Messa a punto

Perfezionamento di un ninja [Villa Kobayashi]

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    Ever tried. Ever failed. No matter. Try Again. Fail again. Fail better.




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    Non ci avrebbe pensato neanche un secondo. Nemmeno uno.
    Alzando la mano, la stessa che Raizen le aveva lasciato, la ragazza si sarebbe girata e con tutta la forza che avrebbe avuto a raccolta in quella breve frazione di secondo avrebbe cercato di colpire in faccia il Jonin con un ceffone.
    Ferma al suo posto, con gli occhi sgranati e la bocca schiusa, adesso sembrava allibita. Della gioia, mal celata e piuttosto infantile, che la illuminava un secondo prima mentre faceva programmi e dava idee, non c'era più traccia.
    «Ora basta.» Ordinò, rigida. Parve esitare, quasi confusa. Compì un passo indietro, ma subito lo annullò, ritornando a portarlo avanti. «“Non sono pronta a te” Domandò, sconvolta. «“Quando vorrai provare di nuovo a cercarmi fallo seriamente” Pronunciare quelle frasi sembrava difficile come poteva esserlo ripetere a memoria qualcosa che non si comprendeva. «Sono anni che ti aspetto... cosa diavolo vorrebbe dire che non sono pronta? Se non lo sono ora, hai detto bene, non lo sarò mai.» Corrugò la fronte, reclinando leggermente la testa indietro in un'espressione smarrita, chiaramente incapace di capire. «E poi cosa diavolo vuol dire che non sono pronta a te? Chi maledizione ti credi di essere?» Esitò di nuovo, riportando i suoi occhi in quelli del Colosso. Il suo Sharingan ancora attivo lentamente si delucidò, schiarendosi, perdendo il suo colorito oscuro per cadere nell'oceano primaverile delle iridi verde smeraldo della ragazza. «Sei TU che non sei pronto a me. Io sono pronta ad accettare ogni cosa tu sia, tu voglia o tu faccia da quando avevo sedici anni. Tu invece guardarti, mi osservi come si potrebbe squadrare qualcuno di estraneo di cui si conserva un vago ricordo.» Si portò una mano alla fronte, poi tacque un attimo. Le sue mani, adesso, tremavano. «...Cosa ho fatto che non va, stavolta? Non ti ho dato abbastanza credito sulle tue parole? Speravi che le commentassi una per una? Pensi che un oceano di incomprensioni, anni di distanza, possano essere affrontate tutte insieme con sistematica precisione?» Indietreggiò, stavolta sul serio. Sembrava colpita, ma non in modo positivo. «Se tu sei in grado di capire subito cosa vuoi dirmi, confessarmi, e sei anche così bravo da sapere già come rispondermi, sappi che io sto cominciando ora a rendermi conto che sono fuori di casa e che, diavolo, sono struccata e con le scarpe peggiori di tutte.» Ruggì, indicandosi i piedi. Un paio di stivaletti color vomito di gatto marrone la vestivano fino alle caviglie, e in effetti non era un bel vedere. «Le persone non hanno i tuoi tempi Raizen, non ragionano come te, NON SONO te. E tu non puoi fare una colpa a tutti per questo. Non puoi punirmi, sparendo chissà dove per l'ennesima volta dopo esserti infilato nella mia vita da capo, solo perché non ho risposto all'idea che ti eri fatto di questa conversazione.» Era frustrata, a disagio. Sul suo viso, al lato sinistro della bocca, c'era ancora un chicco di riso della focaccia mangiata poco prima. «Hai pensato che magari non riesco ad elaborare tutto così velocemente? Che ho bisogno di tempo? Che la mia mente è stanca?» Il suo tono di voce cominciava ad alzarsi. «Ti viene in mente che è quasi ora di pranzo, e che se mi dici “Vieni” io propongo il posto più indicato per parlare, rilassarsi e stare con un amico: un ristorante? Ti puoi concentrare sul fatto che sono anni che ci conosciamo ma non siamo mai stati insieme senza uno scopo preciso, e che certe volte si può provare piacere a coinvolgere chi si ama in ciò che ci piace fare e che riteniamo importante... che nel mio caso può essere comprare dei trucchi per rendermi bella, perché sai, tutto questo...» E si indicò: il volto, il corpo formoso, i vestiti. «...non è proprio che mi sveglio così la mattina, sai.» Commentò, offesa. «Non so tu cosa volessi fare, o come avresti voluto passare il resto della giornata, ma se tutto questo grande baraccone che abbiamo messo su era con lo scopo di conoscerci da capo, per imparare ad amarci di nuovo, per quello che siamo ora, potevamo certo fare qualunque cosa, la stessa che pensavi forse tu; ma anche stare semplicemente insieme, mano nella mano, godendo della presenza l'uno dell'altra, felici di stare vicini... non era un'idea così malvagia.» Tacque per qualche attimo. I suoi occhi verdi si abbassarono, tradendo per un attimo una lucidità eccessiva.. subito dopo, però, erano di nuovo alti. Fieri. Orgogliosi. Offesi. Non vi era tempo per le lacrime per la Principessa di Konoha. «Smettila di scappare ogni dannatissima volta, non è così che azzererai la distanza tra noi. Se non vuoi andare al ristorante di Goro va bene da qualche altra parte, se non ti è andata giù come ho reagito dimmelo, se ti fanno schifo i miei stivali prendimi in giro. E' così che fanno gli amici. Ed è così che, lentamente, stando accanto all'altro, se ne accetta tutto, e si scopre di amarlo.» Scosse la testa poi allungò la mano, di nuovo. «Ti devo insegnare tutto? Potresti diventare tu mio allievo...» Accennò ad un sorriso, continuando a tenere la mano protesa nel vuoto, in attesa. Solida ma incerta allo stesso tempo. «...anche se ora con quell'animaletto nello stomaco credo sarebbe ancora più difficile gestirti.»


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    Sulla griglia di partenza








    Aveva intenzione di allontanarsi, di sparire per un po’, come faceva solitamente.
    Nonostante tutto pareva che il suo istinto conoscesse Shizuka meglio di quanto non lo fosse la sua parte cosciente.
    Vide il ceffone arrivare, e senza smettere di sorridere indietreggiò, evitandolo. Probabilmente dopo quel gesto il viso di Raizen o quantomeno il suo sorriso erano diventati un po’ più sinceri, dopotutto quella reazione stava a significare che qualcosa aveva smosso per generare un simile risentimento.

    Ora non esageriamo eh, un cazzotto passa pure, ma un altro ceffone no.

    Sentenziò senza la volontà di interromperla prendendo di petto l’intera sfuriata, ma senza rifletterla, anzi, assorbendola quasi con piacere. Nonostante dovesse essere un rimprovero, uno sfogo per qualcosa di negativo che lui stava per fare l’unica cosa che riusciva a percepirne era limpida e per nulla celata: interesse.
    Non arretrò, non avanzò, non mosse un muscolo fino a che non gli venne tesa la mano, momento in cui distese la gamba destra, senza troppa fretta muovendo un passo volontariamente lento che si concluse con un piccolo scatto che portò Raizen ad aumentare lievemente la velocità rispetto a quel primo movimento mentre con passo morbido girava intorno all’allieva.
    Una sottilissima risata animava la sua cassa toracica che tuttavia si smorzava una volta arrivando al viso, riuscendo a sollevare solamente gli spigoli della bocca in un malizioso sorriso.

    L’ha detto. Ho sentito pure io.
    Si è sentito fin quaggiù.


    La squadrava senza parlare mentre, passando alla sua destra, poi alle sue spalle si fermò alla sua sinistra, calandosi lievemente verso il suo orecchio.

    Non so cosa tu crede di aver detto, ma son più che sicuro di aver sentito “amarci”.
    Ora, non che io sia intraprendente come te che corri subito al nocciolo della situazione ma dopo una piccola ispezione direi che l’affare si può sicuramente fare.


    Sussurrava, con una voce baritonale che era costretto a tenere al guinzaglio per renderla burrosa quanto bastava da essere suadente, con un piccolo accenno di dolcezza.
    Una ricetta perfetta.

    Mi piace come sei cresciuta non c’è dubbio.

    Dopo quelle parole una sonora pacca sulle natiche avrebbe quasi alzato di peso Shizuka mentre la mano di Raizen, grande abbastanza per non accontentarsi di una sola natica, vi impattava con una briosità che aveva ben poco di amici e parecchio di libidinoso.
    Si sarebbe ritratto subito dopo alzando le mani in segno di scuse nel caso molto probabile in cui la sua chioccia gli si fosse ritorta contro, pronto ad evitare qualsiasi rivalsa fisica.

    Ei ei ei!
    Calma calma!
    Ma mica sono io quello che ha frainteso, eh!
    Ci sento benissimo, vorrei dirtelo!


    Continuando a mantenere una volto innocente avrebbe continuato a parlare, seppur per sua stessa volontà si notasse quanto gli occhi fossero maliziosi.

    Poi, se crescendo hai imparato a far parlare il tuo cuore prima del tuo cervello e non controllare cosa ti esce di bocca non è mica colpa mia.
    Ma sai.


    Fece una piccola smorfia di accondiscendenza.

    Io sono un tipo a cui piace l’azione, in questo genere di cose vado dritto al punto, solo che al contrario tuo poi non pretendo di fermarmi alle sole parole.

    La risata fino a quel momento sopita avrebbe iniziato a galoppargli nel petto, scoppiando fragorosa e sincera per qualche secondo, fino a sfogare l’ilarità di quel momento.

    Scherzi a parte.
    Sempre che di scherzi si possa parlare, ma posso concedertelo, senza tuttavia dimenticarlo.


    Riprese sciorinando l’ultima frase rapidamente, come un monito scritto in caratteri microscopici a fondo del bugiardino di un farmaco.

    Vai stimolata continuamente, devo ammettere che non sempre ne sono cosciente e spesso agisco semplicemente per tutelare me stesso in una maniera o nell’altra.
    Non so se qualcosa dentro di me sa come farti funzionare, oppure sei tu che arrivata ad un certo limite funzioni come piace a me.
    Sta di fatto che arrivati a quel punto siamo sincronizzati.


    Prese la mano di Shizuka, con la certezza di chi decideva come e quando fare le cose.

    IO decido quando prenderti la mano.

    Assicurò la presa, facendo scivolare le proprie dita tra quelle della principessa Kobayashi, con la gentilezza di chi era consapevole delle proprie dimensioni e non volesse arrecar danno con esse.

    Niente trucchi, se proprio ti da noia userai la trasformazione, andremo dritti a prendere da mangiare.
    L’unico posto in cui ti accompagnerò per un make up sarà l’ospedale per toglierti di dosso quella traccia di aratro che hai tra i seni.
    Comunque, direi della carne e del pesce alla griglia con qualche raviolo alla piastra, così potremmo portarli via, non ho voglia di stare in un ristorante, ma da quando hai schiodato le labbra ho un buco allo stomaco.
    Credo sia un contorto meccanismo di difesa della mia mente.





    Avrebbero seguito la stretta tabella di marcia e dimezzate le proviste alimentari di uno dei negozietti più saporiti della via principale di Konoha, Raizen avrebbe composto un singolo sigillo, attivando quello che probabilmente era un richiamo inverso.
    In un tempo inferiore all’istante si ritrovarono al buio, l’unica tenue fonte di luce erano dei tizzoni soffocati dalla cenere e poco distanti da essi un qualcosa di semisferico che dal colore pareva essere incandescente.

    Casa.

    La parola accese sul soffitto un pugno di lanterne in carta di riso, legate disordinatamente ad altezze differenti, un lavoro raffazzonato di un uomo che badava poco all’ordine e molto alla praticità. L’effetto finale non era però sgradevole, la calda luce scendeva dalle lanterne illuminando uniformemente la pura roccia marrone dentro cui quello spazio era ricavato, il soffitto annerito dal fumo invece contribuiva a far apparire le piccole lanterne come cubetti di luce sospesi nel nulla.
    La luce rivelò che i tizzoni stavano dentro ad una fessura tra due enormi massi, probabilmente quello che in una residenza così raffinata poteva definirsi camino, mentre la semisfera incandescente pareva essere una forgia, affiancata da un piccolo rivolo d’acqua deviato in quel punto attraverso un metodo che non era possibile dedurre ad una prima occhiata.

    Oddio, non proprio casa, diciamo che è il mio laboratorio e a volte ci passo la notte per comodità.

    Ed infatti si poteva notare un materasso ed un cuscino abbandonati su una rete senza nessun tipo di lenzuola a coprirli, un piccolo gesto permise a Raizen di nascondere un quadernetto sotto a degli strumenti di lavoro, un libretto decisamente troppo prezioso per mostrarlo agli occhi di chiunque.

    Inizia pure a prendere qualcosa da mangiare, immagino che mentre guardi tu riesca a muovere la bocca per masticare.

    Seguito a sua volta il consiglio con un gesto della testa indicò l’uscita a Shizuka, un buco nero tra le pareti in pietra, abbastanza grande da essere paragonato ad un cancello.
    All’esterno della grotta, se così poteva chiamarsi quella grossa stanza ricavata da due massi franati l’uno sull’altro, ve ne stava un terzo, in salita che gli faceva da rampa d’accesso, al suo apice si stendeva uno dei pochi spazzi liberi dagli alberi dei territori della foglia, una prateria mossa da più di un riflesso metallico.

    In tutto il tempo che non ci siamo visti ho fatto anche questo.

    Tese la mano verso l’aperto, indicando un punto indistinto, se messo a fuoco il terreno si sarebbe potuto notare che quei bagliori erano spade, una miriade di spade, dalle più svariate forme e dimensioni, qualcuno conficcata nel terreno più dell’altra, quasi come fossero delle croci.

     
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    The home should be the treasure chest of living.

    Raizen Ikigami's home




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    «Ti denuncerò alla Polizia di Konoha per molestie sessuali.»



