi ha addebitato, non la serenità di un villaggio altrimenti felice, ma me; e poi se ne va. Boh. Se ne va, così, a caso.» Sentiva che qualcosa, in lei, stava cambiando.
    Lentamente il suo volto, una tavola rasa bianca e immacolata, cominciò a venir piagato da un'espressione aberrante, un incrocio tra la rabbia, l'ira cieca e una risata divertita paga del ricordo di quella sofferenza, che si delineò nei lineamenti della ragazza con un sorriso dalle fattezze di un ghigno e un'espressione affilata in cui gli occhi, da verdi che erano, cominciarono a scurirsi pericolosamente. Le mani le iniziarono a tremare e la sua voce, piatta, si trasformò in un gracchiante e raschiante rantolo di pura, polverosa e spiazzante ira.
    Non era niente che Raizen Ikigami aveva probabilmente mai visto. Niente che avesse prima di quel momento incontrato.
    Pura e semplice, istintiva, animalesca, voglia di sopravvivere e uccidere per prima.
    «Poi cos'è successo? Niente, Raizen, assolutamente niente. Io sono diventata ciò che stai vedendo, vivo camminando su un filo sperando di non cadere perché se cado, non è della mia mente che vi dovrete preoccupare, ma di qualcos'altro, che nemmeno io ho idea di cosa possa essere.» Sorrise, ma il risultato fu agghiacciante. «Sono stanca della gente, di questa vita di merda che mi promette e poi mi toglie e...ti ricordi tutte quelle puttanate che ti raccontavo da ragazzina, prima che mi crescessero le tette e io sapessi parlare con voce suadente? Beh, erano davvero puttanate: non c'è niente di retto e giusto in questo mondo, e io sono stanca di stare dalla parte di quelli che fanno di tutto per ingannarsi che c'è ancora qualcosa di buono negli altri. Perché se davvero esistesse, non ci sarebbero davvero persone pronte a sacrificare tutti quei bambini e quella gente, per prendersi semplicemente una sola sudicia e misera donna come me, senza capacità né apprezzabili doti.» Le sue mani ormai tremavano così tanto e la sua espressione era talmente stravolta che, per un attimo, parve la rappresentazione di un demone Oni. Uno yokai nato dalle profondità del più remoto angolo della terra sotterranea. «Voglio la gente morta, Raizen. Ne voglio un sacco, morta. E no, non l'ho detto al Clan Uchiha. Cosa avrei dovuto dire? Che avevo fatto quello che mi avevano detto di non fare, che avevo guardato dentro l'abisso e ci ero caduta dentro, e che adesso mi rendo conto che non posso uscirne ma posso solo convivere con questa nuova me stessa?» Rise, ed era una risata gutturale, raggelante. «Vorrei poter pensare che questa raffinata voglia di tagliare chirurgicamente il mondo in cui vivo possa essere un'arma al mio servizio, al servizio di Konoha, o di una causa superiore. Vorrei poter pensare che questo mostro che ho dentro possa aiutarmi a proteggere gli altri.... ma vedi, Raizen, ormai ho vent'anni. Ho subito più perdite di quanto sia lecito infliggere ad una sola persona, ho visto mostruosità che nessuno dovrebbe mai neanche concepire e sinceramente, arrivati a questo punto, non credo che quello che sono diventata sarà mai niente di bello e caro.» Ringhiò. Benché la sua snaturatezza fosse nata da un'ira sorda e cieca, la sua voce era calma, fredda, tagliente. Si poteva anzi dire che non c'era stato nessun altro momento, nella vita di Shizuka Kobayashi, in cui lei non fosse stata così tanto calma. «Se il Clan Uchiha avesse posto più sorveglianza com'era stato deciso, tutto questo non sarebbe accaduto. Se i guardiani delle mura mi avessero ascoltato mentre correvo, mentre urlavo loro di impedire che quei carri entrassero al villaggio, mentre supplicavo di avvertire l'amministrazione e la polizia, forse Karasu non sarebbe scappato. Cos'altro dovrà accadere, a Konoha, quale altra disgrazia enorme, perché si capisca che le cose, in questo modo, fanno vomitare?» Sospirò e fece spallucce. «Non intendo più lavorare per nessuno, Raizen. Sono stanca. Ho gettato il mio coprifronte molti anni fa, quando Kuroro ha tradito, e non ne ho mai richiesto nessun altro e tutt'ora non ne ho intenzione. Sono stanca di far parte di quella fazione che professa di essere “la buona” ma che in verità fa più schifo di quella cattiva. Davvero. Ormai che sono in questo abisso di merda, preferisco rimanerci, almeno qui le cose schifose rimangono tali, senza veli, senza pretese e senza nessuna cazzo di ipocrisia.»
    E mentre diceva quello i suoi occhi verdi si fecero lentamente quasi neri, la sua espressione si stirò di nuovo e l'ira parve sparire, cosicché per un secondo solo in lei regnò un totale, spiazzante e raggelante equilibrio. Un equilibrio però più spaventoso della follia in cui sembrava aver vissuto in quel momento, perché a differenza di quella non aveva limiti, né confini, nessuna morale e nessuna pretesa. Era materia pura, informe, tutta da plasmare.
    Energia allo stato brado.


    divisore




     
    .
  9.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Admin
    Posts
    18,986
    Reputation
    +684

    Status
    Offline

    Accensione a strappo








    Shizuka.
    Un impertinente ragazzetta il cui miglior talento era indubbiamente quello di far saltare i nervi al Colosso, non che fosse un compito difficile per chiunque, ma lei era in grado di farlo con una metodicità così sopraffina che il rilascio dovuto alla rottura tuonava come la discesa del dio del tuono sulla terra.
    Forse era la sua innata capacità di mettersi al centro del mondo nonostante al suo interno non fosse che un insignificante macchiolina come qualsiasi altro essere umano.
    Non sapeva cosa fosse di preciso, ma in questi casi aveva l’abitudine di reagire quasi come uno specchio, mostrando al suo iroso interlocutore la medesima espressione.
    Quanta paura può fare il contenitore di un demone che borbotta il suo disagio?

    Ahahah! Umano!
    Questa cosa è così divertente che potrei volerne una seconda puntata!
    Mostragli cosa vuol dire far incazzare un rattaccio di fogna!


    Il peggior calmante in una situazione di tensione era qualcuno che ti spingeva ad usare la violenza, alimentando la fiamma primordiale e istintiva della supremazia fisica.
    Digrignò i denti trovando un piccolo sfogo in quel gesto sufficiente a tranquillizzarlo il tanto che gli bastava a fargli utilizzare la bocca e non le mani.

    Piccola.
    Sudicia.
    Stronzetta.
    Ingrata.


    Scandì le parole tra un oscillazione della mascella e un’altra, cercando di non interrompere quel ritmo lenitivo.

    Per quanto io mi impegni ad insegnarti come stare al mondo ancora non riesci a comprendere che sei attaccata al suo seno da quando tua madre ti ha messo al mondo, e il modo migliore che trovi per ringraziare è mordergli il seno.
    Chi cazzo ti credi di essere?
    CHI CAZZO TI CREDI DI ESSERE?


    L’aumento del tono della voce fu del tutto incontrollato, ma parve che dopo un primo sfogo il Colosso fosse riuscito a ritrovare la calma.

    Vuoi la gente morta?
    Pezzente col cervello annacquato, non sei logica nei tuoi momenti di sanità mentale figurati ora.
    Ma a tutto c’è un limite, spiegami, perché vorresti la gente morta?
    Perché ormai ne hai vista già così tanta da essere gelida?
    TU stai per spezzarti.


    L’ultima frase arrivò come una stilettata, riguadagnando una fredda impostazione vocale che rese quelle poche parole ben più tangibili e violente della furia liquida che Raizen eruttava fino a pochi istanti prima.
    Il freddo è solido.

    Sei come un pezzo di vetro rovente , senti il calore, senti il potere del fuoco, ma basta una goccia di acqua fredda per mettere a nudo la tua cristallina imperfezione e farti esplodere in una nuvola di schegge che non arrecherebbero danno neanche ad un bambino affetto da senilità precoce.
    Trovi solo il modo di ammonticchiare più scuse per il tuo pietoso fallimento, in un pietoso circolo di autoprotezione e odio verso i tuoi sensi di colpa che ancora ti dilaniano. Sei debole.
    Sei così debole nel profondo da farti contaminare da qualsiasi evento negativo, senza comprendere che la vera forza sta nel mantenere intatta la propria strada, quale che essa sia.
    Sei così debole da farmi ribrezzo.



    La sua espressione mutò trovando una placida serenità, non glaciale e calcolatrice, non innaturale, solo la più sincera espressione di serenità interiore, probabilmente dentro di se aveva trovato la soluzione.

    Mi sono stufato di farti da balia, forza, usa quelle tue belle cosce e mettiti in piedi.

    Ordinò mentre si alzava, qualcosa dalla sua voce era totalmente svanito.
    Conscio che il suo ordine potesse non trovare alcuna risposta era pronto a prendere la Kunoichi di peso per l’avambraccio e strattonarla con ben poca gentilezza fino a metterla verticale.

    Cammina.

    Un nuovo ordine che poteva essere eseguito in autonomia o con un leggero aiuto fisico da parte di Raizen.
    Con Shizuka avanti i due uscirono dai capelli del terzo hokage, spingendosi fino al sopracciglio da cui potevano godere della migliore e illimitata vista sul villaggio. Durante il piccolo tragitto, nascoso dalla posizione poco favorevole di Shizuka, Raizen creò un singolo clone che subito si immerse nel volto della statua.
    Da quanto il tenero pulcino che ora pigolava come la chioccia che non era non la vedeva?
    Probabilmente da tempo a sufficienza da ritrovarla esattamente come la ricordava nei suoi migliori ricordi, nessuno era a lavoro su alcuni cantieri, ma soltanto alcuni erano attivi sugli ultimi danni causati dall’attacco della banda di Hayate, il resto scorreva tranquillamente, alla Foglia non c’era spazio per le cicatrici.

    Guarda avanti, guarda Konoha.
    Solo tu ti sei fatta sfreddare dai buchi che ti sei fatta addosso, il fuoco della foglia arde e riscalda come sempre.
    Soltanto belle parole per dire che a nessuno importa di chi siano le spalle su cui gravano quelle vittime, nessuno le cerca per metterle sotto terra insieme alla sua incapacità.
    Non c’è solo una foglia, ce ne sono migliaia, e ogni volta che la foglia da te conosciuta cadrà ce ne sarà una nuova pronta a sbocciare.


    Tacque qualche istante, mantenendo la sua allieva dinnanzi a se.

    Se tu non fossi così debole avresti già capito che tutto ciò che è successo a te stessa dopo quell’esperienza doveva aiutarti a canalizzare le tue forze per annichilire la persona che ti ha fatto tutto quel male.
    Invece l’odio sta divorando te stessa, senza la cortesia di cucinarti o usare posate ti spolpa a morsi mentre rantolando lo guardi impotente sperando che possa darti una scintilla utile a brillare gli istanti necessari ad incendiare le persone sbagliate.
    Persone come te o muoiono da eroi, o vivono abbastanza a lungo da diventare mostri.


    Ciò che successe dopo aver pronunciato quella frase fu ovattato da una strana sensazione, quella sensazione data dall’essere coscienti di compiere un’azione di cui si sarebbe pentito per una vita intera.

    E questo villaggio ne ha già troppi.

    La velocità con cui la mano di Raizen si posò sui seni di Shizuka probabilmente era troppo elevata perché un Uchiha implume come lei potesse difendersene e altrettanto lo era la spinta che ne derivò consegnando il piccolo corpo all’inconsistente abbraccio del vento.
    Sarebbe precipitata per chissà quanto prima di sfracellarsi al suolo, forse un epilogo troppo triste per una bambina che ancora non aveva capito il linguaggio con cui il mondo e la vita comunicavano con lei.
    Certo non avrebbe avuto scampo da quell’altezza se, poco più sotto, nello zigomo del terzo non fosse spuntato il clone, all’ultimo momento, afferrandola in uno stretto abbraccio di ferro.
    C'erano forse altri modi di riprendere in mano le redini di quella situazione, ma Raizen aveva sempre utilizzato questi, perchè infondo, erano i più efficaci dato che la spavalderia di Shizuka poteva essere mondata solo in quel modo.

    Vuoi morire?

    Chiese con candida semplicità.

    Ouhhhhhh mossa azzardata.

    Era interessante come la Volpe potesse appassionarsi alla storia di Raizen.

     
    .
  10.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Y Danone
    Posts
    8,529
    Reputation
    +561

    Status
    Anonymous

    E N D I N G:
    There is no real ending. It’s just the place where you stop the story.

    Shizuka Kobayashi's change




    divisore





    Non era cambiato nulla. Nulla da come era in passato.


    Piccola.
    Sudicia.
    Stronzetta.
    Ingrata.



    La loro relazione non si era evoluta, il loro legame non si era consolidato. Erano rimasti come quando si erano incontrati la prima volta: una sedicenne e un ventenne che imponevano il proprio ego l'uno sull'altro.


    Per quanto io mi impegni ad insegnarti come stare al mondo ancora non riesci a comprendere che sei attaccata al suo seno da quando tua madre ti ha messo al mondo, e il modo migliore che trovi per ringraziare è mordergli il seno.
    Chi cazzo ti credi di essere?
    CHI CAZZO TI CREDI DI ESSERE?




    Era stanca. Davvero stanca.
    Era stanca di quel comportamento ostentato di superiorità, di quella sua voglia di imporsi con rabbia. Dell'immaturità di pretendere che tutti la pensassero come lui, di avere sempre ragione.
    Era stanca di Raizen in un modo che, prima di quel momento, non aveva mai provato.


    Vuoi la gente morta?
    Pezzente col cervello annacquato, non sei logica nei tuoi momenti di sanità mentale figurati ora.
    Ma a tutto c’è un limite, spiegami, perché vorresti la gente morta?
    Perché ormai ne hai vista già così tanta da essere gelida?
    TU stai per spezzarti




    Ferma al suo posto Shizuka Kobayashi ascoltava i giudizi di quello che, un tempo, poteva vantarsi di essere stato il suo maestro, con una flemma esausta. Non le interessava cosa egli le stesse dicendo, sostanzialmente perché, come sempre, erano i suoi giudizi che lui stava cercando di imporle per convincerla che avesse ragione.
    Era sempre stato così: lei cercava di esprimersi, di cercare in lui un appoggio al suo sviluppo –del tutto umano e ragionevole– che da bimba l'aveva condotta a donna, e lui giudicava passivamente tutto, modellando i fatti secondo il suo metro di valutazione e sentenziando poi, seccamente, chi avesse ragione e chi torto, sempre che fosse possibile fare una cosa del genere, propria solo degli Dei del campo celeste.
    Era talmente evidente tutto ciò che sarebbe successo da quel momento in poi, che quando il Jonin le ordinò di alzarsi e di avvicinarsi al dirupo dei volti dei Kage lei non si oppose minimamente. Andò semplicemente dove le era stato chiesto, ascoltò semplicemente ciò che le venne detto –tutta quell'adorabile fiaba sulle foglie, la volontà del fuoco etc etc etc– e quando finalmente lui fece la solita cosa stupida che la kunoichi sapeva avrebbe fatto, lei rimase talmente impassibile e tranquilla che, per un attimo, il Colosso della Foglia ne sarebbe potuto essere persino allibito.
    Non si scompose, né urlò e neppure parve denotare il benché minimo stupore o la più impercettibile forma di paura. Quando la mano del Colosso l'afferrò e con violenza la scagliò giù dai volti dei Kage, lei, in quella breve e spiazzante frazione di secondo che separò il suo getto dall'effettivo precipitare, puntò i suoi occhi ormai quasi del tutto neri in quelli del Jonin.
    Erano glaciali. Freddi. Completamente e perfettamente immobili.
    Non aveva davvero paura.
    Non ne aveva.

    E poi cadde.

    Il vento le soffiava in volto a velocità sempre crescente mentre i suoi lunghissimi capelli volavano dietro di lei come ali scure e serpeggianti.
    Eppure, contro ogni più lontana e lungimirante previsione del Jonin della Foglia, non si mise a piangere come avrebbe fatto tanti anni prima, quando, disperata e innocente, subiva le angherie del Colosso incapace di reagire.

    Fu solo una frazione di secondo.
    Raizen non avrebbe potuto accorgersene con ogni probabilità, ma d'improvviso, appena in un battito di ciglia, gli occhi ormai scuri si bagnarono di rosso. Il cremisi, una pioggia di sangue scarlatta, riempì le pupille della kunoichi e un istante dopo due tomoe complete e formate sbocciarono come fiori corvini in quell'oceano di infuocato gelo.

    Valutò le tempistiche. Le bastò solo una mezza frazione di secondo per comprendere il tempo d'impatto e non fu difficile come qualcuno avrebbe potuto immaginare.
    Era già caduta da posti ben più alti.

    Voltò su se stessa, lasciando che il Signore Vento le abbracciasse la schiena.
    Il suo Sharingan, scuro e iniettato di una rabbia che assumeva i connotati della ferocia fredda e ben distinta, brillò come una gemma rara in quello spettacolo di pericolosa tensione, ma non fu rivolto a nient'altro che ai volti dei Kage.
    Non si sarebbe capito quale sarebbe stata la sua intenzione fino al momento, rapido e incalzante, in cui la kunoichi accumulò una dose di chakra folle in entrambe le mani. Un alone di un blu elettrico freddo come un inferno di ghiaccio si gonfiò come una nube attorno agli arti della giovane Shinobi e lei, tirando indietro un pugno, strinse il volto in un'espressione di equilibrata e perfetta concentrazione.
    Quel tipo di concentrazione nei momenti di pericolo che nasce da un'esperienza che ha forgiato completamente il carattere di una persona: la totale, subitanea e perfetta incapacità di pensare ad altro che al proprio obiettivo.
    La concentrazione perfetta.

    Avrebbe distrutto il volto di un Kage.

    Lo avrebbe fatto esplodere, quel poco che sarebbe riuscita, abbastanza da creare una pioggia di massi di media dimensione che avrebbe potuto usare come trampolino per saltare negli alberi che svettavano poco distanti dal punto in cui il suo corpo avrebbe impattato, finendo in frantumi.
    Lo avrebbe distrutto, e di poco sembrava importarsi della gente sotto di lei, del villaggio o di qualsiasi altra cosa: il suo obiettivo era rimanere viva, e solo a quello guardava.
    Non sarebbe uscita incolume da quella strategia, anzi. Con ogni probabilità si sarebbe rotta diverse ossa e la sua carne sarebbe di nuovo esplosa per il quantitativo folle di chakra da lei usato, ma era sempre meglio che finire rotta in due al suolo, o con gli arti in poltiglia nel tentativo di attutire la caduta.
    In meno di un secondo, in una situazione critica, era riuscita a valutare il male minore e ad accettarne le conseguenze senza battere ciglio. Una dote eccezionale, maturata in chissà quale avversità, ma che non teneva conto delle conseguenze sugli altri. E non perché non le avesse valutati, ma perché, realmente, non parve interessarsene.
    La sua priorità era la sua salvezza, il resto era nullità.

    Caricò il colpo, concentrò il chakra fino a farlo diventare quanto di più simile ad una sfera, denotando in questo modo un controllo della sua energia pressoché perfetto –come ci si sarebbe aspettati da qualcuno affetto dalla sua condizione, che poteva tenere placata solo con un controllo magistrale del Chakra– e fu proprio mentre faceva serpeggiare il braccio in avanti, pronta a colpire uno zigomo del Kage, la parte più vicina a lei nella caduta, che qualcosa la afferrò al volo, frenando il suo precipitare in un istante.
    Un Clone.


    Vuoi morire?