    Sorrideva.
    Ferma al suo posto, con una mano istintivamente portata a tutelare il suo sedere, la ragazza sorrideva con freddezza. E sarebbe stato uno sguardo davvero tagliente, quello, se solo la poveretta non fosse nel mentre arrossita fino alla punta delle orecchie. Il suo viso, così maturo e adulto ora, aveva la stessa espressione di quando, tanti anni prima, veniva presa in giro e si offendeva mortalmente.
    «Sei nato cento anni in anticipo per poter pensare di tenermi con te.» Sibilò la donna, alzando una mano a placare qualsiasi risposta. Adesso si era fatta maliziosa. «Non sapresti gestirmi, sono un po' troppo per te.» E aggiunse affilata: «Sei grosso, ma non nei punti giusti. Torna quando l'affare si potrà davvero fare, per ora aspettati solo l'arrivo della polizia e arrenditi senza opporre resistenza.» A quel punto, mettendosi a braccia conserte, fu lei a scoppiare a ridere.
    A differenza di tanti anni prima, quando il solo ipotizzare un tenero bacio la faceva scoppiare in crisi colleriche di imbarazzo, adesso sembrava che la donna sapesse cosa dire, come se quel genere di circostanze non le fosse più nuovo. Niente di cui stupirsi, Shizuka Kobayashi era un'infiltrata, e come tale l'educazione che aveva ricevuto per ottenere il massimo profitto dalle sue missioni consisteva non solo in una preparazione tecnica raffinata, ma in gran parte anche nel frequentare il quartiere rosso del Paese del Fuoco, in cui la sua “mama” l'aveva cresciuta all'arte della seduzione e del sesso.
    Alzando gli occhi al cielo, la kunoichi sospirò, facendo infine spallucce quando le sue risate si furono placate.
    «Non ci hai mai provato con me, ti confesso che da ragazzina credevo addirittura di non essere attraente visto che bene o male uno sguardo alle altre donne lo lanciavi sempre, ma a quanto pare doveva solo aumentarmi il seno e il mio corpo diventare più sinuoso per entrare nelle tue grazie... quanto sei prevedibile.» Rise ancora, scuotendo la testa. «E comunque avere il seno così grosso è un problema, mi dà noia per la verità, sai, non so cosa voi uomini ci troviate di speciale, nel senso, è solo carne...» Disse a quel punto, toccandosi il petto senza pudore. Era evidente che tutti gli insegnamenti di Raizen sul doversi considerare solo una “shinobi” e non una “femmina” –probabilmente idee maturate nella speranza di farla diventare un po' meno principessa e un po' più combattente– avevano cresciuto quella ragazza in un modo abbastanza storto che, in determinate circostanze, la rendeva un maschio nel corpo di una donna fatta e finita. A quanto pareva le voci che davano Shizuka Kobayashi come la versione femminile di Raizen Ikigami erano, in un certo qual senso, fondate.

    Non so se qualcosa dentro di me sa come farti funzionare, oppure sei tu che arrivata ad un certo limite funzioni come piace a me.
    Sta di fatto che arrivati a quel punto siamo sincronizzati



    «Lo siamo sempre.» Si limitò a rispondere l'altra, sospirando e lasciandosi prendere la mano come una bimba. «Ma tu sei così esigente, presuntuoso e difficile che pretendi che questo accada solo una volta ogni tanto, e cioè quando pare a te.» Fece spallucce, quasi non si curasse poi troppo di quel fatto. Nel tempo sembrava essere scesa a patti con il carattere del Colosso e, in confronto al passato, si dimostrava ora molto più tollerante e paziente. Non pareva avere più intenzione di cambiare quell'uomo perché si adeguasse meglio a lei, e del resto era evidente che non avrebbe più mutato neanche una virgola di se stessa per sposare meglio il legame che la univa a lui: si sarebbero semplicemente trovati, come sempre, e sarebbero stati insieme, in qualche modo, indipendentemente da ciò che erano.
    «Henge per il trucco?» Disse poi, quando ebbe finito di ascoltare l'arringa del compagno, e ridacchiando fece spallucce con strafottenza. «Non esageriamo, tesoro... sono sempre bella, anche da struccata. Certo preferirei mostrarmi al meglio delle mie potenzialità, ma in questo modo eviteremo che la gente ci fermi ad ogni passo per attaccare bottone.» Si limitò a dire, con una presunzione audace molto diversa dalla timidezza di tanti anni prima. Ghignò, lanciando poi un'occhiata al Jinchuuriki. «Anche se tu basteresti a questo scopo, ho come l'impressione che la tua mole intimidisca un poco gli altri...» Insinuò, facendo una linguaccia, e poi si rimise a ridere.
    Rise, e lo fece ancora, e poi ancora, e in un modo genuino molto lontano da quello rabbioso di poche ore prima, come se lentamente qualcosa dentro di lei si stesse snodando, districando e prendendo finalmente il suo posto. Rideva come una bambina, camminando per le vie del villaggio dove più persone la salutavano e, addirittura, si inchinavano con una riverenza pregna di rispetto... e lei, stavolta, non si ritraeva diffidente da quelle manifestazioni d'affetto e attenzione, che aveva sempre interpretato guardandole nello specchio del suo rimorso, ma le accoglieva, le ricambiava, ed ogni volta stringeva di più la mano di Raizen. Il suo passo diveniva sempre più allegro e le sue espressioni più vivaci, un dettaglio che non parve passare inosservato agli occhi dei cittadini, cosicché quando i due arrivarono al chiosco per prender da mangiare lei sembrava esser tornata la ragazzina di tanti anni prima, un'osservazione di fronte alla quale il proprietario del posto, alzando le sopracciglia in un'espressione stupita, cedette con gioia, accogliendo con piacere l'ordinazione di un quantitativo di cibo piuttosto imbarazzante, che la ragazza pagò successivamente per lo più in monetine, giacché il suo portafoglio sembrava stranamente vuoto, tanto da costringerla a chiedere anche l'aiuto del compagno –in quanto accettare l'accomodazione del proprietario le sembrava impensabile– con cui si scusò imbarazzata, rifiutandosi però di riportare una qualsiasi spiegazione sulla sua pietosa condizione economica, che liquidò come “momentanea” e “puramente casuale”.
    «Ho qualche problema di soldi ultimamente.» Ammise infatti quando ebbero saldato il loro debito e si furono allontanati un po' dal chiosco. «Non ho più nessun risparmio da parte, perciò devo fare un po' di economia per ora...» Sentir parlare di economia da una come Shizuka, capace di spendere 4500 Ryo in un obi da kimono, non era neanche considerata una rarità, ma una vera e propria follia. Eppure lei non sembrava disturbata dalla faccenda, di cui in effetti non faceva un dramma ma un semplice fatto con cui scendere a patti.

    Era ancora intenta a controllare quanti spiccioli le fossero rimasti (sarebbe riuscita ad acquistare quei dolcetti nuovi della pasticceria Usagi?) quando improvvisamente la mano di Raizen strinse la sua e in una frazione inferiore al secondo lei si sentì capovolta e rigirata, e quando riaprì gli occhi, sbattendoli, si trovava chissà dove al buio.
    «Vomito.» Annunciò molto candidamente, portandosi una mano alla bocca, e proprio in quell'istante il luogo venne improvvisamente illuminato da filari di lanterne di riso tremolanti, rivelando così l'interno di una grotta più simile ad una tana di animale che alla “casa” di cui parlò il suo compagno.
    «...“Casa”!» Ripeté però Shizuka, per niente turbata da quell'ambiente, che in effetti sapeva essere più idoneo a Raizen di qualsiasi altro alloggio esistente, ma subito dopo si riportò la mano alla bocca. Per un attimo si mosse nervosamente sul posto come se avesse la vaga intenzione di aprire un lembo della divisa dello Shinobi –cosa che effettivamente riuscì a fare, individuando a colpo d'occhio il punto in cui la parte superiore si univa all'inferiore, che tirò lievemente verso di sé– e di vomitarci dentro. Visto tuttavia che un comportamento del genere non le parve per niente educato, si limitò a ingoiare il groppo di nausea che le stava stuzzicando la base della gola e a sorridere educatamente. «Non abbiamo ancora iniziato a mangiare.» Disse con semplicità, alzando una manina tremante che reggeva il sacchetto contenente l'ordinazione fatta, ancora intatta. «Ma io ho già divorato tre ravioli alla piastra, due involtini e un pezzetto di yakodon bollente...» In effetti era piuttosto incredibile che fosse riuscita a divorare tutta quella roba accettando semplicemente gli “assaggini” che il padrone del chiosco le offriva, felice di poter avere “la Principessa” ospite del suo umile locale «...e tu giochi al prestigiatore infilandomi in un mulinello invisibile che solo gli Dei sanno da cosa può essere stato creato. Non mettere più alla prova il mio intestino in questo modo, Raizen, senza nemmeno una blanda preparazione per di più, la prossima volta andrà molto male, te lo posso garantire...» Minacciò, ma il suo vago colorito pallido non conferì a quelle parole la severità con le quali erano state pensate.

    Inizia pure a prendere qualcosa da mangiare, immagino che mentre guardi tu riesca a muovere la bocca per masticare.



    Dire a Shizuka Kobayashi di “iniziare pure a mangiare qualcosa” poteva essere facilmente considerata una sciocchezza (prettamente perché, come ai vecchi tempi, il suo appetito era ancora reputato proverbiale e la giovane si muoveva in direzione del cibo come un oggetto è attratto dalle forze del cosmo), oppure una condanna, che fu un po' quello che accade quella volta, giacché nel breve tempo che separò l'incamminarsi dei due fuori dalla grotta la ragazza era già riuscita a divorare tre fiocchetti di soia e non sembrava vagamente intenzionata a fermarsi. Un attimo dopo si era infatti già infilata in bocca due ravioli interi.

    In tutto il tempo che non ci siamo visti ho fatto anche questo.



    Era una delle più grandi praterie che avesse mai visto.
    I bagliori del sole si infrangevano sull'erba rimandando una sfaccettatura caleidoscopica di riflessi, luci e brillantezze che non aveva mai visto prima di quel momento... e a buon ragione, poiché mai si era trovata di fronte un'infinità di spade come quella che si aprì di fronte a lei.
    Per un attimo, ferma nel punto in cui era stata guidata, un raviolo alla carne che le spuntava in modo poco consono dal lato sinistra della bocca, la giovane shinobi parve stupita, esterrefatta, e forse persino ammirata.
    Esitò, tacendo, e rimase così per qualche istante, provando di tanto in tanto ad interrompere quella stasi aprendo la bocca, da cui però puntualmente non usciva nessun suono. Ci provò allora ancora, e poi ancora, ma fu solo al quarto tentativo che, alla fine, parve trovare il coraggio di parlare.
    «...sei diventato un becchino?» Domandò, e non riuscì a nascondere l'imbarazzo misto a timidezza. «Cioè... nel tempo in cui non ci siamo visti... hai costruito un cimitero?» Chiese ancora, indicando la prateria. Effettivamente le spade erano disposte nel terreno come delle croci e non essendoci anima viva intorno a quel luogo nel raggio di almeno qualche chilometro la domanda, nella sua ingenuità, poteva addirittura definirsi lecita.
    Ingoiando il raviolo e afferrandone un altro, Shizuka si limitò ad annuire e poi sorrise.
    «Beh sei sempre stato un tipo strambo, Raizen, se vuoi fare il becchino sarò ben lieta di affidarti il mio corpo quando morirò.» E con rinnovata assenza di pudore si toccò un seno. «...che spero vivamente accada tra parecchio tempo, ma non importa.»
    Arrivati a quel punto aprì un altro sacchettino e, senza chiedere nemmeno se l'altro fosse o meno affamato, agguantò l'ennesimo fiocchetto di soia condito, che addentò con gioia.



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    Nella rupe del Re

    Nel profondo







    Restò fermo aspettando la reazione Shizuka, non sapeva bene cosa aspettarsi da quella sua allieva diventata grande. Il primo rossore era inevitabile per chiunque, una reazione normale per qualsiasi ragazza. Il curioso venne dopo, oltre le scherzose minacce non accadde null’altro, il che nel viso del Colosso avviò una particolare sequenza di inusuali ma piccole reazioni. Dapprima il disordinato sopracciglio si alzò impercettibilmente con un piccolo scatto e mentre l’angolo delle labbra faceva la stessa cosa gli sfuggì una risata a denti stretti.
    Decise di calcare ulteriormente la mano sull’episodio, giusto per ricordare alla donzelletta chi portava i pantaloni.

    Chiami la polizia?
    E che gli racconti mentre sei ancora rossa e sorridente come una scolaretta che ha ricevuto i complimenti per il miglior compito della classe?


    Perché si, nonostante il gesto non fosse propriamente la cosa più gradita che gli fosse stata fatta negli ultimi mesi sorrideva, ma a Raizen importava poco di quanto contrariata potesse essere, poteva passare sopra a quel piccolo particolare.

    Che dopo aver detto ad uno di “ritornare ad amarci” questo ti palpa mentre tu gli parli delle dimensioni del suo pacco?
    Lasciatelo dire, a seconda dei poliziotti metterebbero in carcere te per il bene del pudore pubblico.


    Sbuffò ironico, a sottolineare quanto poco credibile sarebbe stata.

    Tra l’altro ne parli sempre come se già l’avessi visto, vediamo di rimediare così almeno non parli a sproposito.

    E senza aggiungere altro calò la mano sinistra alla cintola, armeggiando qualche istante per afferrare l’orlo dei pantaloni e allargarlo, tuffandoci poi la mano destra che nello stesso lasso di tempo afferrò qualcosa dalle imprecisate dimensioni. Voleva realmente farlo?
    Quanto Shizuka fosse cresciuta non era possibile saperlo, bisognava testare la sua bravura con queste cose, pareva aver detto che si fosse esercitata dopotutto. Prima di estrarlo però aspettò qualche istante, puntandolo sui pantaloni mentre annuiva arricciando le labbra.

    Te la sei cercata.

    Tirò fuori la mano rivelando ciò con cui aveva armeggiato durante quei pochi secondi: un kunai, che si preoccupò di fargli roteare davanti al viso trattenendolo per l’anello dell’impugnatura.

    Non ci avrai mica sperato vero?

    Chiese con tono malizioso, mentre l’arma continuava a roteare spezzando di quando in quando la visione del viso malizioso del Randagio.

    Se vuoi saperne qualcosa prova a chiedere in giro ad Otafuku, su questo genere di cose li son bene informate, ti vedo troppo curiosa, almeno ora sai dove chiedere.
    Ma ora basta, al contrario di qualcun’altra non mi piace vantarmi di questo genere di cose.


    Quando poi il discorso tornò sulle forme della kunoichi gli occhi sgranati di Raizen parlarono chiaro: si stava abbondantemente sottovalutando.

    Solo carne? Solo carne?!?
    E pretendi di essere credibile quando mi dici che sono io a non essere pronto?
    So più io di quelle… quelle… lasciamo perdere, ho una mia decenza.


    Al parlare della sua esigenza la reazione non fu del tutto immediata, in un primo momento non sapeva cosa rispondere, lasciando così passare dei secondi di silenzio mentre avanzava per la strada.

    Ovvio che sono esigente.

    Poteva solo confermare l’ovvio e magari aggiungere qualche piccola attenuante per cercare di giustificare il suo zelo e le sue pretese.

    Già ti ho detto che pretendo il meglio dalle persone che mi stanno accanto, sono cose direttamente proporzionali, minore la distanza maggiori le pretese.
    E sappi che le tue parole ti mettono sempre più a rischio, dire che siamo sempre sincronizzati fa pensare molto velocemente ad un noi.
    Ma hei! Fai tutto te eh! Io mi limito a fartelo notare, quella intraprendente sei tu!


    Tra un commento e l’altro i due riuscirono a spostarsi verso il centro, posto in cui probabilmente la sua allieva si accorse di quanto veritiere furono le parole del maestro, un evento che le reazioni si Shizuka, forse inconsce, non permettevano di passare inosservato, e di sicuro il Nostro non avrebbe permesso che ciò avvenisse.
    Non era una sensazione sgradevole la mano di lei sulla sua, per quanto parlasse di mitici calli e mani esercitate ai compiti più duri propri dei ninja restavano sempre le mani di una donna, delicate come natura voleva.

    Non vorrei essere petulante eh, e non vorrei neanche insinuare cose, ma mi stai stringendo così forte la mano che non mi stupirei se te la mettessi da un momento all’altro dentro la scollatura.

    Per quanto ironico fosse nel parlare aveva notato in quel gesto ben più che l’ennesima opportunità per una nuova battuta, per un nuovo scherzo. Notava che lentamente le sue parole facevano breccia in lei grazie alle persone che in un modo o nell’altro fino a pochi minuti prima l’avevano tenuta chiusa all’interno del suo bozzolo di apatia, anche se la colpa non si poteva imputare a loro.
    Fu felice di far parte di quel momento, ma non aveva altro modo per trasmetterlo se non ricambiando quella stretta che dopotutto non chiedeva null’altro.


    Quando furono in vista della distesa di spade non potè non sorridere al commento di Kirisame, così aveva deciso di soprannominarla, in contrasto a come lei amava definirsi: tempesta.

    In realtà io stesso lo chiamo così, dopotutto assomiglia terribilmente ad un cimitero: piatto, desolato, e con tante cose che puntano al cielo.

    Definizione un po’ magra di cimitero, ma sufficiente.

    Non è solo un cimitero però, al suo interno ogni lama ha una storia, un suo utilizzo ed un suo perchè.
    Sono il mio esercizio come armaiolo e come guerriero, tra di esse non ve ne compare una che io non sappia maneggiare alla perfezione. Ognuna di esse è affilata come il freddo secco del nord, infatti nessuna è stata piantata a terra, le ho semplicemente lanciate da quassù, si sono conficcate col loro peso.
    E stai attenta a come maneggi quei poppatoi, con questa hai bruciato due possibilità, alla terza ti faccio vedere come si usano per davvero.


    Minacciò gonfiando con poca convinzione uno stato d’animo inesistente per far apparire le sue parole infastidite ed iraconde.

    Faresti meglio a non sfidarmi, il terzo lo reputo un invito… e non lascio mai avanzi nel piatto.

    Lo aggiunse con un tono sufficientemente distaccato da far apparire l’ammonimento come la più scontata delle ipotesi.
    Sedette sull’orlo del basso strapiombo, con il sacchetto di cibo posato tra le gambe e dopo aver guardato varie volte il sacchetto e la bocca di Shizuka avrebbe allargato un sorriso sornione.

    Attenta a cosa peschi, il terzo potrebbe nascondersi in qualsiasi gesto!
    E non voglio commentare il talento che promuovi con tutta quella roba in bocca.


    Senza perdere il sorriso la guardò per qualche secondo, e solo dopo aver ripulito il volto da quell’espressione così faticosa si voltò verso la radura, i fili d’erba agitati dal tenue vento si muovevano placidi, mentre le lame stavano, inamovibili e gelide.
    Gli indicò ancora una volta un posto a sedere immaginario accanto a se.

    Sincronizzati… già ti parlai di cosa penso degli amici.
    Non vorrei ripetermi.


    Ma a quale occasione si riferissero quelle parole non era dato sapere e pareva, dalla rapidità con cui Raizen permise a quelle parole e quel pensiero di scorrere via col vento, che non sarebbe di certo stato lui a ricordarlo.
    E se pure gli venisse domandato, per il momento, non sarebbe giunta alcuna risposta a dare spiegazioni, c'erano ancora angoli oltre i quali stava l'inesplorato.

    Non ho mai portato nessuno qui… tu cosa hai fatto in tutto questo tempo?

    Non mentiva, una volta ogni tanto non lo faceva, mai nessuno era stato in quel luogo, soltanto la memoria di centinaia di fabbri sigillata dentro un quadernetto gli aveva fatto compagnia tra quelle sconnesse mura di nuda pietra.
    In quel luogo, così tranquillo e silenzioso, si poteva percepire più di quanto Raizen fosse in grado di spiegare di se stesso. Quella terra, quelle rocce, quella placida distesa d’erba, quel “tutto” che aveva scelto per se stesso e modificato solo in quei piccoli particolari che lo rendevano adatto ad ospitare la vita di un essere umano erano stati ammaestrati con una gentilezza che li aveva resi la metafora del loro inatteso inquilino.
    Mutevole nei suoi strati più esterni era capace di piegarsi al più debole dei venti conservando sotto un coriaceo strato di roccia un ardore impossibile da scorgere fino a che l’impetuoso vento non si fosse del tutto placato.
    Voleva comunicarlo? Aspettava che si notasse? Sarebbe stato notato?
    Non ci aveva minimamente pensato, Shizuka era li per ora bastava.
    Rilassò la schiena stendendosi sulla nuda roccia per guardare il cielo, non era la prima volta che lo faceva in presenza della kunoichi, ma poter parlare senza necessariamente guardarla negli occhi in quel momento lo rilassava.

    Voi umani avete un corpo troppo piccolo.

    Constatò il demone, riferendosi a qualcosa che solo il legame che lo legava a Raizen poteva rivelare.

     
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    Strength does not come from physical capacity. It comes from an indomitable will.

    Shizuka Kobayashi's arts




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    Quando era più piccola Shizuka Kobayashi era stata schiaffata nel mondo Shinobi con una brutalità che recava il nome di Raizen Ikigami. Abituata ad un mondo che la trattava con ammirazione e premura, in cui ogni sua parola era un obbligo a cui adempiere e ogni suo desiderio niente più che un'aspirazione da realizzare quanto prima, quando era stata messa di fronte alla sfrontatezza e l'arroganza del Colosso aveva sofferto di quel tipo di disagio che si riserva alle persone smarrite e incapaci di comprendere la situazione corrente.
    Per anni aveva combattuto con le battute, il sarcasmo e persino ciò che considerava niente più che le molestie perpetrate solo per puro divertimento di quell'uomo, arrivando a desiderare in taluni casi il potere solo per poterlo far danzare nel palmo della sua mano come lui faceva con lei. Le cose, però, erano cambiate.
    Benché le loro capacità fossero ancora distanti, Shizuka si era guadagnata negli anni quel genere di potenzialità tipica di una promettente kunoichi, affinando le sue capacità senza sosta e scalando la gerarchia, prendendosi a gran voce il titolo di miglior supporter e infiltrata di Konoha. Sapeva bene di non poter ancora competere con la potenza della Volpe, ma di una cosa era certa: adesso sapeva affrontare il suo carattere molto meglio di tanto tempo prima, ragion per cui non si curò poi troppo di tutti i suoi poco fini ed educati discorsi.
    «Ti sto cominciando a piacere proprio tanto, eh?» Domandò Shizuka, inarcando un sopracciglio e guardando ironica il ragazzo, verso cui ridacchiò divertita. «Datti una calmata, Raizen. Con tutte le prostitute con cui sei stato avrei paura a toccarti per paura di prendere qualcosa, seriamente.» Non era un'insinuazione, ma una constatazione vera e propria. «Sayuri-sama della casa di piacere “Lilian” è la mia Mama. Ogni tanto parlava di questo Colosso dai capelli bianchi, ma capitavi sempre quando io non c'ero, e se c'ero capirai che non potevo allontanarmi, se avevo un cliente...» Disse, sorridendo educatamente. Sul suo volto non c'era traccia di quel disgusto iniziale che non riusciva a mascherare nei suoi primi tentativi di spiegare agli altri dove si recasse per settimane senza mai tornare a Konoha. «E' lei che mi ha insegnato a gestire gli uomini quando non avevo assolutamente idea di come approcciarli... ma immagino tu non la conosca. Le sue tariffe sono troppo alte, come le mie del resto.» Si limitò a rispondere. Non sembrava vantarsi, perché del resto non ce n'era motivo, esponeva semplicemente un fatto. Che questo fosse il suo praticare frequentemente il Villaggio Rosso del Paese del Fuoco non sembrava turbarla più tanto. «E' un dovere.» Spiegò infatti, continuando a guardare il Jinchuuriki e attingendo un altro nikuman dal sacchetto per smorzare un po' l'aria pesante che aveva involontariamente creato. «Ho dovuto imparare a usare il mio corpo come un'arma. In un mondo in cui esistono mostri come te che con un sospiro mi possono spezzare la schiena in due, capirai che non potevo sperare di fare la super potente kunoichi da prima linea.» Ridacchiò, scuotendo la testa nel ricordare quel suo stupido sogno di quando era adolescente. «All'inizio ne ho sofferto... rincorrevo il sogno di poterti affiancare in un ipotetico campo di battaglia, spaccando metri e metri di terra con un pugno, o sputando draghi di fuoco, o gli Dei solo sanno cos'altro...» Alzò gli occhi al cielo, infilandosi la focaccia in bocca. «Alla fine ho capito che non è proprio il mio stile.» Ammise allora, riportando lentamente il suo sguardo su Raizen, cui sorrise. «Non ho abbandonato l'allenamento fisico da attacco, sono pronta a combattere in prima linea se il caso lo richiede. Uccido, come potresti fare tu, e non ne soffro più. Distruggo, quando è necessario.» Diede un altro morso, pulendosi con un pollice un rivolo di brodo che le colava sul mento. «...ma diciamo che preferisco muovermi in diversa maniera.» Sorrise, e così dicendo si infilò tutto il nikuman in bocca, per poco non strozzandosi nel tentativo di buttarlo giù, alzando poi una mano verso il Jonin. Non le ci volle neanche una concentrazione tale da impedirle di continuare a parlare, che improvvisamente la mano della ragazza venne progressivamente avvolta da un alone di un tumultuoso blu elettrico: il colore scoppiettava e brillava come se avesse vita propria, ma non si scostava mai dalla forma ovale che doveva assumere quando chi lo richiamava ne aveva un controllo perfetto.
    Imponendo la mano sul braccio livido della Volpe, la kunoichi dominò il suo chakra, lo compattò mentalmente dandogli la forma da lei desiderata, e lasciò che questo filtrasse nei tessuti dell'uomo, serpeggiando tra le fibre fino a curare il colorito violaceo del posto, le fratture cellulari interne e lentamente anche il dolore. Poi, però, invadente come solo chi è in grado di entrare nella carne altrui può esserlo, provò a spingersi un poco più a fondo, cercando velocemente qualcosa... qualcosa che la condusse attraverso il torace, fin giù verso l'addome. Lì, però, si fermò; probabilmente capendo di non poter spingersi oltre.
    Lanciò un'occhiata a Raizen, che sapeva essersi accorto del suo pessimo e ovviamente non serio tentativo di fare la conoscenza del suo Bijudama -giacché non era una novità che se qualcosa le interessava lei tentava di ottenerne quante più informazioni ed esperienze possibili- ridacchiando divertita.
    «Sono una ninja Medico specializzata in veleni e operazione su campo di battaglia, ora.» Disse a quel punto, leccandosi le labbra unte di sugo. Non sembrava affaticata, né preoccupata, ma abituata a quel genere di situazione. «Norio Uchiha, il capo del reparto di rianimazione dell'ospedale di Villaggio, è il mio maestro. E' lui che mi ha salvato la vita quando stavo crepando per via di questa.» Si indicò la cicatrice. «Era l'unico modo per uscire da un Genjutsu di quella portata... non hai idea di che tipo di inferno mentale può arrivare a fare un Jonin con uno Sharingan di creazione sviluppato come quello del mio amico.» Continuò. Cercò di ridere, ma il ricordo del volto di Karasu, della sua voce, le sue mani che la toccavano, il suo volto che le sorrideva... resero il tentativo un ghigno e poi una maschera di apatia. Tacque per qualche istante. «Sono già stata brava a capire di essere finita in un'illusione prima che la mia mente ne venisse distrutta, no?» Disse poi, improvvisamente, e tentò di ammiccare con noncuranza. «Beh in ogni caso quella situazione mi ha fatto capire maggiormente qual era la mia strada. Negli anni ho reso i miei Genjutsu inscovabili, riproducendo la realtà nei minimi dettagli come tu mi hai insegnato a fare... ma se i miei occhi vengono scoperti, rimango nient'altro che una bambina stupida con delle rotelle nelle pupille.» Concentrò maggiormente l'afflusso di chakra, provocando in Raizen una piacevole sensazione di calore. «Uso il mio Sharingan solo quando è strettamente necessario, e quindi molto poco: sono un'infiltrata esperta in raccolta di informazioni, se attivo la mia innata ho la premura di assicurarmi di non lasciarmi testimoni dietro, perché non me lo posso permettere.» Disse ancora, e solo a quel punto diminuì lentamente l'apporto chakrico, cessandolo infine del tutto. Battendo la mano sul braccio del Jonin, la ragazza sorrise mostrando i denti com'era solita fare da ragazzina. «Mantengo un profilo basso, agisco da sola, prendo quello che mi serve e distruggo senza dare nell'occhio. Sabotare è più raffinato che spaccare muri urlando, diciamo.» Si scostò teatralmente una ciocca di capelli dal collo, come a voler puntualizzare l'affinità di se con il concetto di “raffinatezza”. «Che è un po' quello che fate sempre tu e quel povero coglioncello di Atasuke.» Aggiunse, mettendosi a ridere.