    La voce le arrivò lontana. I suoi timpani erano ancora resi parzialmente sordi dalla velocità del vento che le fischiava dentro le orecchie come un vortice d'aria. Eppure lei, paradossalmente, non sembrava ancora turbata dalla situazione.
    I lobi di chakra attorno alle sue braccia bruciavano ancora come fuochi blu e lei, senza tradire il benché minimo risentimento, si voltò di scatto, cercando di colpire il Clone con quelle sfere ad impatto esplosivo.
    Non si sarebbe poi curata troppo di far svanire quel servetto di energia spirituale. Immaginava di non avere nessuna e remota possibilità di fare questo al prodotto delle capacità di un Jonin, ma non aveva neanche nessuna intenzione di continuare ad essere tenuta in braccio come una bambina.
    Perché lei non era più una bambina, e questo, Raizen, avrebbe dovuto capirlo.
    Le sarebbe bastato far allontanare almeno di qualche passo il Clone, attivando il Chakra Adesivo così da rimanere in equilibrio sullo zigomo del Kage in perfetta autonomia, perpendicolare al suolo. Ci avrebbe provato, almeno.
    I suoi occhi, in cui uno Sharingan più adulto rispetto a quello visto dallo Shinobi tempo addietro, si sarebbero a quel punto alzati a cercare quelli, altrettanto rossi, del Colosso. Le due tomoe giravano silenziosamente e il volto della kunoichi, disteso in un'espressione di calcolato equilibrio, si increspò in un sorriso ironico.
    Adesso sì che sembrava davvero divertita.
    «Hai finito?» Avrebbe domandato gentilmente Shizuka Kobayashi. Le sue mani tremavano impercettibilmente mentre faceva scemare la dose di chakra attorno alle braccia. I suoi occhi si socchiusero. Il suo respiro, leggermente affannato, tornò regolare. «Ora basta, Raizen. Sei patetico.» Disse con semplicità, e quello era un vero giudizio. Forse il primo che la kunoichi si permetteva nei confronti del suo “maestro”. «Hai finito di far vedere che hai il pene più grosso? Accidenti, sei bravo. Sei forte. Sei incredibile. Come te non c'è nessuno, credimi, dopo tanti anni, l'ho capito.» Affilò maggiormente lo sguardo. «Adesso basta.» Sorrise ancora e forse, se Raizen per un attimo avesse dissipato la sua mente dalla sua ottusa e ostinata presunzione, lo avrebbe visto: di fronte a lui non c'era più la bambina di un tempo, ma una donna. «E' tutto uguale, tutto uguale a tanti anni fa. Non sei cambiato di una virgola, il nostro legame non è cambiato, non è evoluto! Te ne rendi conto, tra una spacconata e l'altra, oppure no? Vuoi ancora giocare a fare Dio? Ti fa sentire così importante il potermi rigirare sul palmo della tua mano?» Rise, e adesso lo fece di gusto. «Hai fatto la stessa identica cosa di quando avevo sedici anni e cercavo di capire cosa fare al mio primo corso genin. Al tempo mi hai sottratto del tutto senza senso dalla mia tenda, mezza nuda, assonnata e spaventata. Mi hai sollevata per un piede, mi hai terrorizzata fino al midollo e io, comprendendo di non poter niente contro di te, mi sono limitata a piangere. Adesso hai fatto la stessa cosa: mi hai gettato da un dirupo sperando che io reagissi allo stesso modo di quel giorno, ossia chiedendoti pietà e ammettendo che hai ragione su tutto, da sempre.» Rimaneva in equilibrio sul volto del Kage senza il benché minimo problema, e questo dopo aver accumulato una dose abnorme di chakra pochi istanti prima in un'altra parte del corpo. Il suo controllo, ormai, era davvero perfetto come si sarebbe potuto notare dal tremore delle sue braccia e dalle sue espressioni, ricondotte alla normalità con ferocia gelida. «Ma tu non hai ragione, Raizen. Non sei nessuno, nessuno più di me. Non sei un Dio, non hai le capacità, né l'intelletto e neppure il diritto di giudicare il mondo e le persone, imponendoti su di esse.» Reclinò leggermente la testa all'indietro, divertita. «Vedi qual è il problema: tu non hai mai capito una cosa. Io non ho mai avuto bisogno di qualcuno che mi “plasmasse” o si imponesse su di me per forgiare la mia mente, quello cioè che tu hai sempre fatto. Non so che tipo di educazione quel tuo maestro pazzo ti abbia dato, ma io, al contrario tuo, sono sempre andata avanti, mi sono evoluta, sono cresciuta, cambiata, sono maturata... da sola.» A quel punto alzò un braccio, puntando un dito indice verso il volto del Jonin. «Tu non ci sei mai stato. Neanche quando eri con me, mi sei mai stato d'aiuto.» E così dicendo rise, gelidamente. «...Non ci arrivi, eh? Mi hai sempre cercato di rendere uguale a te, di impormi le tue idee e la tua presunzione. Quando ero più piccola e affermavo di voler cambiare il mondo shinobi con la bontà e la giustizia, mi stordivi per convincermi che non esisteva nessuna bontà e giustizia in un mondo come quello ninja, creato per la guerra. Mi picchiavi, mi torturavi, e tutto per insegnarmi la ferocia della nostra realtà. Violentavi la mia mente perché io, distrutta dalla mia incapacità di oppormi a te, piangessi e ti dessi ragione. Adesso stai tentando di fare lo stesso, ma nella direzione inversa.» Il suo sguardo non si discostava di un millimetro da quello del Colosso, che inchiodava al suo posto con ferocia fredda. «Avevi ragione quando hai detto che la prassi è sempre stata che io piagnucolavo e strillavo, tu che mi ignoravi e io che insistevo, tu che ti imponevi e io che ubbidivo. Ma questa prassi ho cercato di cambiarla un milione di volte, perché superati i primi tempi di smarrimento, in cui realmente ero un pulcino in un mondo sconosciuto, io non ho mai avuto bisogno di tutto questo.» Sorride, sarcastica. «Non hai mai accettato i miei cambiamenti, riconducendoli a chissà quale immaturità del mio carattere. Non hai mai capito che le persone cambiano, crescono, si evolvono, perché tu, poverino, non ti sei mai evoluto. Gli anni passano, tu sei diventato Jonin, qualcosa in te è diverso per ragioni che ancora non capisco, eppure sei uguale a quando avevi vent'anni ed eri un chunin addetto ai corsi per studentelli.» E a quel punto allargò le braccia e rise. La sua risata era lo specchio di un'energia latente ricca di potenziale tutto da forgiare, posta in equilibrio su un filo che poteva pendere da una parte o dall'altra. Da quella bianca delle cose, o da quella scura. Nera. «Tu non sei cambiato, ma io si. E questo è il modo in cui l'ho fatto, che ti piaccia oppure no. Credevi di spaventarmi, gettandomi da lassù? Hai idea di che cosa io abbia affrontato mentre tu pretendevi di detenere nel mio cuore il ruolo di maestro che già da anni non hai più? Ho combattuto, ho lottato, ho intrapreso missioni che tu, poverino, continueresti a definire “sciocchezze” perché tanto, le cose importanti e pericolose, le fai solo tu. Non è una gara, Raizen. Non me ne frega un cazzo se sei un super ninja potentissimo e bravissimo.» Strinse il suo volto in un ghigno ironico. «Sei un maestro fallito e inutile.» Fece spallucce e ritornò a braccia conserte. «Continua ad abbaiare, ma mentre tu migliori anche io lo faccio. Le tue strategie hanno sempre meno effetto su di me e un giorno arriverò al punto per cui il tuo "bau bau bau" mi apparirà solo come un rumore indistinto di sottofondo. Quindi, cerchiamo di capirci. Interagiamo E così dicendo scimmiottò il gesto che il Jonin aveva fatto poco prima. «Il mio nome è Shizuka Kobayashi. Che ti piaccia oppure no sono una mezzosangue Uchiha. Stravolta dalla potenza di un'innata che non sono mai stata educata a controllare, sono stata divorata dalla sua stessa energia e ora continuo a lottare ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo, perché questa oscurità che vedi in me possa diventare qualcosa di utile alla parte “giusta” delle cose, ovunque sia questa giustizia che spero sempre esista. Non me ne faccio di un cazzo di un cane randagio che mi sculaccia dandomi ordini che dimentico appena lui sparisce, puntualmente, per mesi.» E così dicendo si fece gelida. «Vuoi aiutarmi a rendere questo fiele un miele a disposizione di Konoha, si oppure no? Posso benissimo cavarmela da sola, in ogni caso. Quello che ho sempre fatto, del resto. Ma se sono così importante per te come dici, cerca di cominciare a capire che quello che sono è ciò che vedi davanti a te ora, e io ho bisogno di un compagno, non di un maestro e nemmeno di un rettore.» Sorrise, ma per l'ultima volta. «Non sono più la bambina di tanti anni fa, Raizen. Sono cambiata. Sono cresciuta. Considerami una compagna, qualcuno al fianco di cui combattere e guardare avanti, oppure sparisci.»

    Erano anni che Raizen Ikigami e Shizuka Kobayashi erano considerati l'uno lo specchio dell'altra.
    Si diceva che non importava quanto lontano i due fossero, se la Principessa avesse cantato il Colosso sarebbe giunto, e se lui ne avesse urlato il nome, ella sarebbe uscita dalle ombre per lui.
    Ma quella fiaba, niente più che il gioco di parole di un villaggio colpito dal contrasto delle personalità, era giunto adesso ad una svolta: continuare, o cessare per sempre.



    divisore




     
    .
  11.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Admin
    Posts
    18,986
    Reputation
    +684

    Status
    Offline

    Ritorno di fiamma

    Il pericolo dell'accensione a strappo







    In qualcosa l’allieva era sicuramente cresciuta, pareva l’abilità e l’iniziativa non gli mancasse, quando il Colosso la vide sfiorare la statua e caricare il pugno si accese di un ira così profonda da annebbiare i suoi stessi sensi e la sua capacità di giudizio.
    Si sarebbe scaraventato anche lui giù dal sopracciglio, camminando al contrario in modo di poter usufruire, oltre che della gravità anche della sua spinta per accelerare la caduta, un azione quasi folle che lo lanciò capovolto nel dirupo.
    Giunto all’altezza dell’allieva in poco più di un istante strinse le braccia al corpo indurendole quanto più poteva aumentandone la resistenza attraverso il chakra.
    Incassò alla perfezione, venendo scaraventato verso il volto insieme all’allieva che si preoccupò di trarre a se finendo a ridosso della cicatrice del terzo, stette li qualche secondo, con le braccia doloranti, riuscendo a passare le vesti con lo sguardo si sarebbero visti due ematomi in espansione.
    Quando riuscì ad emergere dalla fessura Shizuka gli parlava.

    Ti ho chiesto se volevi morire perché morte chiama morte, e basta.
    E tu non fai altro che urlare “morte” come i corvi che piacciono tanto al tuo clan del cazzo.


    Rimase qualche secondo in silenzio, disarmato, riflettendo su ciò che avrebbe detto, e sul fatto che pur potendo la sua allieva lo aveva colpito, esattamente come aveva fatto lui dopotutto.
    Non fu quello a meravigliarlo, forse era l’acquisita capacità da parte di Shizuka di poterlo colpire come se nulla fosse.

    Vuoi DAVVERO farla vivere questa stronzetta?
    Ti sei sigillato un demone dentro per questo villaggio ed esiti a ridurle la faccia ad una disgustosa poltiglia?


    Sollevò gli occhi verso la donna mentre batteva i denti lentamente, concentrato su chissà quali pensieri.

    Ho sbagliato tutto, sei cresciuta e bla bla bla.

    Sorrise malinconicamente.

    Qualsiasi cosa che riguardi due persone si fa in due, se la situazione si evolve sempre alla stessa maniera forse è perché necessiti sempre degli stessi modi.
    Guardati, cinque minuti fa neanche ti ricordavi come si parla, ora invece colpisci addirittura il tuo maestro.
    Io onestamente son soddisfatto del progresso.
    Ma sei troppo testarda per ammettere qualsiasi cosa che possa negare anche una virgola di quello che hai detto.


    Ammise con triste orgoglio.
    Non era semplice rendere Raizen triste, e ancor meno semplice era vederlo triste. Non era quel genere di persona che ama la compagnia, il rumore della voce altrui, le strade la gente.
    Molto probabilmente gli piaceva semplicemente vivere, respirare, conservarsi seguendo il più basico degli istinti, senza badare ad altro, tutto il resto accadeva perché gli piaceva essere il migliore in ciò che faceva, se qualcuno cacciava prede grosse lui ne avrebbe cacciato di più grosse, sarebbe stato sempre al vertice della sua piramide alimentare e mai nessuno l’avrebbe scomodato da li.
    Ma agli effetti lui era anche un uomo, e come tale non sempre aveva la forza per stare da solo, ogni tanto desiderava che il suo vertice fosse condiviso. Ma dopotutto lui era strano: difficile, per descriverlo con una parola. Trovare un solido e perfetto incastro che gli permettesse di accoppiarsi con qualcuno era un impresa paragonabile ad un uomo che sfida un Demone sperando di poterlo vincere.
    Possibile, ma molto, molto difficile.

    Sai Shizuka, tu non sei una persona semplice.

    E amava riflettere parti di se stesso sugli altri. Conscio della sua complessità credeva che proiettare una parte del gigantesco e complesso ingranaggio che lo rappresentava sugli altri poteva aiutarlo a trovare una similitudine con loro, un pezzetto di un puzzle che completandosi con la conoscenza l’avrebbe aiutato a tradurre il complesso linguaggio che gli altri parlavano e che a lui risultava macchinoso e incomprensibile.