    Aveva le idee chiare su chi era e cosa voleva. Un'altra cosa che la ragazzina del passato non condivideva con la donna del presente.
    Era tranquilla nell'affrontare le sue debolezze e a renderle capacità, accettando i suoi limiti, con cui era scesa a patti. Benché un tempo avesse ostinatamente rifiutato la possibilità di poter diventare la mente del gruppo e non le sue braccia, muovendosi nelle ombre e supportando i suoi compagni, adesso era proprio ciò che faceva e, sotto al velo di ostentata noncuranza, sembrava discretamente soddisfatta della sua posizione. Si era fatta un buon nome, del resto. Forse non proprio negli ambienti dove era bello farselo, ma senza dubbio le sue capacità cominciavano a venir riconosciute.
    Guardando di sottecchi il jinchuuriki e cercando di aggirarne l'attenzione, la ragazza provò a prendere un altro fagottino di carne. Era già al quinto.
    «Quindi fabbrichi spade?» Chiese, ma non finse l'interesse che sinceramente provava. Anche mentre la sua mano serpeggiava verso il sacchetto. «Sei un fabbro, non l'avrei mai immaginato... e che tipo di roba riesci a fare? Solo spade come quelle?» Domandò, scostando verso di sé il sacchetto con la punta delle dita. «Oppure sei capace di fabbricare cose su misura per una determinata persona... per esempio, me?»

    Aveva fame. Fame.
    Gli Dei potessero perdonarla... il tempo passava, era vero, ma il suo appetito continuava a rimanere proverbiale ovunque.



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    Freni d'emergenza








    Quando Shizuka cominciò con le solite insinuazioni Raizen sollevò gli occhi al cielo in un primo momento, per poi tornare sui suoi, ricambiandola con la stessa identica espressione.

    Piacermi? Tu?

    Qualcosa di simile ad una risata scosse le sue spalle per qualche istante.

    Con quel traliccio che ti va dalla spalla al bacino direi proprio di no.
    Toccarlo sarebbe piacevole come mettere la mano nell’acido.


    C’era qualcosa di particolare in quella risposta, un misto di ironia e risentimento, pareva fosse realmente infastidito dalla cocciutaggine della Principessa che gli impediva di rimuovere quello sfregio. Ma era intuibile solo dalla voce, il suo viso, ora cosciente dei “grandi” sensei che istruivano Shizuka, aveva assunto una smorfia di pieno disgusto.

    Credimi, ho abbastanza soldi da poterti dire che le migliori allieve della tua… come l’hai chiamata, mama?
    Che ad esser precisi manco so che voglia dire, ma immagino sia molto vicino a magnaccio… per intrattenermi non hanno usato la bocca.
    Ma c’è da dire che altre loro labbra hanno argomenti più che soddisfacenti.
    E vieni a dire a me delle malattie?
    Il massimo che potrei fare è farti completare la collezione a questo punto.
    Ma sappi che al giorno d’oggi ci si può facilmente proteggere, sono più pulito di un verginello in una teca di vetro, e se non lo fossi la qualità dei servizi offerti dalla famosa Sayuri sarebbero a dir poco scadenti.


    Parlare aveva smosso qualcosa in lui, disagio forse.
    Rivolgersi in quella maniera ad una donna qualsiasi, rispondendo per le rime, non gli avrebbe dato alcun genere di fastidio mosso come era da ciò che credeva essere la realtà. E proprio credere che ciò che immaginava fosse la realtà lo metteva a disagio, mettere Shizuka in una di quelle situazioni che ben più di una manciata di volte aveva vissuto gli faceva muovere una fastidiosa creatura nello stomaco che gli procurava una lieve e spiacevole nausea.

    Shizuka che fa quel lavoro?
    Davvero?


    Davvero cocco, e da come se ne vanta… beh, non vorrei ferirti andando oltre, sarebbe troppo semplice.

    La volpe ridacchiò sommessamente, canzonando il Colosso.


    Si voltò a guardare Shizuka, disteso com’era lei gli dava le spalle, mostrandogli una silhouette che ormai aveva dimenticato le fattezze da bambina, allargando i fianchi e ammorbidendo il corpo dove serviva. Sporgendosi lievemente poteva persino notare il seno, di scorcio.
    Non era la prima volta che la guardava, eppure gli pareva che prima di quel momento non l’avesse mai guardata seriamente, scoprì che non ricordava troppo bene i suoi lineamenti e quasi gli sembrava di guardare una sconosciuta. Gli capitava a volte.
    A provocare quegli episodi non era tanto un cambiamento reale nella persona che guardava quanto più una sua presa di coscienza rispetto ad essa, una volta rimase a guardare qualche minuto il vecchietto che gli serviva il ramen. Quando si rese conto che qualcosa di così buono non l’aveva mai mangiato da nessun’altra parte, e che quel vecchio curvo sui fornelli più per l’età che per necessità, doveva faticare ben più del dovuto per portare a casa la pagnotta restò in silenzio.
    Ne analizzò il volto come un bambino curioso, spostandosi di quando in quando per vederne i lati nascosti, scrutandone la più misera ruga: pieghe nella pelle di un volto antico, originate da una vita di espressioni che non riuscivano più a sparire del tutto, ma che al contempo ne accentuavano ogni più minuscola variazione d’animo, trasformando semplici sorrisi in espressioni capaci di trasmettere agli altri la propria pace interiore.
    È così che stava guardando Shizuka, non per qualche tipo di abilità particolare, ma pareva che gli occhi di Raizen in quel momento potessero andare ben oltre la pelle, oltre le cicatrici, oltre quelle infinitesimali imperfezioni del corpo umano.
    La scoprì di nuovo, la comprese nuovamente, e vedere come si muoveva, la sicurezza con cui parlava dei suoi affari se non sporchi certamente poco candidi, le espressioni che gli rivolgeva… gli erano estranee, e come aveva solo intuito all’inizio della loro interazione non gli piacevano affatto.
    Solo quando venne paragonato ad Atasuke scosse lievemente la testa ammiccando con gli occhi più di una volta, destato dal suo orgoglio tornò ad osservarla senza quello sguardo innocente quanto assetato di conoscenza.

    Paragonami di nuovo a quell’ effeminato avanzo di sacca porta palle e ti svito la testa dalle spalle.

    In Raizen si poteva identificare esclusivamente una cosa profondamente in linea con lo spirito marziale che la carriera ninja inculcava alla maggior parte degli shinobi: l’animo. Era quasi impossibile infatti impietosirlo, infastidirlo o scuoterlo abbastanza forte da distoglierlo da un bersaglio, facendogli perdere il freno della lingua e delle mani.
    Tra quelle poche azioni o parole ci stava tutta la gamma in grado di insinuare che lui non fosse unico ed originale in tutto e per tutto, ma soprattutto che lui potesse avere in comune una sola singola cellula del suo corpo con qualcuno che reputava inferiore.

    Intesi?

    Concluse con tono severo.

    Comunque grazie per il braccio, ma purtroppo se vuoi sorprendermi ti tocca fare di più, se ricordi fin dal nostro primo incontro ti avevo detto che questa sarebbe stata la tua strada.

    Sorrise orgoglioso, e al contempo soddisfatto della sua lungimiranza, e lo fece sinceramente.
    Qualche istante dopo invece la mano della principessa iniziò a scivolarle sul petto, e senza fermarsi calò sull’addome. Il labbro del Colosso dubbioso si inclinò verso il basso mentre gli occhi si sbarravano in un espressione di stupore. Poteva essere marziale quanto voleva ma in situazioni simili, per quanto in combattimento riuscisse a controllarsi, il suo cervello prendeva una curiosa tangente ascendente a quarantacinque gradi. Ma naturale, per quanto curiosa.

    Non so cosa ti abbiano insegnato in quel bordello, ma mi sono decisamente stufato di avvertirti, se non spegni quella manina entro un paio di secondi ti ci faccio fare pratica.
    Donna avvisata, mezzo svestita. Ricordatelo.


    L’avviso parve venir recepito, era sull’orlo, mai avrebbe fatto spargere la voce che il Colosso di Konoha si tirasse indietro dopo che una donna l’avesse solleticato a quel modo.
    Certo è che sarebbe stato altrettanto disonorevole se fosse stato bollato come maniaco sessuale.

    Quella li fruga troppo, te lo dico io.

    Fece un sospiro liberatorio, mordendosi il labbro qualche secondo prima di parlare.

    No, è inutile, non posso farci nulla!
    Sta cosa non mi va giù neanche se ce la mando a spinte.


    Si alzò di scatto.

    Mi sono impegnato!
    Ah se l’ho fatto porco mondo!
    Ho fatto di tutto per farti capire il modo migliore per fare sto lavoro, e maledetto Izanagi te mi diventi una puttana d’alto borgo, che tra gambe e bocca non so cosa tenga più aperto!


    Vomito quelle parole quasi stizzito, offeso, mentre una scia di rabbia gli fece venire un lieve fiatone.

    Basta essere fini di cervello!
    E non devi impiegare 4 mesi a far fare l’alzabandiera ad un ciccione sfigato per fargli dire quattro stronzate!


    Era interessato, preoccupato. C’erano poche cose di cui non avrebbe voluto rendere partecipe Shizuka nella sua carriera da ninja, una di quelle era l’arte della seduzione, anche perché fondamentalmente la reputava inutilmente lunga e dispendiosa ed in un certo senso degradante, quantomeno per lei.

    E magari nel mentre uno senza quei due poppatoi da dieci e lode ha fatto la stessa cosa senza sporcarsi, letteralmente, le mani.
    E tua madre poi? Che cazzo dice?
    Gli va tutto bene?
    Sempre tutta tirata che sembra abbia una fabbrica di scope su per il culo e manda la figlia nell’angolo peggiore del mondo ad apprendere le peggiori stronzate.


    Battè un piede a terra con una foga tale che la Kunoichi avrebbe potuto chiaramente distinguere un lieve tremore sotto i suoi piedi.

    Fatti beccare UNA sola volta ad applicare uno degli insegnamenti di quella vecchia maiala e ti assicuro che la tua missione di infiltrazione la trasformo nella più grande distesa di desolazione dell’intero continente, sarà così triste che ci dedicheranno un giorno nei calendari per ricordarlo ed una di quelle strane ricorrenze tutte lacrime ed empatia.

    Mentre parlava avrebbe colpito la mano di Shizuka, privandola del sacchetto delle cibarie e con una rapidità che aveva del bestiale se lo svuotò dentro alla bocca. Dopo un gesto che parve essergli costato qualche muscolo della mascella per masticare l’importante quantità di cibo avrebbe rivolto alla neo chunin una smorfia simile ad un ringhio, come se rimarcasse la propria potestà sull’ultimo boccone.

    Vedi...

    Ricominciò dopo aver inghiottito il gigantesco boccone frazionandolo più di una volta.
    A vedere Raizen, il rude Colosso della foglia, disordinato per quanto pulito, con quella perenne area di incuria dovuta alla barba sfatta e a dei capelli che per quanto belli pareva non avessero mai conosciuto le redini di un pettine. Si sarebbe detto che non fosse nient’altro che un uomo le cui buone maniere erano state a malapena sbozzate dalle esperienze di vita, come un falegname che con qualche colpo di roncola pretende di fare una scultura, eppure nella sua mente una donna degna di tale aggettivo che fosse o meno una kunoichi, aveva un posto in cui stare, e di certo non era otafuku.
    Volendo vederla da un altro punto di vista lo si poteva definire onore, o più comunemente una mentalità forse arretrata.



    Provò a parlare, ma era evidente che ancora il suo discorso necessitasse di una certa elaborazione, dopotutto non era avvezzo a dare la pappa pronta al prossimo.

    Sei una cogliona.

    Si, decisamente il modo migliore per iniziare. Certo.

    Appurato questo passiamo a cose più serie.
    Tu, Shizuka, non mi piaci.
    Realmente. E lasciamo da parte facili discorsi e battutine sul tuo corpo che ormai iniziano ad annoiarmi, veniamo a te, a quello che mi permetterebbe di avvicinarmi a te:
    La tua testolina, e quello che ci porti dentro.
    Perchè il resto bene o male, si trova ovunque.


    Interloquì mentre gesticolando mimava una sfera tra le mani.

    Io non sopporto il tuo carattere, il tuo nuovo carattere, è tremendamente odioso ed hai sempre la spocchia sulla faccia come se camminassi ad un metro non da terra, ma sopra chiunque, per essere sicura che qualcuno più alto del normale non arrivi a pareggiare con te.
    Guarda, non me ne sto andando, non sto sparendo, non ti lascio con quattro palmi di naso, ti sopporto e cerco addirittura di spiegarmi, ho cercato di farti comprendere fino ad ora.
    Eppure, per quanto io sia serio con te non ottengo che battutine del cazzo.
    Smettila di fare la stronza, o ti butto giù da questa roccia a calci in culo.
    Non mentivo poco fa quando ti dicevo che PRIMA mi piacevi, ma al momento, cacchio al momento mi sto sforzando di non riportarti a casa tua dentro un cestino e abbandonarti sulla soglia con le istruzioni su come rimontarti.


    Stava in piedi davanti a lei, parlava nuovamente, come un treno in corsa.

    Sto parlando così tanto che mi sembro una checca pur di farti entrare in testa che sono interessato a ritrovare un’ UNICA cosa. L’essere umano dietro quello stretto bustino che non mi stupisco ti abbia consigliato la tua… come cazzo si chiamava… mama, ecco.
    Non ti sto parlando come maestro, come superiore, come ninja, niente di tutto questo.
    Sto cercando di dirti che in un qualsiasi rapporto umano uno stronzo va bene, ma due sono troppi. E qui la stronza di troppo sei tu.
    Avanti, basta che ti guardi un attimo attorno, sono grande grosso e con una faccia del cazzo, tu sei piccola ed eri gentile e non sei neanche troppo male, secondo te chi è nato per essere cosa?!?


    Domandò mentre allargava le mani sottolineando la retoricità di quella domanda.

    È per questo che non mi è facile essere la persona che vuoi!
    Non riesco a dire tutto ad una persona simile anche perché non sai essere stronza, lasciatelo dire.
    Perché io sarò pure stronzo, ma quando serve riesco a fare una lavanda gastrica a qualsiasi depresso in giro per questo continente.
    E seppure sei in grado di farlo, beh, non ti riesce con me, decisamente.
    Posso sopportarti durante una missione, posso annuire quando parli, sorridere a qualche battuta… ma se ti va bene essere una figura di sfondo, prego, fai pure.
    Ma non venire a piagnucolare se ti tratto come tale.


    Pareva aver vomitato tutte le cattive impressioni che aveva sulla ragazza, ponendola nuovamente dinnanzi ad una scelta di cui non era troppo sicuro di voler sentire il risultato.

    Ti ho chiesto cosa hai fatto in due anni non per sapere quanto sei progredita, ma semplicemente per sapere come è andata avanti la tua vita.
    Anche per cercare di capire cosa di preciso ti avesse cambiato, fare leva su quella saldatura mal fatta e rimuoverla.


    Quella piccola confessione venne pronunciata a ridosso di quel discorso così fastidiosamente accusatorio che molto probabilmente Shizuka, stronza com’era diventata, non avrebbe colto la distanza che separava quelle frasi, quelle piccole sfumature a cui non pareva minimamente avvezza.
    Sembrava soltanto che ascoltasse di sfuggita ciò che Raizen diceva.

    Io VEDO quanto quell’esperienza ti abbia segnato, ed è ancora così vivida che non mi permetti di interagire con essa, ma c’è di sicuro qualcosa nel suo processo digestivo che ha fatto male alla persona che apprezzavo.
    Per cui cosa vuoi da me?
    Perché sei qui?
    Chiedi tutto, pretendi tutto, ma non mi stai dando NIENTE.


    Come aveva detto non era fuggito, ma Shizuka avrebbe retto quel carico di pesanti parole senza infrangere quell’equilibrio che iniziava a diventare fragile?
    Ad una attenta analisi in realtà era arrivata ben oltre i limiti concessi a qualsiasi essere pensante, poteva vantarsi di aver ottenuto un eccellente risultato nel cammino che l’avrebbe portata a conoscere quella figura che amava definire sensei, ma per quanto i risultati fossero ottimi la strada era un ponte sospeso nel vuoto, esile e scricchiolante.
    Attraversarlo richiedeva essere silenziosi come la neve, e leggeri come l’aria.
    Ogni difesa di Raizen era abbassata, non era presente alcun ostacolo, l’unico problema erano gli errori che lei poteva commettere pretendendo di addentrarsi così affondo nel Colosso per occupare un posto riservato ad un'unica persona in un’intera vita. Per quanto potesse essere permissivo non poteva scoprire se stesso senza ricevere lo stesso trattamento, forse una piccola deformazione professionale, ma fino a quel momento della sua vita lo aveva aiutato, ed era convinto che quello non era il momento in cui avrebbe smesso.

     
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    Shizuka Kobayashi's memories




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    Seduta a terra, con il sacchetto del cibo tristemente vuoto sulle ginocchia, la kunochi ascoltò in silenzio tutto ciò che Raizen le stava dicendo, chiudendo di tanto in tanto gli occhi, annuendo. Solo quando lui ebbe finito iniziò a parlare, quasi non avesse avuto il cuore di interrompere quello sfogo.
    «Hai finito?» Domandò, sollevando solo a quel punto gli occhi in quelli del Jonin. Sorrise, facendo spallucce. «Ci vorrà del tempo prima di riuscire a capirci, Raizen. Devi smetterla con questa storia del dare e non ricevere niente in cambio. Si capisce da tutto ciò che hai detto... ci sono anni di lontananza e incomprensioni a dividerci. Ci vorrà tempo, dedizione e lunghe chiaccherate come queste che a te non piacciono per nulla, perché alla fine potremo essere in grado di azzerare la distanza tra noi e ritornare uniti.» Accartocciò con espressione rammaricata il sacchetto, rigirandoselo poi tra le mani. «Non saprei proprio da dove partire.» Ammise alla fine. Alzò gli occhi al cielo, riflettendoci un attimo.
    I suoi setosi capelli castani scivolarono come una cascata dietro la sua schiena, piegandosi in due onde morbide per terra non appena la ragazza reclinò la testa all'indietro. Erano diventati lunghi, molto più di tanti anni prima.
    «Ho detto che ho imparato l'arte della seduzione, non che sono diventata una puttana.» Cominciò a dire Shizuka, dopo quella breve pausa. Sospirò, ritornando a guardare la Volpe. «Ho anche imparato i rudimenti dell'agricoltura e dell'allevamento, a spalare letame, a pulire i bagni di terme e case da tè e persino a cucinare pietanze straniere.» A quel punto, socchiudendo gli occhi, sorrise. «Ho imparato a cambiare tono di voce e dialetto.» Parlava ora con l'accentazione tipica del Paese del Fulmine, rispettando con incredibile perfezione la cadenza ondeggiante delle loro frasi. «Ho imparato a cambiare carattere e a fingermi più dolce...» Fece il gesto di accarezzare il volto dell'interlocutore, prima di rigirare la mano e batterne il dorso sulla sua guancia, con gentilezza però. «...o più fredda. A comando, ovviamente.» Si allontanò di nuovo. «Sono un'infiltrata, Raizen. Dovevo imparare a vestire tutti i possibili ruoli, ma essendo cresciuta come Principessa ero già abituata a scenari di un certo tipo e la mia educazione da intrattenitrice mi aveva già trasmesso la capacità di cantare, danzare, suonare, parlare di politica e arte... mi rimaneva solo la parte ingrata dello studio.» Fece spallucce. «Non per questo domani abbandonerò la mia famiglia e andrò ad allevare maiali nelle campagne.» Continuò, ridacchiando all'ipotesi. La volta in cui aveva dovuto apprendere il mestiere da allevatrice era stato il peggiore e ad essere onesti non aveva neanche ben compreso perché avesse dovuto farlo... come se in una missione avesse il tempo di giocare alla fattoria. Eppure aveva ubbidito agli ordini, aveva spalato sterco e pulito quelle bestie ignoranti con la cura che avrebbe potuto dare ad un bambino, e non se n'era mai lamentata. Questo, semplicemente, perché era il suo dovere. «Imparare il ruolo della puttana mi avrebbe aperto qualsiasi porta, Raizen, e lo sai anche tu. Ovviamente l'apprendere come eccitare un uomo non significa giacere con tutti quelli che passano da Otafuku.» Rise al pensiero, alzando gli occhi al cielo e sventolando una mano di fronte al viso. «Sono l'erede dei Kobayashi, ho dovuto travestirmi per girare tranquillamente in quel bordello, hai idea di quanto sia stato difficile?» Ritornò a guardare la Volpe, e adesso era più imbarazzata. «...E se anche fosse stato il contrario, non credo a prescindere di doverti dire con quanti uomini sono stata. Non faccio mai niente che non abbia voglia e piacere di fare, e lo sai bene. Non sarebbe stata la prima volta in cui avrei negato di ubbidire ad un ordine che non abbia trovato giusto, e l'avrei fatto di nuovo se necessario. Ma era solo questione di apprendere, e non di mettere in pratica.» Aveva avuto un solo uomo, ed era stato quello che aveva amato. Solo in quella circostanza aveva scoperto di saper applicare gli insegnamenti ricevuti con un'abilità di cui era rimasta in prima persona stupita. Sorrise ancora, abbassando lo sguardo mentre chiudeva gli occhi nel rammentare il volto, in un qualche modo ormai confuso, di Masayuki. «Mia madre ha imparato prima di me. Mia nonna prima di lei. E se mai avrò una figlia e la disgrazia vuole che ella desideri diventare kunoichi, imparerà a sua volta, dopo di me.» Riprese a parlare con calma, sospirando e guardando la Volpe, sperando, in un modo forse infantile o forse semplicemente sincero, che egli capisse. «Una kunoichi deve saper agire in ogni modo. Coprire quella fetta della realtà che voi Shinobi non potete fare. Questo è il nostro scopo, è per questo che siamo così importanti per il buon funzionamento dell'equilibrio di questa realtà marziale.» Si abbassò a guardare per qualche istante la pallina di carta che aveva contenuto il loro cibo, e che lei prese a far saltare nelle sue mani. «Anche tu hai imparato a torturare per ottenere le informazioni che ti servono, eppure se puoi non lo fai, no? C'è sempre un rispetto che mi piace pensare di dover dare anche al nemico e immagino che sia così anche per te.» Ritornò a guardare Raizen. «Ho imparato a sedurre, ad uccidere, a torturare, ingannare, mentire... sono diventata “stronza” come tu mi hai sempre detto di dover essere. Come tu mi hai voluta.» Affilò lo sguardo, e questo per un attimo si fece strano. «TU mi hai voluta Shinobi, Raizen. Pensavi che gettandomi in questo mondo non sarei cambiata minimamente?» Poi, subito, la sua espressione scemò di nuovo in quella di prima, ritornando serena. «Ma non ti do la colpa di nulla, del resto fui io a voler entrare a far parte di questa realtà, e dopotutto, come ho già detto, “imparare” non significa “essere”. Non sono una prostituta e certo non offrirò mai il mio corpo al nemico, preferirei la morte se non ci fosse altro scampo. Ma saprò tollerare di essere toccata, se necessario, se questo mi darà quello che cerco in modo così disperato da permettere ad un uomo di fare una cosa del genere. La mia bravura sta nel riuscire a far fruttare la mia conoscenza senza che il peggior scenario si manifesti.» Non apprezzava l'immaginare una circostanza simile, ma sapeva che era possibile quanto una qualsiasi altra. «Quando voi uomini venite catturati venite torturati e poi uccisi. Noi donne, invece, subiamo di peggio.» I suoi occhi verdi, adesso, erano freddi. In qualche parte laggiù in fondo, in quelle praterie primaverili che davano loro quello splendido colore, giaceva la paura. «Se devo essere stuprata, picchiata e usata come fattrice per delle bestie dal volto d'uomo, prima di ammazzarmi, perché è ciò che farei, voglio essere sicura di aver fatto tutto quello che è in mio potere per sopravvivere e tornare a casa dalle persone che amo.» E così dicendo cercò disperatamente, per un labile istante, di riappropriarsi di quella calma che il solo immaginare quella possibilità le aveva tolto. Impose al suo corpo di non tremare, di farsi gelido mentre ricordava il modo in cui Karasu l'aveva guardata, di come aveva così platealmente goduto mentre lei si piantava il suo Tanto nella spalla, dilaniandosi. Improvvisamente, e con uno sconvolgimento cui non era più abituata, temette di vomitare. Istintivamente si portò una mano alla bocca, calandosi leggermente in avanti.
    Rimase così, ferma, dondolandosi un poco su se stessa mentre la seconda mano giungeva in soccorso della prima, aiutandola a trattenere il cibo appena mangiato. Le ci volle qualche lungo minuto prima che fosse in grado di riportarsi lentamente con il busto eretto.
    Appariva confusa, ora, quasi avesse perso il filo del discorso. Rifletté, e solo dopo un altro istante parve capire da dove era necessario che riprendesse.
    «Mi hai fatto vedere una distesa di spade e mi hai parlato del fatto che sei un Jinchuuriki e un Jonin, ora. Un fabbro. Poi mi hai chiesto cosa avessi fatto io... cosa avrei dovuto immaginare? Che mi stavi chiedendo quante volte ho saltato alla corda con Ritsuko o di quante scenate mio padre è riuscito ad ordire, oppure di cosa avevo fatto in ambito "shinobi"?» La voce le tremava, ma se lo facesse a causa dei brividi che ancora la scuotevano oppure per i conati di vomito che continuavano a riempirle la bocca, il Colosso probabilmente non avrebbe saputo dirlo. «Ti ho fatto vedere quanto sono migliorata perché tu potessi essere orgoglioso di me.» Avrebbe voluto aggiungere che non era diventata medico per curare i feriti come tanti anni prima Raizen stesso aveva annunciato, additandola come una bimba troppo sensibile per un altro tipo di missioni. Era diventata medico perché aveva sentito la vita abbandonare il suo corpo mentre questo si apriva al lento e freddo bacio del ferro. Ricordava ancora perfettamente la sensazione che aveva provato quando, alzando lo sguardo nell'illusione in cui era rimasta intrappolata, aveva capito che non c'era scampo. Il movimento della sua mano verso il suo Tanto, la violenza che aveva dovuto apporre alla sua mente per distinguere solo per una frazione di secondo la verità dalla menzogna, e in quel labile istante di lucidità avere il coraggio di piantare con tutta la sua forza il coltello nella sua spalla sinistra.
    Ferma al suo posto, i suoi occhi si dispersero lentamente come nubi al vento, diventando distanti e vuoti.
    Ricordò la sensazione del coltello che prima pungeva e poi apriva. Del freddo che si confondeva al caldo, del dolore che non sapeva da cosa provenisse –se dal Genjutsu o da qualcosa che era sicura di fare nella realtà– fino a quando il coltello non aveva toccato l'ombelico, conficcandosi più a fondo. Solo in quel momento aveva cominciato nitidamente a distinguere. Ma non bastava, lei lo aveva capito, e aveva allora continuato a tagliare.
    Il dolore era diventato talmente accecante da scomparire, e per un attimo, mentre la sua mano continuava a solcare le sue carni, lei ebbe paura di non essere capace di mantenere la distanza utile affinché la lama tagliasse e la sofferenza infrangesse il loop della sua mente, ma non intaccasse i suoi organi, così uccidendola.
    Improvvisamente venne scossa da un singulto, e la ragazza scosse la testa, corrugando la fronte.
    Ricordò con chiarezza nitida il volto di Karasu Uchiha. Il suo Sharingan attivo. Le tre tomoe ridenti che si godevano quella scena con passione. La lingua di lui che accarezzava le labbra, rabbrividendo di emozione ed eccitazione.
    Come fosse stata gettata in quell'incubo ancora una volta, ricordò la quantità di sangue che la vestiva e di cui si accorse solo quando l'illusione si era dissolta completamente. La sensazione di stordimento, nausea, terrore e rabbia che si muovevano in una parte profonda di lei, e la sua stupida e irragionevole convinzione che quei sentimenti potessero essere visti dal Nukenin attraverso il suo corpo dilaniato.
    La fatica che aveva provato per compiere un passo avanti, e poi un altro, e un altro ancora, era fresca nella sua mente come se il fatto fosse accaduto il giorno prima. Aveva sentito il suo corpo pesante, la sua testa ciondolare da tutte le parti, e i suoi occhi farsi prima nebbiosi e poi scuri.
    Aveva avvertito con chiarezza il suo Sharingan ritirarsi in un angolo della conca in parte bianca e in parte nera che conteneva il suo Chakra, di un vivido blu elettrico. L'incapacità di pensare a nient'altro che a continuare a camminare per raggiungere Karasu.
    Poi, improvvisamente, ricordò lui che rideva, che gli tendeva una mano quasi aspettasse che la ragazza cogliesse chissà quale invito... e poi una pioggia nera. Piume. Piume di corvo ovunque, nel vento, sulla sua testa, nelle sue mani aperte verso il cielo.
    «Torna qui...» Sussurrò la kunoichi. Tremava. Ma non stava parlando a Raizen, e il Jonin questo avrebbe potuto capirlo solo guardando la ragazza, i cui occhi erano puntati su di lui, ma vedevano oltre. Oltre quel posto. Oltre il presente.
    Karasu Uchiha era scappato con l'arrivo di due guardiani, quasi non fosse realmente intenzionato a fare niente più di ciò che aveva già fatto giacché, se solo avesse voluto, avrebbe potuto ucciderli tutti.
    La sua voce era scoordinata, fragile, pregna di qualcosa che solo quando vomitò a terra capì essere bile. Aveva avvertito che il Nukenin stava scappando, come se quella fosse la cosa più importante.
    “Chiamate gli inseguitori del villaggio” aveva ordinato, come se avesse il grado per poterlo fare. Ma non lo aveva. Nessuno avrebbe mai ascoltato una semplice genin, e i guardiani avevano confermato le sue paure facendole una serie di domande che sembravano avere la priorità. “Sta scappando!”
    «...sta scappando...» Gemette.
    Quante volte lo aveva ripetuto? Aveva supplicato perché venissero chiamati Jonin competenti, inseguitori, assassini se necessario. Ma non era stata ascoltata.
    In quel preciso momento aveva perduto la fiducia nella legge accademica.
    ...Cosa ci può essere di più importante di catturare un terrorista che ha ormai visto tutti i punti deboli del Villaggio? Tornerà, era talmente evidente, e chi dice che la prossima volta andrà diversamente?
    Burocrazia. Domande. Vada tutto al diavolo. Sono morte delle persone, intere vite di sacrifici e tradizioni sono state rase al suolo e lì si parlava di pratiche e di “ordine corretto di fare le cose”?
    «Andrò da sola...» Aveva detto.
    Da sola, se necessario. Per sempre da sola.
    Avrebbe protetto ciò che amava, e lo avrebbe fatto da sola. Sarebbe andata via da quel posto. Lontano. Lontano abbastanza da imparare qualcosa che l'avrebbe resa imbattibile e che lì non avrebbe mai appreso, abbastanza da aprire uno scudo talmente grande da proteggere tutti, dietro al quale lei sarebbe rimasta, con le mani protese in avanti. Sarebbe diventata abbastanza potente da buttare giù la corruzione e la malvagità, e non avrebbe avuto importanza a cosa avrebbe dovuto rinunciare di sé per raggiungere quello scopo. Sarebbe diventata forte e indistruttibile, il pilastro di Konoha, del Paese del Fuoco, di tutta l'accademia se necessario.
    Avrebbe guardato i bambini crescere, gli uomini e le donne invecchiare, e avrebbe vegliato su tutti con quella integrità che, proprio in quel momento, seppe di poter guadagnare. Ma lo avrebbe fatto da sola.
    Sempre avanti. Sempre da sola.