    Io non faccio mai niente a caso in realtà, e mai le scelte che ho effettuato anche con te lo sono state, c’era sempre una fine programmazione dietro che tu, come tutti gli altri, non siete stati in grado di vedere. E forse il nasconderla troppo bene è stato l’errore principale.
    Tu e Kuroko non eravate due studenti qualsiasi, tu e Kuroko eravate due potenziali Uchiha, e la mia principale debolezza in battaglia sono i genjutsu, o meglio, lo era al tempo.
    Vi scelsi perché piccole larve com’eravate potevo seguire il vostro cammino, la vostra crescita, due potenziali Uchiha nel palmo della mia mano mi avrebbero insegnato a colmare le mia debolezza che sarebbe diminuita tanto quanto loro sarebbero cresciuti.
    Inizialmente non eravate che due pezzi di carne destinati ad un pasto che mi avrebbe reso più forte, ne più ne meno.


    Sospirò.

    Ciò che non si può prevedere è il carattere di una persona e come si reagisce ad esso, e io a voi ho reagito in maniera del tutto inaspettata, anche per me, il che è assai raro. Da due pezzi di carne siete diventati persone tangibili con cui potevo interagire, e lentamente ho cercato di tirarvi su come meglio potevo, seguendovi passo passo.
    Te in particolar modo perché ho potuto tenerti vicino.
    Ho provato a renderti forte, forte come lo sono io, non perché io sia Dio ma perché mi rendo conto di avere un animo del tutto intaccabile agli agenti esterni, o quasi.


    Cambiò posizione, riuscendo a sedersi nell’incavo che la cicatrice lasciava.

    Qualcosa prima o poi entra sempre, qualcosa ci ferisce in un modo o nell’altro perché niente è perfetto. Quando accade a te cosa succede?
    Ma prima di darti la risposta ti faccio notare come questo rapporto di dualità già ora sia evidente, ossia parlando di te si deve necessariamente parlare di me, non ti fa già sorgere qualche dubbio?
    Dicevo, sei attorniata da persone, servi, parenti, chiunque ti porta un dono per farti sorridere, ma nel tuo egoismo badi solamente a te stessa a quanto tu soffri a quanto gli altri non soffriranno mai.
    Non sei sopra il mondo, ci cammini, come tutti solo che al contrario di tutti non sei in grado di comprendere che il male che provi non è soltanto il tuo.
    Hai detto che sei stanca del mondo, ma visto che soffri così tanto e per il mondo fai così tanto, dimmi, cosa hai mai fatto per… me?


    Non aveva mai posto una simile domanda a Shizuka perché mai era stato necessario, mai fu necessario far notare al prossimo quanto lui faticasse per acquisire una fiducia e un rispetto che di fatto non pretendeva ma chiedeva a gran voce, per avere un posto anche nell’animo altrui, che fosse suo e soltanto suo, per essere il primo anche dentro a qualcuno.
    Che chiedere fosse quindi la risposta?

    Sei mai venuta a chiedermi come va?
    Cosa hai fatto? Cosa è successo?
    Hai mai bussato alla mia porta?
    Mai.
    E mai l’ho preteso, perché io infondo sto bene anche da solo. Mentre invece il mondo che ora tanto disprezzi quante volte ha bussato alla tua porta?
    Quante volte ti ho raccolto dalla fredda terra in cui sei caduta per rimetterti in un tiepido nido in cui non ho mai desiderato entrare per non disturbare?
    Quante volte ti ho teso la mano senza chiedere, senza pretendere nulla, tranne una cosa.
    Che tu riconoscessi te stessa, i tuoi limiti e ne facessi la tua forza, sia come donna che come kunoichi.


    La guardò dritta negli occhi, con uno sguardo che probabilmente lei non avrebbe mai riconosciuto se non avesse avuto la briga di scavare in quegli occhi rossi un tempo grigi, dietro quelle sopracciglia marcate e forti, dietro quelle rughe d’espressione marcate dalle intemperie.
    Dietro a quell’espressione, che pur triste conservava la durezza di un volto che non sapeva esserlo più di un fugace sguardo passeggero che rappresentasse tale condizione.

    Non hai saputo dare ne a te ne a me nemmeno la tua felicità.

    Dichiarò con tono sottile.

    Non sei mai cresciuta e mai crescerai, guardati!
    Sei così impegnata a piangerti addosso che non ti rendi conto che il treno che sta deragliando è quello che guidi tu… la tua innata è maledetta?
    Ma per favore! Io convivo con un demone!
    Hai solo gli occhi rossi, se fossi nata con i capelli biondi saresti destinata a fare la modella?
    Il tuo corpo segue la tua mente, se tu ti fai divorare dall’odio non dare la colpa ai tuoi occhi, non si pensa con quelli, si pensa col cervello.
    E il tuo cervello, TU, credete che la cosa migliore da fare sia odiare il mondo.
    E TENTATE di distruggerlo esattamente come hai fatto con me.


    Riprese fiato, inalando per qualche secondo.

    Non tutti sanno calarsi le braghe davanti al prossimo e ammettere che forse necessitano di qualcuno, alcuni preferiscono farsi da parte e non dare disturbo mentre ricompongono ciò che altri hanno infranto.
    Alcuni, non sono in grado di ringhiare contro chi gli tende una mano quando sono feriti.
    Alcuni, semplicemente, stanno in disparte perché le persone non cadono mai in avanti, in avanti guardano e basta, stanno di fianco o dietro aspettando di poter fare la loro parte nel momento del bisogno.
    Altri invece addirittura fingono di necessitare degli altri, solo per avere la gioia di potergli urlare nel viso quanto siano inutili nonostante i risultati raggiunti.
    Tu non sei cambiata neanche di un soffio, hai solo deciso che odi il mondo, ma il resto è identico, una donnetta viziata che urla al mondo i suoi desideri e le sue aspettative aspettandosi che questo con un inchino le esaudisca, per poi disperarsi quando non avviene.


    Quanto poteva essere grande un sentimento?
    Poteva raggiungere dimensioni abbastanza vaste da diventare un filtro che avviluppava la realtà mutandone l’apparenza e la percezione?
    Era possibile descrivere qualcosa di simile per qualcuno che possedeva a malapena gli strumenti comunicativi indispensabili per acquistare del cibo? Come era possibile per un individuo simile valicare un simile ostacolo, quasi una sorta di autismo verso il mondo?
    Una vita passata a raccogliere ogni esperienza, persino la più insignificante diventa una vita scomoda, pesante, di sicuro vi si troverà sempre lo strumento adatto per sostituirne uno ancora sconosciuto, ma sarà sempre più ingombrante del dovuto ed insieme agli altri occuperà uno spazio ed un peso che renderanno quella vita spossante, difficile da trascinare.
    Forse la soluzione poteva essere rappresentare tutto con dei gesti, magari inconsueti, ma quanto doveva essere incisivo un gesto per essere all’altezza di tutte quelle esperienze, di tutto quel mondo che con tanta dovizia si portava appresso?
    Raizen era giunto alla conclusione che doveva essere sempre più estremo, che doveva spingere sempre il suo interlocutore al limite per fargli provare le sue stesse sensazioni, per riuscire a farlo entrare dentro di se.
    Non era una cosa che poteva fare con tutti, fondamentalmente con nessuno, per questo era molto più semplice aspettare che qualcuno sporgesse la testa nel suo zaino e rovistasse per conto suo, lui avrebbe atteso e al momento opportuno avrebbe descritto con la più fine minuzia ed attenzione ogni particolare dell’oggetto che incuriosiva la persona di turno.
    Non era mai accaduto. Pareva che fosse troppo bravo a recitare e che la sua irruenza apparisse il suo vero volto dietro al quale non c’era bisogno di cercare ulteriori verità, e poteva essere vero in alcuni frangenti, ma la sua vita, il suo essere erano nascosti tutti alle spalle di quel fine velo di cartapesta!
    Al contrario di chi, con una semplice maschera di apatia riusciva a coinvolgere gli spiriti più impreparati a curiosare in una vita piatta o fatta delle più grosse frottole.
    Il mondo non era cattivo, ma indubbiamente girava al contrario.

    Dimmi Shizuka, in tutto il tempo che ci conosciamo quante volte hai chiesto di ME come io ho chiesto di TE?
    Rifletti prima di rispondere, e quando sarai certa della risposta dimmi quanto di corretto ci sia nell’odio e nell’abbandono che senti di subire, dimmi se è giusto che sia TU a strisciare per terra.
    Ti chiudi in te stessa sbarrando qualsiasi entrata di fronte a chiunque cerchi da entrare e da dentro ti lamenti ululando alla cattiveria e ingenuità di chi all’esterno non riesce a trovare una chiave che comunque sarebbe inutile.
    Magari adesso ti sembrerò lo stesso di sempre, invariato e immutato, ma credimi, è solo un altro pezzo di una maschera che ti sto gettando nel viso, minuto per minuto. Ho compreso come piegare il mondo al mio volere ma cosa importa?
    Mi chiedi di mostrarti quanto sia cresciuto, ma se già la distanza tra noi è così ampia perché mai dovrei farla aumentare ulteriormente? Come faresti a raggiungermi?
    Ho aspettato, solo in mezzo ad un mare di persone che qualcuno arrivasse per ME, credendo che prima o poi sarebbe arrivato e io potessi aprirmi senza remore, potendogli svelare ogni più piccolo segreto, ogni più piccola paura, ogni più piccolo trauma.
    Ho aspettato seduto sui marciapiedi, dentro giganteschi palazzi, in altri villaggi, ho aspettato ovunque che qualcuno fosse interessato a scalfire la superficie che tanti avevano a malapena leccato nel tentativo di scioglierla come fosse un banale ghiacciolo.


    Le risposte stavano negli occhi.

    Aspetto un’intera vita di essere primo e insostituibile per qualcuno, di essere un qualcosa di troppo grande perché ci sia spazio per altro. Di poter essere la prima e l’ultima goccia del vaso.
    Ma non sono ferrato in questo, io non sono affatto bravo in questo. Ho sbagliato.
    Ho aspettato invano.


    Si alzò, senza abbandonarne lo sguardo, le braccia abbandonate sui fianchi a causa del dolore, simili alla paralisi a cui erano sottoposte quelle di Shizuka.

    Proprio perché sono riuscito a farmi sigillare un demone all’interno una carezza come quella non può essere niente più che una carezza.
    Sei così basso da uccidere qualcuno solo per una carezza, Kyuubi?
    …ah si, vero, la risposta è decisamente si.
    Anche io probabilmente, ma a questo punto sconto più, sconto meno ha poca importanza.


    E ora, sono stanco.

    Concluse, tornando a parlare con Shizuka.

    Sbaglierai tante altre volte, crescerai storta, ma sarà la tua direzione, quella che ti piace tanto e che invece a me fa ribrezzo.
    Dici che non ho saputo plasmarti? Hai ragione, ma purtroppo sono stato così stupido da mutare solo la superficie, l’animo, quello importante, è rimasto invariato.
    Mentre la superficie è così identica a me da respingermi e tenermi lontano, come le due famose calamite.
    Non avrai ostacoli, non avrai il mio ostacolo, perché non vorrò MAI essere il tuo errore o parte di esso.
    Sbaglierai da sola e sola ti rialzerai, sempre che questo possa interessare all’adultissima te.