    Aveva avuto paura quando il suo corpo era pesantemente caduto in avanti, sbattendo al suolo. Quando aveva sentito il sangue aprirsi a ventaglio sotto di sé. La realtà farsi più lontana, sempre più ovattata.

    Sempre avanti. Sempre da sola.

    Di tanto in tanto aveva ripreso conoscenza. Aveva sentito le urla. Mani che la toccavano. Ombre che correvano in avanti, sparendo.
    Qualcuno le aveva sbattuto le mani sul petto nudo, imponendo un sigillo. Poi un altro. Un altro ancora.
    Disegni per terra. Una kekkai di ripristino che veniva alzata.
    La voce di Ritsuko che urlava. Le lacrime disperate. Le suppliche. Le sue mani che sbattevano insistentemente contro le pareti della barriera in cui lei era rinchiusa.
    Il volto di Norio.
    “E' viva. Preparate la quarta tecnica di guarigione! Kekkai no Risatetsu!”

    Buio.

    Sempre avanti. Sempre da sola.

    “Rimani sveglia! Mi chiamo Norio Uchiha, sono il primario di rianimazione dell'ospedale del Villaggio. Siamo qui con te, mi senti?
    ...PRENDETE QUEI MALEDETTI SIGILLI!”


    Buio.

    Sempre avanti. Sempre da sola.

    Coma indotto, così era rimasta per due settimane. Un mese in ospedale. Non era stata quasi mai cosciente.
    Ricordava di quel periodo solo un grande caos. Persone che correvano nei corridoi. Gemiti. Urli.
    E poi sua madre. Le lacrime disperate, la sua fronte che toccava il letto in cui lei giaceva. Le mani di lei che stringevano le sue. Delle preghiere.

    Buio.

    Sempre avanti. Sempre sola.

    Suo padre. Non piangeva, ma lo aveva fatto abbastanza da farsi venire gli occhi rossi e le occhiaie.
    Mamoru che scivolava al suo fianco. Una parola all'orecchio. Lui che si voltava.
    Mihoko e Chizuru obaa-sama... Teru e Masamune ojii-sama...
    “Morirà. E' solo questione di tempo. Mi dispiace.” Non sapeva chi lo aveva detto.
    Sua madre che iniziava a urlare, gettandosi a terra, in ginocchio. Le mani al viso. Chizuru obaa che le si avvicinava, stringendola tremando.
    Tatsuya, immobile, sull'uscio della porta. Gli occhi vuoti.

    Buio.

    Sempre avanti. Sempre sola.

    “E' un miracolo.”
    “Un miracolo chiamato Norio Uchiha!”
    “La bambina ha avuto fortuna ad aver avuto lui come...”


    Fortuna.

    «Fortuna.» Disse improvvisamente Shizuka, e come se quella sola parola fosse bastata a riportarla alla realtà, la ragazza sgranò gli occhi. «Ho avuto fortuna!» Scoppiò a ridere, come fosse impazzita, e rise tanto di gusto da avere le lacrime agli occhi. Sempre di più. Ben presto, stava piangendo. «Vedi, Raizen Ikigami, io ho avuto fortuna!» Avrebbe detto, portandosi le mani alla testa. «Ho avuto fortuna ad essere stata cacciata come un coniglio da un Jonin assassino, ad essere entrata nel mirino di un'associazione terroristica sconosciuta e ad essere sopravvissuta. Fortuna. Qui è tutta questione di fortuna, allora!» Scosse la testa, ridendo. «Io non voglio niente da te, Raizen. Cosa vuoi che voglia? Voglio solo te, come amico, al mio fianco.» Piangeva abbastanza da infradiciarsi il viso e tremava a sufficienza perché l'equilibrio della sua voce ne fosse compromesso. «Ci sono saldature che non vanno toccate. Vasi che non vanno scoperchiati. Ci sono cose che neanche tu puoi permetterti, nei miei confronti.» Rideva e piangeva nello stesso momento, ma non disse a cosa si stava riferendo. Era sicura che il Jinchuuriki lo avesse già compreso. «Lo devi capire. Non posso più essere ciò che vuoi che io sia...» Cercò di stringersi nelle spalle, quasi volesse preservarsi dall'andare in pezzi, ma continuò a sbagliare presa sulle sue stesse braccia finché non abbandonò il tentativo. «...Io devo solo...» Esitò. «...diventare abbastanza potente da proteggere tutti. Se chi mi circonda è felice, io sono felice. Se il mio Villaggio è sereno, io sono serena. Questo è quello che posso darti: il mio corpo immondo, il mio animo corrotto, proteso al desiderio di aiutare gli altri.» Strinse le ginocchia, piegandosi su se stessa come se si stesse accartocciando. «Lentamente imparerò di nuovo a ridere, ricorderò le cose che amo e tornerò felice. Ma non ora. Non domani. Non nei prossimi anni, forse.» Singhiozzò, e suo malgrado si lasciò sfuggire un gemito. «Non voglio che vai via... ma sono anche stanca di supplicarti di non farlo...questo è quello che posso darti, Raizen... prendi di me ciò che vuoi.» Chiuse gli occhi, scossa. «Tornerò ad essere felice. Imparerò a convivere con questa cicatrice, ad amare e a lasciarmi amare. Ma lo farò da sola, Raizen.»

    Sempre avanti. Sempre sola.


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    Lo spiraglio








    Ascoltò Shizuka senza emettere neanche un suono, acquietandosi mano a mano che lei descriveva completamente ciò che aveva solamente accennato in precedenza.

    Mh, sarà meglio.

    Sentenziò a discorso ultimato, convinto delle parole di Shizuka.
    Gli si avvicinò nuovamente quando iniziò a tremare, a piccoli passi, cercando di capire ad ogni avvicinamento cosa gli stesse succedendo, furono i sussurri a svelargli l’arcano.
    Disarmato. Così si poteva definire Raizen mentre osservava quella scena, del tutto indeciso sul da farsi si piazzò quindi davanti a Shizuka, sedendosi di fronte a le per poi raccogliere le gambe.

    Ei…?

    Chiamò senza ottenere risposta, era evidente che si fosse calata fin troppo affondo in chissà quale turbinio di ricordi. Era difficile ammetterlo, ma Shizuka era provata da quell’evento ben più di quanto lui fosse in grado di porvi rimedio. E non era esclusivamente un autogratificazione quella di poterla aiutare, voleva farlo perché non era in grado di vederla soffrire oltre, di vederla soffrire ancora.
    A rifletterci bene l’aveva vista ben poche volte libera dal fardello della sofferenza.
    Si fece più vicino e tese la mano verso il viso di lei, cercando di risvegliarla col contatto di un piccolo buffetto.

    È passato ormai.

    Non sapeva che altro dire e si limito a quello, tirandola verso di se permettendole di piangere senza essere vista, nascondendola nel suo petto.

    Non ho mai saputo che cosa volesse dire amicizia, e non ho intenzione di imparare adesso ad utilizzare un termine tanto sopravvalutato.
    Andrà bene essere ciò che siamo, Raizen per Shizuka e –poveraisterica- per Raizen.
    Anche se non vedo l’utilità di esserlo se continui ad affermare di voler fare tutto da sola.


    Si chinò affettuosamente su di lei, come mai aveva fatto lisciandole i capelli con la destrorsa mentre la sinistra premeva il piccolo pulcino contro di se.

    Sai, non ho abbandonato mai ne te ne Kuroro.

    Confessò a bassa voce, nonostante non fosse necessario lo faceva quasi per istinto.
    Le frase che stava per dire in realtà meritava di essere solamente pensata, ma ormai era un segreto che teneva da troppo tempo. L’unica cosa che lo frenava dal dirlo in quel momento era lo stato di Shizuka: come avrebbe reagito?
    Bene? Male?
    Voleva vedere quanto importante per lei sarebbe stato quel piccolissimo spiraglio, messo li per caso, per cui si limitò solamente a citarne il nome, non aggiungendo altro.

     
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    Shizuka and Kuroro Kobayashi




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    “Io ho solo te, Shizuka...sei il mio sole!”

    “...e tu il mio sole, onii-chan!”



    “Qualunque cosa accada, anche se tu sarai lontana per i tuoi viaggi e io per le mie future missioni, saremo sempre uniti.
    Qualunque cosa accada, Shizuka, tu sarai sempre e solo il mio grande pensiero!”


    Il Clan Kobayashi era la più potente dinastia non Shinobi di tutto il Paese del Fuoco.
    Come ogni nobile famiglia, la consorte del capoclan era solita dare uno o più figli al marito, perché vi fosse sempre un erede in grado di portare avanti il buon nome della tradizione. Benché lo scenario di una morte del primogenito non fosse la più piacevole da auspicare, in un mondo prevalentemente marziale come quello esistente, in cui complotti e combattimenti erano la normalità più scontata, era una possibilità concreta...
    ...e quello che, in un certo senso, era successo al Clan Kobayashi, poiché il tradimento di un figlio era come la morte dello stesso, e quello che prima Heiko e poi Toshiro si erano rassegnati negli anni ad accettare.

    Ricordava tutto come se fosse accaduto quello stesso giorno.

    Avere il coprifronte in mano era così bello che non poteva fare a meno di rigirarselo continuamente tra le dita.
    Al tempo, appena sedicenne, Shizuka non si sentiva legata alla vita Shinobi per quel genere di responsabilità che solo dopo l'attacco terroristico di Karasu avrebbe cominciato a maturare nel suo cuore; ma vi era accomunata solo da quel genere di entusiasmo tipico adolescenziale che nasce dal raggiungimento di qualcosa di molto difficile da ottenere. In modo molto infantile era felice di essere diventata Genin non perché le interessasse realmente, ma perché era riuscita laddove molti avevano fallito, ed era stata capace di farlo anche come la migliore di tutta l'accademia, ottenendo il massimo dei voti.
    Era un portento. Un vero genio. Il Villaggio della Foglia faceva bene a parlare così entusiasticamente di lei e del suo Clan! Nessun Kobayashi aveva mai sbagliato neanche una delle mire a cui si era interessato! Mai!
    ...E lei, poi... un vero, vero talento. Un prodigio. Si diceva che non nascesse un genio delle sue proporzioni dai tempi della seconda generazione guidata da Kamui Kobayashi, il Capoclan che riuscì ad estendere i domini della sua dinastia in tutti i Paesi conosciuti.
    Stanca di ricevere complimenti solo dalla sfera civile della realtà che sapeva esistere, però, Shizuka era finalmente riuscita ad ottenere approvazione anche da quella Shinobi.
    Pregna di quella presunzione caratteristica di chi non ha mai avuto reali problemi nella propria vita ma piuttosto sempre una fortuna sfacciata in ogni iniziativa intrapresa, la Principessa della Foglia aveva preso la sua promozione a Genin come l'inizio di un'altra sfolgorante carriera... chissà, forse sarebbe potuta persino diventare Hokage! Non sembrava poi tanto difficile primeggiare in tutto, del resto una persona con il suo quoziente intellettivo poteva fare tutto!

    Già. Poteva fare tutto.
    Poteva avere tutto.
    Poteva pretendere tutto.
    Non c'era niente che Shizuka Kobayashi non potesse avere.
    Era ricca. Era graziosa. Era intelligente.
    Aveva soldi, potere, ammiratori, pretendenti...
    ...ma non molto più di questo.

    Era sola.

    La rosa più pregiata di un Clan tanto potente da potersi imporre sull'economia di un intero Paese con uno schiocco di dita, i cui compagni di giochi erano figli di Daimyo o di importanti diplomatici; Shizuka era l'espressione più pura di una vera Principessa della tradizione: viziata, presuntuosa, sfacciata, e sola.
    Certo, aveva la sua famiglia. Ritsuko. Gli Aoki. Le sue domestiche e i suoi garzoni...e poi?
    E poi aveva suo fratello. Kuroro.