    Calcò la mano sul loro ultimo errore con la forza di un torchio, e senza aggiungere altro si voltò, incamminandosi verso il villaggio, seguendo il volere di Shizuka: allontanandosi fino a sparire.
    Decise infine di non rivelargli che era a conoscenza della posizione di Kuroko, ma non potè fare a meno di sorridere all’ennesimo errore che avevano commesso e che solo le sue parole avrebbero potuto rivelare, chissà quanto ne sapeva di questo l’informatissima Ritsuko.

     
    .
  12.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Y Danone
    Posts
    8,529
    Reputation
    +561

    Status
    Anonymous

    SOMETHING TO C H O O S E:
    The greatest weapon against life is our ability to choose one thought over another.

    Shizuka Kobayashi's choice




    divisore




    Non sapeva neanche da dove cominciare a rispondere, e fu per questo che ci mise qualche minuto per riuscire finalmente a smettere di aprire la bocca a vuoto.
    La sua espressione, quieto specchio di gelida freddezza, parve per un attimo incrinarsi, come qualcosa di molto prezioso che scosso dal vento precipita, finendo in frantumi.
    «Io non ti ho mai “cercato”? Non ti ho mai chiesto niente riguardo la tua persona?» Domandò Shizuka Kobayashi, cercando di moderare il tremore delle sue labbra, un buon tentativo che durò tuttavia solo qualche istante, prima che lei, aprendo le braccia, sbottasse con rabbia. «BUGIARDO! IPOCRITA!» E finalmente la sua voce perse l'equilibrio ostentato fino a quel momento, precipitò, e proprio come cercava disperatamente di esprimere, ritornò quella di un tempo, in cui a parlare non era una donna, ma una bambina: espressiva e ostinata. «Ti ho cercato per anni! Per anni ti ho inseguito disperatamente, ho cercato di toccare la tua schiena perché tu potessi voltarti e vedermi Urlò la kunoichi, fremente di rabbia. «Avevo sedici anni quando ho deciso di abbandonare il mio status di Principessa e dimostrare di poter vivere con le mie sole forze. Cercavo un lavoro, uno qualsiasi. Divenni ninja per sfidare mio fratello, il mio Clan e anche me stessa, ma la verità era che avrei potuto diventare fruttivendola e non ci sarebbe stata alcuna differenza. Ho voluto la strada più brutta, quella più difficile e che meno mi si addiceva, e questo perché volevo che tutti riconoscessero il mio genio.» Esitò. «E poi ho trovato te.» Tacque un istante, cercando di riportare la sua mente alla quiete, ma come un lago le cui acque erano frastornate dalle gocce di una pioggia incessante, la ragazza parve non riuscirvi. «Ero sola. Avevo passato la mia vita ad essere imboccata dalla mia famiglia, ero la buona figlia di papà capace solo di eccellere nel commercio e nella sartoria. Al tempo i miei parenti mi voltarono le spalle, credendo così di demotivarmi dalla mia scelta, che al contrario intrapresi con più ostinazione. Kuroro era distante come mai lo era stato, stava disperatamente cercando di smettere di essere il mio sostegno, e solo dopo avrei capito perché.» E pronunciare quelle parole, quel nome, bastò perché il suo volto si contraesse in una smorfia di profonda rabbia e disgusto. «Avevo solamente te. Tu mi hai preso con te, mi hai cresciuta ed educata senza preoccuparti di quale fosse il mio rango o il mio nome. Molti altri invece, all'ufficio accademico di Konoha, non si sentirono di fare ciò che hai fatto tu.» Esitò, pensando a tutti i rifiuti, le lettere di richiesta rimandate indietro. Tutte le volte in cui aveva pensato che la potenza del suo Clan potesse arrivare davvero ad influenzare anche chi, dopotutto, apparteneva ad un mondo diverso da quello civile: lo Shinobi. «Non mi interessava cosa si dicesse di te, perché tu mi volevi. Volevi me. E non perché ero la Principessa del Clan Kobayashi, ma perché ero “la tua allieva”.»

    ...Ma a quanto pareva non era mai stato così.
    A quanto pareva, infatti, non era mai stata solo “l'allieva” ma “la carne”.
    Quel pensiero, in modo probabilmente del tutto insensato, la fece ridere sommessamente. Le sue spalle, più solide di un tempo, più squadrate di quando era una ragazzina, tremarono sotto quell'ilarità dubbiosa. Le sue mani erano due pugni serrati.

    «Sei affetto da amnesia oppure hai solo una memoria selettiva?» Domandò d'improvviso la kunoichi, e le parole dardeggiarono come frecce dritte in fronte al Jonin della Foglia. «Ho cercato disperatamente di arrivare a te quando ho capito che non volevo più “solo” il rapporto “allievo-maestro”.» Alzò lo sguardo in quello di Raizen. Il suo sharingan, un bagno cremisi che a differenza del passato non sembrava più vacillare, scomparendo a suo piacimento, parve ridere dell'immagine che veniva rimandata lui di quel Colosso. «Come ho già detto ci ho provato, e adesso ricorda con me: quando io ti parlavo di come avevo ritirato il mio coprifronte, quella volta che ci incontrammo alle terme, di come aveva reagito la mia famiglia nel sapermi la migliore genin di Konoha... chiesi di te, della tua famiglia, di ciò che facesti alla tua promozione. Mi ignorasti, alzandoti e andandotene dalla vasca. A nulla valse il mio correrti dietro, insistendo.» Prima pausa. «Quando mi allenasti nella foresta fuori dal villaggio, uno dei miei primi addestramenti in solitaria con te, io mi rifiutai di parlarti della verità di mia madre, del mio essere una meticcia. Mi vergognavo di ciò che ero: una bastarda, ma soprattutto mi vergognavo di ciò che gli Uchiha avevano fatto alla mia amata madre, e dopotutto anche del fatto che lei avesse accettato tutto senza reagire. Quella volta mi sgridasti, dicendomi che dovevo dirti tutto, tutto di me, perché eravamo “allievo e maestro”. Quando però io ti chiesi della tua famiglia, di quali fossero le tue origini in quanto i tuoi lineamenti sono così strani per un kohononiano, tu mi hai risposto di non badare all'aspetto perché “a differenza del mondo in cui ero nata e cresciuta, in quello shinobi nessuno se ne curava” Seconda pausa. «Dissi di volerti venire a trovare a casa, perché volevo stare con te. Avrei portato dei mochi, preparato il tè, e giurai persino che avrei pulito... una cosa inaccettabile per una Principessa. Tu mi rispondessi, quella volta, che non avevi fissa dimora, che vivevi nella foresta. E io ci venni anche in quella fottuta foresta a cercarti. Stranamente non ti trovai.» Terza Pausa. «Avevo diciotto anni. Cominciavo a venir mangiata dal mio disequilibrio, e fu la prima volta che ottenni informazioni su di te. Era quando il Clan Uchiha voleva sigillare il mio Sharingan, ti ricordi? Tu venisti a “salvarmi” e criticasti aspramente il funzionamento dei Clan... furibonda ti urlai che un randagio come te, con un nome palesemente falso, non sa come funziona un meccanismo come quello delle grandi famiglie e quindi di tacere e chiedere scusa. Finalmente mi rispondesti che avevo perfettamente ragione, perché tu “non sai di chi sei figlio e una famiglia non ce l'hai”
    Il silenzio che cadde in seguito a quell'ultima frase fu pesante come una coltre, ma la kunoichi non parve intenzionata ad infrangerlo. Rimanendo immobile, perfettamente aderente al volto del Kage con il suo chakra, rimase in attesa che la mente del Colosso elaborasse quei ricordi, riconducendoli alla parte vera di un racconto che, era evidente, aveva comodamente cambiato a suo piacimento.
    La sua intelligenza, la sua raffinata capacità di memorizzare tutto, scoppiò in faccia al Jonin con delusione e rabbia mal celata, e solo in quel momento, forse, lui avrebbe capito quanto lei avesse sofferto, tanti anni prima, di essere così rifiutata.
    Nonostante ciò in quel momento sorrise, ironica.
    «Improvvisamente, poi, hai cominciato a sparire per mesi. Mesi.» E così dicendo contò sulle dita in silenzio, azzerandole rapidamente tutte per poi fermarsi, gelida, e riportare il suo sguardo in quello del Jonin. «Ti ho cercato ovunque. Ho chiesto all'amministrazione, in accademia. In ogni missione mi spingesse più lontano della pianura del Fuoco chiedevo di te. A Kiri. A Suna.» Fece spallucce, con sufficienza. «Niente.» Sentenziò, gelida. «Intanto io sprofondavo sempre più in basso, ma questo tu non lo potevi sapere perché negli ultimi tre anni ci siamo visti solo due volte: quella in cui dovevano sigillare il mio sharingan e ora, ed in entrambe le occasioni tu venivi a salvarmi da me stessa o da ciò che gli altri pensavano di me. Sarai certo d'accordo sul fatto che nessuna di queste due situazioni favoriscano o abbiano favorito un piacevole scambio di battute per approfondire una qualsiasi conoscenza.» Rise, alzando gli occhi al cielo. «Ci sei? Hai vagamente cancellato la tua amnesia per ricordare tutto questo?» Chiese piattamente. «Se ci sei riuscito, e spero vivamente che sia così, hai finito di fare il vittimista?» Si mise a braccia conserte. «Prima di andare in giro a dire che non ho mai chiesto di te, che non ho mai cercato di raggiungerti, puoi fermarti a pensare a quanto tu sia per me tutto ciò che inizia e finisce la mia vita da kunoichi? Puoi riflettere sulla possibilità che ad aver messo muro sei stato tu e non io? Che il “nascondere la tua fine programmazione”, il tuo “vero volto”, o anche le tue “reali intenzioni” e “veri desideri” è come allontanarti da chiunque, impedendo di essere avvicinato? Ti puoi soffermare, idiota, sul fatto che mentre tu di me sai tutto, perché ti ho sempre aperto le porte di un cuore che puoi stai pur sicuro se fossero state chiuse come dici non ti avrebbero mai permesso di essere qui ora, io di te non sapevo nemmeno che adesso puoi scodinzolare?» Domandò, accennando un sorriso, che si affilò però subito dopo in un'espressione gelida. Simile a quella di un vero Uchiha. Di un purosangue. «...Un Jinchuuriki, eh? Beh, e nonostante ciò cosa fai, parli con il tuo stomaco, Raizen?» Ironizzò. «Deve essere divertente avere un animaletto nel pancino, ora si che non sei mai solo. Insegna al tuo Bijou a saltare in cerchi e riportarti la pallina. E nel mentre a non intromettersi in discorsi che non lo riguardano.» Sibilò, gelida. A dispetto della notizia pressocché allucinante, ancora una volta la ragazza dimostrò di non aver problemi, ormai, ad adeguarsi istantaneamente anche alle più grandi follie, come diede da intendere parlando direttamente all'addome del Jonin dell Foglia. «E ora torniamo a noi, e chiariamo una volta per tutte una cosa, ti va?»

    [...] C'era qualcosa di sostanzialmente diverso in Shizuka Kobayashi. E questo non era né l'abilità da Shinobi incrementata e nemmeno la precarietà della sua mente di cui diceva essere preda.
    Ciò che rendeva quella donna diversa, in un modo che forse Raizen Ikigami non era riuscito a comprendere, era l'assoluta e abissale capacità, ora come mai prima, di essere pronta a tutto per ottenere il suo scopo.
    Al sacrificio, se necessario.

    «Ho scelto io di diventare ciò che sono.» Lo disse con semplicità quasi asettica, quasi sconcertante, ma pur sempre ragionata. Quieta. «Quando lottavo contro Karasu, quando il mio errore ha distrutto Konoha, uccidendo tutta quella gente, sono stata messa di fronte ad una scelta: cedere oppure no a “qualcosa”.» Scivolò per un istante nel silenzio, abbassando impercettibilmente lo sguardo come se la sua mente, adesso, lavorasse freneticamente nel ricordo. «Cos'è questo “qualcosa”? Ci ho davvero pensato in quel momento: una maledizione? Un destino?» Rise, scuotendo la testa. «Non esistono cose come le maledizioni a questo mondo, Raizen. Solo gli uomini maledicono gli altri uomini, o maledicono se stessi. Proprio per questa ragione non esiste nessun destino. E allora cosa rimane?» Chiuse gli occhi, e dopo un breve attimo di pausa sorrise. «Non rimane nulla. Proprio qui sta il punto. Non rimane proprio nulla.» Scosse la testa. «Gli Uchiha la chiamano la “maledizione dell'odio”, quello cioè che portò Madara Uchiha, secoli addietro, a fare ciò che ha fatto. Ciò che, andando ancora più a ritroso, ha separato nella leggenda i due fratelli figli dell'Eremita delle sei vie.» La ragazza sembrava aver studiato la lezione di storia e, simpaticamente, si rivolse nuovamente all'addome del Jonin: «Ehi volpe, te li ricordi i miei antenati, no?» Chiese, ma non si preoccupò di chiedere all'interlocutore la risposta. «Dicono che è una maledizione, ma la verità, vedi, è semplicemente diversa: le persone sono malvagie esattamente quanto sono buone. Vivono in una dualità perenne che molti non si accorgono neanche di avere, e decidono di dedicarsi all'una o all'altra parte per via dell'ambiente in cui crescono, o delle situazioni in cui maturano, o anche delle persone con cui entrano in contatto. La decisione non è mai perenne, la si può cambiare all'occorrenza. Arriva però un momento in cui semplicemente devi scegliere: di qua o di là.» Fece spallucce, grattandosi il naso. «Io ho scelto "di là".» Sorrise educatamente, accennando ad un inchino. Era teatrale, ma in un modo che non sembrava prendere in giro nessuno se non se stessa. «Voi Shinobi nascete tali. Siete educati sin dalla nascita, addestrati a resistere, a mantenervi lucidi quando un potere enorme come quello del chakra vi investe. Io invece sono nata Principessa, e nessuno mi ha mai raccontato la fiaba del mio essere per metà ninja fino a quando i miei occhi hanno messo le rotelle e sono partiti per fatti loro.» Rise di quella pessima battuta, proprio come quando era più piccola ed era sempre l'unica a ridere della sua ironia. «Ma non ti angustiare, non intendo neanche dare la colpa alla mia famiglia per avermi mentito tutta la vita impedendomi di conoscere le mie vere origini: la colpa è solo mia. Quando sono stata messa di fronte a quella scelta ho riflettuto su tutto questo, ho pensato a te, se vuoi credermi, a ciò che mi dicesti circa il rimanermi pura. Ma non ho scelto quella strada. Ho deciso di guardare dentro l'abisso e poi, ti confiderò un segreto...» E fu allora che sorrise con reale sincerità. Era un sorriso vero ma, si sarebbe accorto Raizen Ikigami, proprio per questo agghiacciante. «...non mi è dispiaciuto.» Confessò. «Tutto qua. Non c'è nessuna maledizione, nessun fato. Io ho semplicemente preso una decisione, quella di lasciar perdere la parte “chiara” della mia vita, che non è nient'altro che la mia incapacità di divenire un tutt'uno con la mia abilità innata, di accettarmi interamente come Shinobi, di assumermi i doveri del mio titolo; e di abbracciare quella “scura”, quella che uccide in nome di un qualcosa, che ora come ora devo capire cos'è, e lo fa perché indossa un coprifronte di un villaggio e fa parte di un certo tipo di mondo. Ho preso la decisione che in un momento come quello dell'attacco terroristico, mi avrebbe dato più possibilità di vita e una maggiore capacità di uccidere l'uomo che ha ridotto la mia casa ad un cumulo di macerie.» Sventolò la mano di fronte al viso, ironica. «Bau bau bau, Raizen... credi che voglia la gente morta perché ora sono “malvagia”?» Rise di cuore. «Chi è il moccioso, ora?» Lo indicò con sarcasmo. «Non sono “cattiva”. Sono “Shinobi”. Seguo un ideale, e questo è quello di proteggere le persone che amo. Voglio la gente morta, quella che mi ha fatto questo...» Indicò la sua cicatrice. «...che ha organizzato quello...» Indicò i ruderi di Konoha. «...e che ti ha indotto a credere ciò che hai stupidamente creduto fino ad ora.» E indicò nuovamente il Jonin. «Non mi interessa a chi devo appoggiarmi per raggiungere il mio obiettivo, che è ora quello di scovare Kurotempi e distruggerlo prima che lui mi porti via con sé chissà dove. Voglio strappare gli occhi a Karasu e farglieli masticare con gusto, e ridere mentre questo accade. Un tempo mi sarei suicidata, annegata nella mia stessa sofferenza, adesso invece vorrei semplicemente essere lasciata un pò in pace perché la mia mente torni tranquilla come nel momento in cui ho deciso di essere ciò che sono ora. Perché non importa quanto tu viva nell'oscurità, o che demone porti dentro, se continui a guardare in direzione della parte chiara delle cose forse non andrà tutto proprio male. Non devo essere salvata da niente, ho preso una decisione ed è quella che seguirò: non voglio principi azzurri, voglio dei compagni e degli amici al fianco di cui andare avanti. Quello, cioè, che non ho mai avuto.»

    A quel punto si zittì, evidentemente avendo terminato.
    Ad essere onesti c'erano ancora diverse centinaiai di migliaia di cose che voleva dire, a cui voleva rispondere, ma preferì concentrarsi sulle più importanti tra le tutte, perché la mente del Colosso, già minuscola normalmente (e quindi non osava immaginare adesso che doveva condividerla con qualcun altro), non perdesse di vista ciò che voleva davvero comunicargli:
    Come la leggenda che narrava della Principessa e del Demone bianco che veniva raccontata ai chioschi di cibo di strada del famoso Villaggio della Foglia, la notte dopo la dipartita del sole, lei aveva bisogno della sua Volpe come ella della sua Signora.
    Che l'una vivesse nella luce e l'altra nell'oscurità, non era poi un grande problema.


    divisore




     
    .
  13.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Admin
    Posts
    18,986
    Reputation
    +684

    Status
    Offline

    Il varo

    La tempesta travestita da marea







    Il Colosso scosse la testa, arrestandosi.

    Sai cosa? Io sarò affetto da amnesia ma tu hai un problema quasi più grave ricordi selettivamente, partecipo anche io a questo errore, ma lascia che ti ricordi delle terme, perché proprio quelle ci permettono di parlare ORA in questo modo.

    Fece una pausa, fissando i propri occhi su quelli di lei, curiosamente simili.

    Tu, mi dicesti che IO non ero la tua valvola di sfogo, che se non mi dicevi tutto era perchè evidentemente non ero la persona adatta, credimi, lo ricordo bene.
    In quel momento sei stata tu a mettere l’acciaio nel cemento che io stavo gettando, murando ogni tua possibilità d’accesso.
    Ho un modo strano di rapportarmi con gli altri, ma è questo, tu mi dicevi della tua famiglia io ti dicevo della mia, il problema è che niente di tutto questo per me era importante quanto lo era per te.
    Famiglia, difficoltà ad accettare una doppia identità e tutto il resto, per me hanno poco peso è un qualcosa a cui mi sono abituato.
    Io non sono stato cresciuto come shinobi, e lo sai, io ho saputo diventarlo, è diverso.


    La indicò, in un primo momento senza parlare.

    Guardati, di nuovo.
    E dimmi cosa è quella merda che ti va dalla spalla al fianco, è così grossa che potrebbe passarci un treno.
    Cerchi di lasciarti addosso i segni di una crescita che non ti serve puntellare.
    Non ti serve ricordarti che ora sei più grande, non ti serve ricordarlo agli altri.
    Anche perché, diciamocelo, non me frega proprio un cazzo.
    Ti ho sempre detto che uno shinobi necessitava di due vite e hai appena finito di dirmi che ne hai volontariamente abbandonato una. Sei ammezzata.


    Sentenziò con la sua tipica supponenza.

    E non me ne importa nulla se il mio giudizio è sbagliato se mi faccio fantasie e quello che stradiavolaccio pare a te. Questo si vede da fuori e questo dici.

    Sospirò torturandosi le guance con i denti mentre rifletteva, ed era chiaro quanto quella che pareva essere una decisione fosse importante per lui, più volte il suo sguardò saettò da una parte all’altra di quella cicatrice, pareva che in essa vi ritrovasse qualcosa di profondamente errato, a sufficienza da reputarla estranea a quel corpo, addirittura a questo mondo.

    Mi sono rotto di stare appeso alla faccia di questo vecchio.

    Fu il suo modo di dire a Shizuka di seguirlo mentre si spostava, la portò in una parte più silenziosa del villaggio, una piccola piazza con una fontana in ghisa al centro il cui rubinetto ormai vecchio, scandiva il tempo con l’acqua che perdeva quando il chiacchiericcio dei passanti non ne sovrastava il rumore.
    Le poche panchine a disposizione erano quasi del tutto vuote e quello spiazzo, quasi scavato tra i fitti alberi tipici di Konoha, andava ormai svuotandosi.

    E rilassati, sei troppo tesa, dopotutto sei stata brava.

    Avrebbe affermato riferendosi a qualcosa che lei, cresciuta come si credeva d’essere, probabilmente non si rendeva conto d’aver fatto.
    Sospirò nuovamente.

    C’è qualcosa oltre l’allievo e il maestro, certo.
    Siamo stati a contatto in un modo che non ci avrebbe permesso alternative allo sviluppare un rapporto diverso.
    Ma a ben pensarci, cosa è?
    Sei tu che maldestramente cerchi di sapere chi e cosa sono e sono.


    Chinò la testa mentre col pollice cercava di allisciare una piccola scheggia della panca in cui stava seduto, un piccolo gesto con cui ingannava il tempo necessario a pronunciare quelle parole volutamente caute, su cui voleva darsi la possibilità di tornare indietro prima di ultimare la frase se si fosse accorto di sbagliarla.

    E sono io che uso tutta la mia forza per rompere qualsiasi tipo di maschera tu voglia metterti addosso, da quella di una stupida bambina sulla punta dei piedi, a quella di una donna dietro una cicatrice il cui peso ormai la schiaccia. E smettila di affermare il contrario.
    Per l’inferno, smettila!
    Non esistono maledizioni, esistono solo checche smidollate dagli occhi congiuntivitici che danno parole altisonanti a scelte che il loro culo tremolante ha paura di prendere.
    Non c’è maledizione, non c’è un baratro, ci sei tu e ciò che vuoi fare di te, non raccontarmi altre storie, sono ridicole, e credimi non è un vanto, ma ne conosco davvero tante.