    Kuroro era tutto ciò che serviva a Shizuka per non pensare mai alla propria solitudine. Era ciò che le bastava per non ricordarsi che se si fosse avventurata da sola in una qualsiasi via del villaggio in cui era nata le persone avrebbero aperto lei il passaggio per la paura di guardarla in volto o di urtarla.
    Era il suo metro di paragone con il mondo, la sua fonte di messa in discussione, la sua domanda senza risposta.
    Al contrario suo, invece, Kuroro era stato cresciuto come un Uchiha, come uno Shinobi. Aveva ingoiato fango cadendo nella polvere sin da piccolo, si era ferito e aveva lasciato che il sangue insozzasse le sue vesti, aveva pianto amaramente della privazione, della paura, dell'angoscia... situazioni che lei non era neanche capace di immaginare.
    Kuroro era parte del villaggio come lei sapeva non avrebbe potuto esserlo mai. Il suo cognome non veniva mai pronunciato per primo, ma solo come appendice di situazioni burocratiche che solo molti anni dopo lei avrebbe scoperto essere all'ordine del giorno per lui, il figlio bastardo di Heiko e come tale controllato a vista da un Clan Shinobi che non lo avrebbe voluto neanche nato.
    Solo molto dopo Shizuka avrebbe scoperto cosa lui aveva dovuto passare per essere così integrato nel villaggio e per muoversi con la libertà che il ruolo di apprendista ninja concedeva: gli Uchiha avevano controllato la sua vita come avvoltoi in attesa di un errore, senza intervenire direttamente ma condizionando lo stesso ogni sua decisione. Avevano inoculato in lui il terrore di sapere che da un suo errore sarebbe potuta derivare una ripercussione sulla sua famiglia, e prima fra tutti sulla loro madre, Heiko, colei che aveva fortemente sostenuto il suo desiderio di diventare Shinobi, tranquillizzandolo su ogni dubbio, baciandogli la fronte quando piangeva non sapendo se ce l'avrebbe o meno fatta.
    Era potente, lei. Heiko Uchiha era la donna che avrebbe dovuto diventare capoclan della stirpe del ventaglio, come poteva pensare suo figlio che i membri con cui condivideva il sangue l'avrebbero uccisa così facilmente per un suo errore? Certo, c'era una faida in corso, ma niente a cui non si sarebbe potuto rimediare in futuro. E forse lui sarebbe stato l'anello in grado di creare questa unione e, così facendo, di saldare la ferita nel cuore della bellissima Mononoke della tomoe a tre petali... perché anche se una scelta fu fatta, e l'amore posto come prima necessità, il richiamo del sangue sarebbe sempre rimasto forte in lei, e chi nasce Uchiha è destinato a morire da Uchiha, anche se il proprio stesso Clan intende negare questo diritto.
    Aveva subito tutto questo Kuroro Kobayashi. Questo e molto altro. Ma lo aveva fatto con determinazione e devozione perché nessuno più di lui era nato con il desiderio di proteggere Konoha. Aveva sognato il coprifronte per tutta la vita, come sua sorella aveva desiderato l'haori da capoclan verde smeraldo di suo padre.

    I fratelli Kobayashi avevano sempre desiderato qualcosa.
    Lo avevano fatto specularmente l'uno all'altro, il primo da una parte, la seconda da un'altra.
    Come il primo guardava alla luna, la seconda sperava di brillare come il sole.
    Erano diversi come il giorno e la notte. Come il bianco e il nero.
    Eppure erano l'uno per l'altra. Si amavano come solo chi condivide lo stesso sangue poteva fare.
    Kuroro sarebbe morto per Shizuka, e Shizuka concepiva la sua fine solo per Kuroro.
    Nella sua umile determinazione il primo e nella sua principesca sfacciataggine la seconda, entrambi amavano l'altro con il cuore e con la mente. Un tipo di amore, quello, che neanche quello del futuro compagno di una vita avrebbe potuto eclissare.

    Erano tutto questo Shizuka e Kuroro Kobayashi, il Sole e la Luna del Clan dell'Airone.

    Ma poi lui aveva tradito Konoha.
    Quando avevano ottenuto il loro coprifronte. Quando lui aveva finito di apprendere tutto ciò che lo rendeva molto superiore al suo grado ufficiale. Quando finalmente avrebbero potuto iniziare un nuovo capitolo, insieme...
    ...lui aveva tradito il Villaggio della Foglia.

    Di lui aveva lasciato solo due lettere, una per la famiglia e una per lei, e lo stesso coprifronte ottenuto da poco. Questo era tutto ciò che era rimasto di Kuroro Kobayashi, sul tavolo della Sala dei Ricevimenti, prima che di lui si perdesse ogni traccia.
    Improvvisamente, con una vividezza che la colpì, Shizuka ricordò con chiarezza che la prima cosa che aveva pensato quando aveva irrotto nella Sala della sua magione –in cui tutti i membri della sua famiglia rimanevano in piedi, immobili a guardare quel tavolo maledetto senza che nessuno avesse il coraggio di toccarlo– era che la placchetta in metallo del coprifronte di Kuroro era davvero lucida. Forse aveva passato le ultime ore prima di andarsene a strofinarla con il panno che lei stessa aveva tessuto e gli aveva regalato come buon augurio alla sua carriera.
    Ricordò tutto.
    Suo padre era immobile, con la fronte aggrondata in un'espressione perplessa. Sembrava non capire realmente la circostanza, e lei non se ne stupì perché non era mai stato pratico del mondo Shinobi, a cui aveva sempre guardato solo come l'altra metà della medaglia della sua vita.
    Ma Chizuru e Masamune Uchiha, invece, sembravano aver capito molto bene, e rimanevano immobili, come pietrificati. I loro volti, splendidi persino nella vecchiaia, combaciavano nella stessa espressione, colma di un dolore che andava molto oltre la perdita di un nipote, e che affondava le radici in quel tipo di orgoglio che solo un ninja può davvero sentire: quello della stima per il proprio Villaggio, il proprio Paese e la propria gente; in nome del quale si era pronti a morire, e verso cui si devolveva la propria esistenza scegliendo la strada della lama.
    Ma ciò che più ricordò di aver trovato sconvolgente, era il volto di sua madre.

    Heiko Uchiha era ferma di fronte al tavolo, frontale rispetto all'apertura su cui lei si era imposta. I suoi occhi neri, affilati come quelli di una lince, guardavano il tavolo ma sembravano oltrepassarlo. Annegavano nel coprifronte immacolato di un figlio che sembrava assurdamente aver già capito di non poter rivedere mai più.
    E piangeva.
    Lacrime bollenti precipitavano nel vuoto offerto dall'inclinazione della sua testa, senza però che la sua espressione vuota ne venisse scalfita.
    Non era mai stata addestrata a mostrare dolore in pubblico. Negli anni in cui era stata “la moglie di Toshiro” e non più “la temibile Jonin” aveva imparato ad esprimere gioia e irritazione, a lasciare che i suoi sentimenti si manifestassero sotto forma di taglienti e sarcastiche risposte, riscoprendo così il piacere di vedere nel prossimo le reazioni alle proprie imprevedibili azioni... ma mai era riuscita ad apprendere, e neanche ad imitare, la capacità di esprimere la sua sofferenza, segregata a urlo privo di voce in un angolo dimenticato del suo cuore.
    Shizuka non aveva mai visto piangere sua madre, se non la volta in cui Kuroro stesso si era rotto una spalla e una gamba, finendo poi in ospedale. Lei era piccola, molto piccola, e ricordava perciò solo che la sua mamma piangeva, chiedendo al figlio scusa, dicendo lui che ci avrebbe pensato personalmente, di non preoccuparsi più di nulla, che non sarebbe capitato ancora...
    …e poi un'altra volta. Quella in cui aveva portato lei al Clan Uchiha.
    Al tempo non ne conosceva ancora la ragione, non sapeva della tessitura della sua famiglia per proteggerla dal giogo degli Uchiha, e quella volta ricordò allora solo di come i volti freddi e le parole glaciali del Capoclan del Ventaglio –“I figli di una reietta saranno ai nostri occhi reietti. I tuoi figli cresceranno nel ripudio come tu morirai in esso. Non ci sarà nessun riconoscimento da parte nostra. Tua figlia è una sudicia bastarda, non le riconosciamo nessuna valenza. Hai preso una scelta, Heiko, e saranno i tuoi figli a pagarne le conseguenze...”– avevano ferito sua madre abbastanza da farla rimanere chiusa nelle sue stanze per settimane. Era piccola, lei, aveva appena tre o quattro anni, ma ricordava di averla sentita piangere dietro le porte scorrevoli di riso quando la cercava per mostrarle la nuova bambola ricevuta in dono. Ricordava di come chiedeva perdono a suo marito, che di rimando non si stancava mai di sussurrarle parole d'amore all'orecchio, per calmarla o sperare almeno di riuscirci...

    Heiko Uchiha. L'indistruttibile Heiko Uchiha.

    Era lei che aveva rischiato di morire per il tradimento di Kuroro, come i patti tra i due clan volevano. Lei che era capro espiatorio e piaga purulenta da eliminare.
    Lei che si era issata di fronte ai mandanti degli Uchiha per proteggere le persone che amava. Per proteggere lei.
    “Toccate questo Clan.” Aveva detto. “Toccate mia figlia.” Aveva precisato. “...E l'ira della Mononoke rossa si abbatterà su di voi e su questo Villaggio. Mi fermerete, certo, ma a che prezzo?”

    Toshiro Kobayashi aveva usato tutta la sua influenza per inviare gli Aoki come inseguitori assieme agli Uchiha. Tutto il suo potere per trattare con l'amministrazione e l'Hokage la pena del figlio qualora fosse stato riportato al Villaggio...
    …ma non era stato riportato. Di lui si era persa ogni traccia.
    E lei, improvvisamente, era stata allontanata.
    Lei che si era messa il coprifronte in testa e uno zaino in spalla, sicura di poter riuscire laddove molti Jonin specializzati avevano fallito.
    “Riporterò io a casa Kuroro onii-chan! Non temete Okaa-sama! Otou-sama! Va tutto bene Oji-sama! Obaa-sama! Ritsuko! Ce la farò!”
    Ma non ce l'aveva fatta. Stordita e sedata era stata nascosta per un anno intero nel Paese della Roccia, lontano da tutto ciò che avrebbe potuto nuocerle, persino da lei stessa, e protetta da guardie dalle capacità raffinate che non avrebbero permesso a nessuno di toccarla, ma neanche di scappare.
    Tradita e abbandonata era stato quello l'inizio della sua condanna... proprio quando il suo Sharingan era pronto per manifestarsi, lei aveva ceduto all'odio di una convinzione da adolescente viziata: la sicurezza di non essere amata e di essere stata tradita dalla sua famiglia, da suo fratello e dal suo unico e adorato maestro.
    Non era mai stata addestrata a domare il suo potere, e il suo corpo, messo di fronte alla prova, lo aveva rifiutato, annegando poi in esso.

    E lei da bianca che era, divenne grigia.
    E da grigia, poi, in parte nera...
    ...e l'erosione continuava, sarebbe per sempre continuata, mentre lei lottava per fermarla, per conquistare il potere che le serviva come l'aria che respirava, perché se solo per un secondo si fosse fermata, si fosse arresa, la malvagità latente del suo Sharingan l'avrebbe divorata, snaturandola.
    Lei che era nata bianca, era stata corrotta grigia e aveva deciso di diventare nera.


    Condannata. Per sempre.


    Ed era tutta colpa di Kuroro, perché se per un solo secondo si fosse fermato...
    ...avesse dato il tempo a loro di capire...
    ...a lei di sapere...
    ...agli eventi di sviluppare...
    ...al destino di fare il suo corso...

    ...tutto questo non sarebbe successo. Tutto.
    T u t t o.


    Pulendosi gli occhi con un gesto tremante della mano, la kunoichi alzò debolmente gli occhi verso Raizen. Tremava, piangeva ancora, debole e indifesa, ma allo stesso tempo incredula, contesa tra felicità e rabbia: la reazione più sincera, vera e comprensibile; più umana del mondo [recitazione].
    «...Tu sai dov'è Kuroro?» Gemette con voce rotta. Spaesata. Spaventata. Desiderosa. «...Tu sai dov'è il mio onii-chan...?»

    Già. Il suo onii-chan.

    Nel profondo del suo cuore qualcosa di oscuro e affamato, vibrante e tremante d'eccitazione, ghignò con gioia, leccandosi lentamente le labbra.

    Il suo onii-chan.


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    Ed il nome bastò a Shizuka per aggrapparsi ad esso come un simbionti, pronto a pungere direttamente il midollo spinale e prosciugare la vita dell’ospite come l’essere gretto e strisciante che era, senza dare alla sua preda l’opportunità di conoscere cosa l’avesse ucciso.
    Il Colosso non poteva sapere cosa Shizuka pensasse realmente in quel momento, ma sapeva come si mentiva, e mentire ad un bugiardo era sempre difficile, specialmente se fino a quel momento gli si era offerto il proprio cuore.
    Dopo aver visto l’organo pulsare di sincerità davanti ai suoi occhi non poteva non notare lo scrigno che ora lo precludeva al suo sguardo, aveva compreso che la Principessa era cambiata però in quel momento tornò improvvisamente a reagire come avrebbe fatto qualche tempo prima, un comportamento del tutto in contrasto con la convinzione che ostentava fino a qualche secondo prima.
    Convinzione che Raizen stesso non poteva che stare a guardare, impotente davanti ad essa, per quanto errata la trovasse.
    Quell’appellativo, “onii-chan” ora era troppo distante da lei perché lo usasse con quella naturalezza in quel momento, si era mostrata quasi incapace di comprendere cosa comportasse un simile suffisso, era caduta preda della sua stessa sincerità.
    Dopotutto non si può cambiare il personaggio da interpretare se la recita è già in corso, questo aveva imbrogliato Shizuka, cercare di cambiare volto troppo repentinamente senza concedere la minima sfumatura, era anche vero che non poteva sapere che sarebbe stata messa alla prova in quel modo, ma la vita è imprevedibile no?

    Perché vuoi sapere dov’è?

    La voce baritona del Colosso ne fece vibrare il petto un’inflessibile tono accusatorio ne permeava ogni singola lettera, lei focalizzata sulla sua crescita e sui colori vividi delle sue ali da farfalla ancora flaccide poteva forse averlo dimenticato, ma entrambi avevano un ruolo e a Raizen ora spettava quello del mentore.
    Porse quella domanda sia per reale curiosità sia per sapere fin dove si sarebbe spinta lei con la recita o con quella sua nuova personalità.
    Erano ancora vicini, estremamente vicini, ed entrambi potevano sentire la bestia nascosta all’interno dell’altro levare il capo minaccioso, fu faticoso, ma riuscì ad imporre la propria mano sul capo della sua ammansendola e costringendola a terra, attento a non farsi divorare da essa. Per quanto quella parola, “onii-chan” pronunciata con la sudicia bocca di una bugiarda gli avesse fatto aggricciare la pelle in un moto di indistinto disprezzo non era ancora abbastanza per sfamare la bestia, ancora troppo debole per un Raizen che cercava di maturare lasciando indietro parte del suo irruento carattere.