    Si girò verso Shizuka, il Raizen di sempre dopotutto, un po’ scompigliato ma ordinato nel complesso con quella sua divisa nera ed essenziale, che faceva risaltare i suoi capelli chiari come una cascata al chiaro di luna. Aveva un sorriso stiracchiato sulle labbra, un angolo della bocca piegava verso l’alto, marcando l’alto zigomo di quel suo sciupato dall’incuria tipicamente maschile che lasciava la barba più lunga della dignitosa rasatura a pelle.

    A me Shizuka piaceva prima.
    E non mentirmi, non dirmi che non esiste più o che è cambiata perchè cresciuta, la vedo muoversi ogni volta che apri gli occhi a sufficienza.
    Non mi infastidisce che tu cresca, che tu sia capace di uccidere, mi infastidisce che tu perda il tuo animo cristallino, era una peculiarità come si potrebbe dire, rinfrescante?
    Ora arrivi qui, ti porti dietro il tuo zainetto di odio e speri che io possa accettarlo?
    A me i cambiamenti non piacciono generalmente, diciamo una sorta di piccolo autismo, figurati quando sono in peggio che reazione possono causare. Ah no aspetta, l’hai appena visto.
    Figurati quando mi accorgo che a causarli non è una crescita spontanea ma un trauma.
    Esplodo, e non posso farne a meno.
    Esplodo quando parli di appoggiarti a qualcuno solo perché potrebbe portarti più in alto.
    Esplodo perché non vengo escluso da quel gruppo, ma soprattutto perché mi conosci così poco da pensare che potrei accettare una cosa simile.


    Dichiarò senza mezzi termini, anche se pareva lievemente risentito, seppur sicuro che fosse nel giusto era cosciente che le sue reazioni potevano essere esagerate e quando aveva l’occasione per rifletterci nuovamente poteva capitare che se ne pentisse.

    Esplodo cercando di distruggere ciò che non gradisco, e avrai notato che non mi preoccupo di ciò che c’è tra l’esplosione e l’obiettivo.
    Non voglio credere che tu sia così stupida da aver buttato te stessa così lontano da non poterti ritrovare, saresti solo l’ennesima baldracca con quattro kunai per mano, una kunoichi tra le kunoichi.
    E credimi, non sarei in grado di vederti nemmeno se quei tuoi stupidi occhi diventassero grandi quanto le ruote di un carro.


    Appoggiandosi sullo schienale della panchina parve trovare del sollievo da tutti quei piccoli gesti di autodistrazione.

    Non era divertente vederti inciampare, arrossire e tutte le altre cose da Shizuka era… bello.
    Si poteva percepire che quel placido soffio di vento sarebbe stato in grado di trasformarsi in uragano a comando.


    Pronunciò l’ultima parola con un candore innaturale per lui, sottolineando in quel modo quella che per lui risultava essere l’unica parola degna di concludere quella frase.

    Mi sono allontanato per mesi e mesi perché lontano mi ha portato il mio lavoro.
    Sai cosa è successo mentre tu giocavi con i tuoi petardi?
    Ero in una piccola isola sperduta nel mare tra Kiri e Konoha, combattevo delle strane creature, abomini, particolari esperimenti che portavano gli esseri umani a tramutarsi in bestie assoggettati da un'unica mente, il loro creatore e padrone.
    Alcuni erano così forti che mi hanno messo KO, mi hanno imprigionato e torturato.
    Eppure ne sono uscito, ho portato con me gli altri prigionieri e ora sono qui, senza cicatrici, ma con dell’esperienza comunque preziosa.
    Ah. E non precipitarti, da allora sono diventato decisamente più forte, temo molte cose non sarebbero accadute con le capacità attuali.
    Questo per dire che non sono un vittimista, semplicemente tutto ciò che ho fatto da quando ti ho prelevato da casa tua doveva portare a questo in qualche modo, se lo fossi stato a quest’ora sapresti cosa è accaduto in quell’isola, invece no.
    Per dire cosa?
    Quella cicatrice è orribile, non te la meriti.


    Si alzò quasi di botto, seguito da lamento di qualche bullone che protestava per quell’irruenza, tendendo la mano a Shizuka, esattamente come la ricordava, grande eppure non tipicamente gonfia come lo erano le mani dei lavoratori, nodosa nelle giunture ma snella e agile, forse qualche callo in più dovuto al lavoro in fucina di cui tuttavia la sua allieva non sapeva nulla, una mano forte, al suo interno quella di Shizuka si sarebbe quasi persa, piccola, come sempre.

    Vieni.

    La invitò con uno sguardo che non tradiva la nuova marea che quelle parole avevano portato, se era vero che l’allieva voleva un’altra possibilità così come le sue parole chiedevano, appositamente per lei era sorta una nuova gravità per innalzarne una sufficientemente grande da sommergerla, si sarebbe opposta?
    Come sarebbe riuscita da quella placida tempesta?
    Se avesse accettato l’avrebbe tratta a se avvicinandosi al suo orecchio, in caso contrario sarebbe scattato in avanti con un mugugno poco dopo aver alzato gli occhi al cielo in segno di scherzosa noia.

    Senza Shizuka non ci sarà MAI Raizen.

    Se la sua allieva voleva dei compagni era vero che Raizen voleva qualcosa che credeva essere suo, qualcosa che a torto o ragione si prendeva i meriti di aver scoperto, dietro strati di piccole e grandi bugie, dietro muri di invalicabili divieti, dietro famiglie oppressive, dietro maschere di repressione: Shizuka, quella per lui vera, bianca e pura sotto la luna e non rossa di fiamme tra le tenebre.

    E spegni quelle ridicole rotelle.

     
    .
  14.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Y Danone
    Posts
    8,529
    Reputation
    +561

    Status
    Anonymous

    T O G E T H E R:
    Coming together is a beginning; keeping together is progress; working together is success.

    Shizuka Kobayashi and Raizen Ikigami.




    divisore




    "E rilassati, sei troppo tesa, dopotutto sei stata brava."



    Shizuka Kobayashi era allieva di Raizen Ikigami da quando aveva sedici anni.
    Molte volte, durante quel lasso di tempo, aveva pensato che qualunque cosa avesse fatto non sarebbe mai riuscita a incontrare il benestare di quell'uomo, che continuava a svilire ogni suo tentativo di miglioramento come il vaneggio di una bambina, niente più che il capriccio di un principessina viziata. Crescendo, poi, la sua strada si era divisa da quella di lui.
    Finalmente capace di comprendere le sue abilità, la sua potenzialità in quel mondo che non aveva mai guardato interamente, aveva deciso cosa fare di sé e come valorizzarsi, divenendo così una risorsa e non un deterrente, come in verità aveva sempre temuto di essere. Quella decisione l'aveva condotta a cercare nuovi maestri, perché il suo desiderio di apprendimento trovasse finalmente in qualcuno una risposta sincera.
    Mai una volta, in tutto quel tempo, aveva pensato però che se anche fosse diventata Hokage, Raizen l'avrebbe avvicinata per complimentarsi. Mai.

    Per un attimo tacque.
    Valutò di sbagliare la sua constatazione, di peccare di presunzione a ritenere che quel complimento si riferisse alla sua crescita interiore –forse dovuta al concepire il suo sacrificio nel bene del villaggio, o forse semplicemente nell'accettare se stessa come la shinobi che non aveva mai creduto di poter diventare– o persino la sua capacità di essere riuscita a colpirlo –niente più che una fantasia fino ad appena un anno prima. Suo malgrado, come una bambina che finalmente viene accettata dal genitore, che le accarezza la testa per la prima volta, la ragazza non poté fare a meno di arrossire.
    Fu appena un secondo, che lei vide bene di nascondere mentre seguiva il maestro giù dai volti di pietra dei Kage, ma Shizuka Kobayashi arrossì, sorridendo. Nella piccolezza di un'espressione tanto breve vi erano anni di attesa finalmente compiuta.
    ...Ma lei, che dopotutto era realmente la Principessa dell'orgoglio, non disse assolutamente niente in proposito.


    "E sono io che uso tutta la mia forza per rompere qualsiasi tipo di maschera tu voglia metterti addosso, da quella di una stupida bambina sulla punta dei piedi, a quella di una donna dietro una cicatrice il cui peso ormai la schiaccia. E smettila di affermare il contrario.
    Per l’inferno, smettila!
    Non esistono maledizioni, esistono solo checche smidollate dagli occhi congiuntivitici che danno parole altisonanti a scelte che il loro culo tremolante ha paura di prendere.
    Non c’è maledizione, non c’è un baratro, ci sei tu e ciò che vuoi fare di te, non raccontarmi altre storie, sono ridicole, e credimi non è un vanto, ma ne conosco davvero tante"




    La piazza in cui Raizen l'aveva condotta puzzava di abbandono, con quelle panchine scricchiolanti –su cui si vide bene di sedersi– e la fontana rotta, nonostante ciò per la ragazza quel luogo avrebbe potuto essere il più accogliente di tutto il Villaggio, e non vi era probabilmente nessun motivo ragionevole dietro quella sensazione se non il semplice fatto di essere di nuovo con il suo maestro.
    Come la Luna e il Sole che si incontrano solo nei brevi momenti del Crepuscolo, dando vita a panorami e colori rari e meravigliosi, pareva che non esistesse il reale splendore della Principessa senza la presenza della maestosa Volpe.
    «Senti, sei diventato Jinchuuriki non deficiente.» La voce della kunoichi si sarebbe fatta largo nel silenzio leggermente venata di stupore, come avrebbe confermato l'espressione di lei, perplessa e interdetta. «Ho detto queste stesse cose proprio mentre eravamo appesi lassù.» Disse indicando il volto dei Kage. «Ho già detto che sto cercando di mostrarmi con sincerità al mondo, per quella che sono, senza nessuna maschera; che non esistono maledizioni, che quindi io non sono affatto maledetta o chissà che altro, ma ci sono solo io che ho preso una serie di decisioni, che accetto e di cui mi assumo la piena responsabilità...» Inarcò un sopracciglio, stupita, mettendosi poi a braccia conserte. Vi era in lei, nella movenza e nella mimica facciale per esempio, un qualcosa di molto simile al Colosso, da cui sembrava aver preso non solo la rudezza del linguaggio o dei gesti, ma molto di più, come se lo studio che avesse effettuato sul suo maestro affondasse le radici in lunghe osservazioni silenziose. «...non ripetere ciò che ho già detto per fingerti intelligente, lo so io e lo sa la tua kitsune che sei cresciuto solo nel fisico e poco nel cervello.» Disse, facendo roteare gli occhi al cielo. «Mi ascolti quando parlo o fai finta, giusto per...?» E così dicendo sospirò stancamente, come una madre alle prese con un figlioletto problematico.
    A quel punto, però, si zittì. Senza dire più una sola parola la ragazza ascoltò tutto il lungo discorso del suo maestro, su ciò che pensava di lei, su ciò che aveva fatto mentre lei lo cercava senza trovarlo, e mentre egli parlava lei si limitò ad aprire la sua sacca a tracolla, la stessa che Ritsuko le aveva messo addosso prima che se ne andasse. Al suo interno vi trovò le deliziose focacce di riso di Mayuko, dell'acqua, e con suo grande stupore un coltello a serramanico a doppia lama, due cartabombe e un rotolo di spago trasparente. L'essenziale per un diversivo, o per un omicidio. Sorrise tra sé e sé, abbassando lo sguardo.


    "Quella cicatrice è orribile, non te la meriti."




    Aveva gli occhi chiusi, in mano una delle focacce di riso ripiene e il suo volto, affascinante come quello di una Principessa di altri tempi, ancora sorridente.
    «Non è questione se io la meriti o meno.» Rispose, riportando solo a quel punto gli occhi su Raizen. «Non porto con me questa cicatrice perché tutti possano vedere quanto sono tosta o quanto sia afflitta dell'accaduto, a me di quello che la gente pensa non può importare sinceramente più nulla. Faccio solo ciò che trovo giusto, e facendo così saprò di non dover temere il giudizio altrui in quanto il mio scopo è sempre e solo proteso a ciò che c'è di corretto in questo mondo di merda. Pertanto questo è giusto.» E così dicendo si portò una mano al petto, indicandosi la cicatrice. «Questa è la mia storia, Raizen. E' il mio corpo che vive, che si segna, che invecchia. Sono le decisioni che prendo che mi rendono ciò che sono, è quello che faccio che mi plasma in ciò che vedi.» Scosse la testa. «Muto il mio aspetto nelle missioni perché questo sfregio non si veda se è quello che ti angoscia, ma cambio anche di modo che i miei capelli diventino biondi, o rossi o neri... perché i miei occhi cambino di colore, il mio linguaggio di cadenza, l'inclinazione della voce si faccia più scura o più acuta. Plasmo me stessa a seconda della situazione, e non perché io indossi una maschera, come credi, ma perché sono la ricercata da un gruppo terroristico di cui nessuno sa niente e non posso rischiare di compromettere la sicurezza di Konoha, o l'incolumità della mia famiglia, più di quanto già non sia. » Tacque per un istante. «Non ho intenzione di morire. Mentre ci stavo riuscendo ho capito che non mi piaceva quella sensazione, quindi ho visto bene di rimandarla.» Fece spallucce, e a quel punto addentò la sua focaccia. Il riso le si appiccicò agli angoli della bocca come quando era più piccola e lo stesso Raizen era costretto a pulirle il viso inveendo. «Tu non ascolti proprio un tubo di quello che dico eh?» Sghignazzò, deglutendo rumorosamente. In un solo boccone trangugiò il restante pezzo di focaccia. A quanto pareva l'appetito proverbiale del pozzo nero di Konoha non era del tutto svanito. Era ancora incredibile quanto diavolo mangiasse (e poi si lamentava dei fianchi grossi...). «Ogni Shinobi vive nell'oscurità, che lo ammetta oppure no: uccidiamo, mentiamo e ci vendiamo all'offerta migliore. Io ho semplicemente deciso di rendere questa cosa, ciò che ho sempre considerato un problema, il mio punto di forza.» Prese un'altra focaccia, una per sé e una per il Jinchuuriki. Gliela lanciò senza troppi complimenti. «Posso sedere nella parte scura delle cose, ma ho anche detto che tale condizione è reversibile. Ognuno di noi può decidere di camminare avanti e indietro sulla stessa strada, no? E' un po' la stessa cosa. Mi ascoltavi prima o facevi solo finta?» Addentò il secondo spuntino, continuando a bocca parzialmente piena. «Il mio Sharingan mi influenza in un modo che non saprei ben definire, potremmo dire che tira fuori il peggio di me... che sia una maledizione o solamente una potenzialità latente così grande da rendermi incapace di controllarla non ne ho idea, so solo che ho qualche problema a gestire la rabbia ora come ora.» Sorrise educatamente, grattandosi la testa. «Non posso essere la bambina di un tempo, Raizen, come tu non puoi più essere il ragazzo che eri tanti anni fa, ma nessuno ha mai detto che ciò che sono ora non sia Shizuka.» Si infilò in bocca il restante pezzo di focaccia e a quel punto si leccò anche le dita. Sembrava tentata di prendere la terza pagnottella, ma esitò. «Shizuka è sempre e solo una, e per quanto cambierà la base rimarrà sempre la stessa. Nessuno dimentica realmente ciò che è. Ah si, un'altra cosa: non odio il mondo, non voglio la gente morta a caso. Questo mondo mi fa schifo, è vero, perché è marcio, ma non mi pare di aver mai detto che non è possibile cambiare le cose. Voglio la gente morta? Si, quella che vuole morta me. Dovrei offrire loro un tè? Stringere la mano e perdonare? Raizen io voglio vivere e non credo di aver fatto niente di male perché qualcuno voglia impedirmelo. Non so nemmeno perché mi danno la caccia, gli Dei li perdonino.» Alla fine parve decidere che fosse meglio bere e non continuare a ingozzarsi. «Non siamo bambini, siamo Shinobi. Qui la gente ti uccide e purtroppo non sempre hai modo di fermarti a parlare e chiarire. Se devo decidere se morire o uccidere per prima, preferisco uccidere per prima ma...!» Alzò una mano a fermare qualsiasi replica o sproloquio del ragazzo. «...ma ovviamente ogni situazione deve essere valutata a modo suo. In questo caso però, per quanto riguarda Kurotempi intendo, temo che non sia necessario stare troppo a chiaccherare. Ucciderò Karasu, che tu voglia oppure no, posso al più dare una possibilità di spiegazione a Kuroro il giorno in cui lo troverò, anziché strappargli subito il cuore dalla tassa toracica per ciò che ha fatto alla mia famiglia.» Sorrise con rinnovata educazione, e a quel punto fece spallucce. «Non puoi farmi sentire in colpa perché quando cammino non inciampo più sui miei stessi piedi o non mi arrabbio di fronte alla tua malizia. Dovresti solo sentirti colmo di gioia che nonostante il cambiamento che ho affrontato, io tenga a te esattamente come quegli anni in cui, zampettandoti dietro, sbattevo il naso sulle tue gambe.»

    "Vieni"



    «Eh, ora non allarghiamoci, Kitsune... cosa penseranno le persone del Villaggio a vederci mano nella mano come due sposini?» Ridacchiò, piazzando la sua mano in quella di lui. A differenza di ciò che ricordava lo Shinobi, la mano della Principessa non era più piccola e cicciottela, ma callosa e affusolata, delicata come se fosse abituata a lavori aggraziati e silenziosi. Piccole cicatrici bianche si erano fuse con il colorito pallido della carnagione.

    "Senza Shizuka non ci sarà MAI Raizen"



    «E' un modo carino per dirmi che mi offri la cena...?» Insinuò. Ed in effetti il gorgoglio di sottofondo a quella scena non era la fontana rotta, ma lo stomaco della ragazza. «Perché ho giusto un po' di fame...» Protestò, leccandosi le labbra. «Ah, e passiamo anche dal negozio di Mariko nella sesta strada. Non si è mai visto che vado in giro senza trucco, Santi Numi, se mi vedesse qualcuno in queste condizioni potrei davvero andarmene con Kutempi senza più preoccuparmi di niente.»
    Era civetta. Civetta in un modo tipicamente femminile, una caratteristica che in passato non aveva mai denotato ma che, ora, sembrava governare molta della sua attenzione.
    Era cambiata, è vero... ma la Principessa di quel giorno, che si presentò ad un corso Genin in furisode, con geta smaltati e un'ombrellino parasole laccato di rosa, a quanto pareva, sopravviveva ancora. Vanitosa e pretenziosa.

    "E spegni quelle ridicole rotelle"



    «Al diavolo, lo avrei fatto anche se non me lo avessi detto. Hai idea di quanto sia difficile controllarsi con sti lampeggianti accesi?»

    Già.


    divisore




     
    .
  15.     Like  
     
    .
    Avatar

    Group
    Admin
    Posts
    18,986
    Reputation
    +684

    Status
    Offline

    Come nuova







    Ci aveva provato, era indubbio che ci avesse provato, l’aveva fatto e ci aveva speso tutte le parole possibili, per un'unica ragione: voleva esser certo che tutto il necessario passasse e nulla rimanesse all’esterno, nuovamente gli era stato chiesto e nuovamente aveva dato questa volta senza alcun freno.
    Il tutto senza alcun ritorno, il tutto per trucchi e cibo.
    Per quanto non lo desse a vedere il Colosso era paziente, non con tutti, ma sicuramente con Shizuka, riusciva a dare il meglio di se da quel lato, ma probabilmente anche in quel frangente l’un l’altro avrebbero trovato da ridire su quanto, come e perché.
    Come poteva essere riuscita ad ignorare tutto ciò che di suo aveva messo in quelle parole?

    Sarai scemo, ed è innegabile, ma se tanto mi da tanto lei è la tua degna allieva.

    Qualcosa nella voce del demone era totalmente sbalordito, e qualcosa in Raizen, per quanto un lato di se stesso non volesse ammetterlo, si era incrinato definitivamente.
    Tastò la mano di Shizuka col pollice, era diversa, non poi troppo, ma dove prima era presente la pelle morbida che si confaceva a quella persona con cui Raizen non era in grado di perdere la pazienza, ora stavano dei ruvidi calletti, propri della persona cambiata o cresciuta, che aveva dinnanzi.
    Avrebbe voluto portarla a conoscere gli anni che non si erano visti, gli avrebbe raccontato tutto ciò che voleva, ma quel così grande desiderio di conoscerlo pareva non fosse così impellente.
    Doveva forse prendere atto di quel cambiamento?
    Non voleva credere alle sue orecchie, ad ogni costo, e pur di non accettare il cambiamento e ciò che sentiva avrebbe preferito escluderlo, lasciare che accadesse senza che lui lo percepisse.
    Avrebbe stretto tra le sue mani quel ricordo, emozione, sentimento o qualsiasi cosa essa fosse, senza cederlo a nessuno fino al momento opportuno, che la sua forza servisse ad altro, oltre che a prendersi la vita di chi desiderava.
    Sospirò mentre rilasciava la mano, deluso da quell’ennesima prova di totale disinteresse.

    Non sei pronta a me Shizuka, ne a ciò che chiedi, ne a ciò che potrei darti.
    Probabilmente, non lo sarai mai, e mai sarai in grado di comprendere ciò che è invisibile agli occhi.
    Sarai anche cresciuta, ma l’hai fatto lontano da me.


    Gli accarezzò il volto struccato con una gentilezza inconsueta, consapevole che se mai si fossero rincontrati quella scena si sarebbe ripetuta come sempre: stessa intensità, stesse emozioni, stessi caratteri.
    Forse con un esito diverso, forse no. Dopotutto nessuno, nemmeno Raizen stesso, avrebbe saputo dire quante volte ancora avrebbe potuto perdonare quella ragazza.

    Quando vorrai riprovare cercami, ma fallo seriamente.
    E fallo se ci tieni, prima o poi perderò la pazienza, e non urlerò più.


    Sorrise, aspettando qualche istante prima di lasciarsi affondare nella terra, sparendo.



    Edited by F e n i x - 15/2/2015, 00:11
     
    .
29 replies since 25/11/2014, 23:45   363 views
  Share  
.