     
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    You want to believe that there's one relationship in life that's beyond betrayal. A relationship that's beyond that kind of hurt. And there isn't.

    Shizuka Kobayashi's resolution.




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    «Lo sai perché intendo sapere dov'è.»

    Rispose Shizuka, allontanandosi dal Jonin quanto le bastò per sorridere lui con gentilezza.
    I suoi occhi, verdi praterie primaverili, annegarono lentamente in un colore più scuro, diventando progressivamente simili a boschi notturni.

    «Strapperò lui entrambi gli occhi e lo ucciderò.»

    Disse quelle parole con la semplicità che nasce dall'abitudine, come se si fosse allenata a ripetere quelle parole ancora e ancora, fino a quando il loro suono non fosse divenuto un canto conosciuto alle sue orecchie. A quel punto, però, la sua espressione si fece improvvisamente compassionevole e lei, posando con dolcezza una mano sul torace del Jinchuuriki, sorrise.

    «Ha tradito Konoha. Ha distrutto la mia famiglia condannando mia madre quasi alla morte.»

    ...e il sorriso divenne smorfia.
    Il volto da bambola si increspò in un'espressione talmente disgustata che se ella avesse rigettato a terra l'attimo successivo Raizen non avrebbe potuto dirsene sorpreso.
    Non era un disprezzo solo supposto, il suo, figlio di un risentimento infantile e personale, ma un sentimento reale e sentito. Profondo. Radicato.
    Contrariamente a quello che la Volpe avrebbe forse creduto non vi era però odio nelle sue parole, ma totale freddezza. Se mai avesse messo in atto ciò che aveva annunciato non lo avrebbe fatto per rabbia, ma per seguire un ideale di giustizia che, nella sua mente, era retto e che nasceva da qualcosa che però, al Jonin, non era dato sapere.

    «Non mi interessa cosa fa, cosa vuole fare o cosa ha fatto fino ad ora. Ha lasciato Konoha annunciando la sua decisione di “seguire un certo ninja” posando su un tavolo due lettere. Nessuna delle due comprensibili, agli occhi dell'amministrazione del tempo.» Disse, e la sua voce era diventata ora talmente gelida da dare i brividi. «Dimmi, ti prego, qual è la verità, Raizen...? Mi verrai a raccontare che è buono e caro e che continua ad amarmi, ad amarci?» Sorrise di cuore, benché sarcastica. «Il suo coprifronte è ancora a casa mia. Lo ha lasciato lì. E' sparito. Cosa pensi che significhi tutto questo? Il villaggio ci ha condannato, quella volta. Sono anni che cerco di riscattare il buon nome del mio Clan nell'ambito Shinobi.» Affilando lo sguardo, serpeggiò come una vipera. «Sono anni che lo cerco.» E a quel punto, d'improvviso, riprodusse la sua stessa voce, quella squillante e allegra di tanti anni prima, quando era ancora una bambina che zampettava dietro il suo amato Kuroro-nii e lo stesso Raizen, pigolando la sua positività incrollabile di fronte all'orrore del mondo cui si era affacciata. «”Salverò io onii-chan!”» Cinguettò la donna, mentre i suoi occhi diventavano sempre più scuri. La sua mente, già provata dalla rievocazione di poco prima, e il suo animo, messo a dura prova dal ricordo di Karasu, parvero per un istante precipitare in un abisso troppo profondo perché chiunque vi vedesse dentro senza cadervi a sua volta. Le labbra di lei, tremarono. «“Lo riporterò a casa... oh, onii-chan, dove sei? Dove sei? Ti aiuterò, se sei nei guai, ti salverò, se sei stato fatto prigioniero. Diventerò forte per te, ti prego, torna da noi...”»

    Ferma nel punto in cui si trovava, a quel punto Shizuka si ritrasse ulteriormente, quasi avesse paura di contagiare il Jinchuuriki di Konoha con la coltre nera e corrotta che sentiva essere stata liberata da qualche parte dentro di lei e che sembrava essere divenuta molto più affamata di quando aveva disperatamente cercato di rinchiuderla in una parte isolata del suo animo e del suo cuore.
    Portandosi una mano al petto e premendo le unghie nella carne, la ragazza abbassò la testa e solo a quel punto tacque, inspirando a fondo. Quando riaprì gli occhi, questi avevano riacquistato quel poco di colore che, in passato, li aveva distinti nella mente di chi li guardava per la loro bellezza ed espressività.

    «Ha rinnegato la Foglia e ha tradito tutti noi.»

    Disse di nuovo, e il tono di voce incrinato e schifato con cui pronunciò quelle parole parlò chiaro su cosa la donna non fosse riuscita a calmare, dentro di lei.

    «Io non ho niente, Raizen. Lo vedi da solo, in me non c'è più molto che si possa definire “pulito”...ma c'è una cosa che non tradirò mai, ed è Konoha e l'amore che provo per la mia famiglia, per te, per i miei amici e le persone che chiamo “compagni”.»

    E a quel punto guidò i suoi occhi dritti in quelli di Raizen, inchiodando le iridi scarlatte del Jonin con un'espressione affilata.

    «Se persino un rigurgito di veleno quale sono io ha imparato a rendere l'amore per questo villaggio e la sua gente l'unica cosa che la rende umana e non bestia... quale scusante può avere quel nukenin per credersi ancora “giusto”?» E affilando lo sguardo aggiunse: «Non c'è niente che io non possa fare per Konoha, Raizen. L'uomo che un tempo chiamavo “fratello” è un traditore, ora, e se un giorno lo troverò farò ciò che la giustizia enuncia: lo catturerò e lo porterò vivo qui, ma se opporrà resistenza lo ucciderò, strapperò lui gli occhi e distruggerò il suo corpo per impedire che i segreti che contiene vengano carpiti.» Disse con rigore sin troppo marziale...

    ...del resto, si sapeva, il concetto di “opporre resistenza” era molto ampio nel mondo accademico, quando si aveva a che fare con un nukenin.


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    A quel punto non restava che tirare il pesce nella barca.
    Rispose al sorriso, seppur non in maniera del tutto naturale, forse un particolare riflesso neuronale lo portò ad imitare la sua allieve.

    Ci hai provato, lo so.
    E, ti pregherei di non rifarlo, posso sopportare una sfida o tu che cerchi di dimostrarmi quanto sei cresciuta.
    Ma decisamente non transigo sulle prese per culo.


    Sospirò, preparandosi ad affrontare un discorso che non reputava affatto semplice.

    Tu non gli torcerai neanche un capello finchè avrò fiato in corpo.
    Kuroro non ha alcuna colpa, se non quella di anelare una libertà più grande di quella concessagli dal vostro clan di schizzoidi.
    Potresti prenderlo a cazzotti per un anno intero, riducendogli la faccia in poltiglia ma solo perché ti ha rubato le pinzette per le sopracciglia.
    Se invece è per i mali che dici ti abbia causato… beh mi dispiace ma come non ho mai accettato il trattamento che hanno riservato a te non posso accettare i risultati di ciò che loro credano sia un crimine.
    Perché non lo è stato.


    Inchiodò il suo sguardo in quello di Shizuka, non era arrabbiato, ma la sua sicurezza e la sua decisione erano in grado di addensare persino l’aria che intercorreva tra i due creando un muro che nessuno avrebbe mai potuto scalfire.

    L’amministrazione non è coinvolta in tutto questo, il tuo clan si.
    Cent’anni fa venivano perdonati criminali che dopo sono diventati leggende, non vedo perché tuo fratello, il cui unico errore è stato quello di non dirvi dov’è andato debba essere incriminato di qualcosa.
    Non è un traditore e non lo è mai stato, è un uomo libero un konohaniano che abita fuori dalle sue mura, e non mi risulta sia un crimine.
    Ma voglio ripetertelo, tuo fratello ha fatto una scelta, e non era sbagliata. Era una scelta, punto e basta, non l’ha fatto con malizia, il suo unico proposito era allontanarsi da voi, probabilmente da quello stesso clan che vi ha maltrattati per tutto questo tempo, non trasformare lui in un aguzzino, è vittima quanto e più di te di questi eventi.
    Cosa pensavano? Di poterlo ingabbiare qui dentro? Di metterlo a catena? E per cosa poi? Non ha leso NESSUNO con le sue azioni.
    Vuoi davvero accusare LUI?


    Si alzò mentre si massaggiava la fronte.

    Forza, si torna a casa, direi che è necessario raccattare qualche coccio.

    Le intenzioni del Colosso potevano forse non essere ben chiare a Shizuka, anche se lui riponeva ben poca fiducia in tale particolare, ma non gliene parlò a breve gli avrebbe dato risposte o certezze con le sue stesse azioni.
    Tornare a villa Kobayashi seguito da una donna e non da uno scoiattolino impaurito gli dava un certo orgoglio che gli permise di guardare Ritsuko con una malcelata supponenza, che accentuò con un sorriso.

    Non vorrei disturbarti oltre, per cui se non ti spiace aspetto qui qualcuno dei tuoi colleghi, se invece posso disturbarti direi che devi mettere su una riunione di famiglia.
    Mi serve Heiko, mi serve Toshiro, e mi serve anche qualcuno dei pezzenti con gli occhi a rotelle che condividano con loro almeno un quarto del sangue.


    Per quanto le parole fossero sgarbate e prive della minima educazione il tono era tranquillo, come se quello fosse il suo modo abituale di rivolgersi al prossimo. E di fatto era proprio così.
    Che l’avessero fatto aspettare sulla soglia della porta o dentro una delle stanze della magione non avrebbe fatto storie, avrebbe atteso che tutti i rampolli fossero pronti ad accoglierlo.
    Non sapeva se avrebbe portato rivoluzione o soltanto malumori, ma aveva un cesto carico di “doni” e li avrebbe consegnati, a costo di fare visita a quelle persone casa per casa. Radunarle era però la via più comoda, avrebbero condiviso l’uno le reazioni dell’altro e si sarebbero arricchiti di esse e probabilmente avrebbero reso a Raizen meno noiosa tutta quella manfrina.

     
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    The love of family and the admiration of friends is much more important than wealth and privilege

    Shizuka Kobayashi and Kobayashi Clan




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    «Quanto sei stolto.»
    La voce della Principessa della Foglia rise quando quella del Jonin cessò di pronunciarsi eppure lei si limitò a scuotere la testa. Benché il sarcasmo permeasse il suo timbro, il suo volto era piatto e gelido.
    «Tu non sai niente di politica e amministrazione, Raizen.» Disse la donna, alzando lo sguardo in quello del suo interlocutore. I suoi occhi verdi non avevano ancora riacquistato lo splendore smeraldineo che era il loro vanto, e oscillavano ancora pericolosamente in una notte scura. «Come è evidente che tu mi sia superiore in ambito Shinobi, è indubbio che io lo sia nei tuoi confronti per quanto riguarda questo genere di faccende.» E alzando una mano di fronte a sé, fece schioccare la lingua, quasi prevedesse l'interruzione da parte della Volpe. «Io nasco Principessa, i miei compagni di gioco sono stati figli di Daimyo e diplomatici. Mangio politica da quando sono piccola, sono stata educata a curare un impero economico e civile, se permetti penso di essere più dotta di quanto tu lo sia diventato con chissà quale lettura nella biblioteca di villaggio o chissà con quale esperienza in prima persona.» Non era un'osservazione, ma una constatazione. «Perdono la tua ignoranza, ma non perdono la decisione stolta che ne nasce. Parli come se conoscessi dinamiche che ti sono invece sconosciute, emani sentenze su condizioni che non sei in grado di capire. Mi dispiace, non è sicurezza la tua, ma stupidità.» Affilò lo sguardo, e reclinando leggermente la testa di lato sorrise, sardonica. «Kuroro ha preso una scelta ed è stata una scelta sbagliata. Fu lui a voler diventare Shinobi, nessuno tra i Kobayashi lo ha mai spinto su quella strada, per ovvie ragioni, così come nessuno tra gli Uchiha lo ha mai voluto tra le loro fila... ma una volta che aveva imparato ad attivare la sua innata, cosa credevi che sarebbe successo?» Rise, alzando gli occhi al cielo con commiserazione, facendo poi spallucce. «Voleva vivere come un contadino arando campi e allevando galline? Avrebbe solo dovuto dirlo. Il Clan Kobayashi non lo ha mai incarcerato come tu pensi, sono io l'erede della mia dinastia. Loro vogliono me, non lui.» Sibilò, riportando gli occhi in quelli scarlatti di Raizen. C'era qualcosa, nelle profondità di quelle iridi, che sembrava serpeggiare e sibilare... e che avrebbe sicuramente dato i brividi a qualcuno, ma con ogni probabilità non alla Volpe, l'unica creatura in grado di stare in piedi di fronte alla Principessa senza esserne schiacciata. «Mio padre avrebbe dato lui il permesso di trovare la felicità dove avrebbe reputato essere sicuro trovarsi, ma lo avrebbe fatto sapendo di poterlo rivedere, di poterlo continuare ad amare. Lui invece è scappato, ha lasciato il coprifronte a casa, ha detto di aver seguito qualcuno, e le sue tracce sono sparite benché alle sue calcagne fossero stati messi i migliori inseguitori degli Uchiha.» Adesso la sua voce si era fatta più graffiante. «Agli occhi dell'accademia non verrà considerato Nukenin fino a quando il suo nome non comparirà in un attacco ai danni dell'alleanza... ma per Konoha è bastato ciò che ha fatto per considerarlo traditore.» A quel punto sorrise pudicamente. «Oppure vuoi venirmi a raccontare che mi sono sognata tutto? Che l'amministrazione non ci ha inchiodati? Che io non sono stata rinchiusa in un'Okiya per un anno? Pensi che tutto ciò che quel maledetto ha fatto non abbia avuto conseguenze?» Parve intenzionata a ridere, ma dalla sua bocca uscì solo un ghigno. «Dimmi Raizen... credi di saperne davvero più di me di politica e diplomazia?»

    Ma arrivati a quel punto non parve intenzionata a dire molto altro, come diede a intendere quando si chiuse nel suo pudico silenzio limitandosi ad alzarsi solo quando lo stesso Raizen lo fece. Non disse niente quando la Volpe propose di tornare a Villa Kobayashi, sapeva del resto di doverci rientrare prima o poi e fronteggiare così ciò che il suo crollo mentale e fisico aveva istigato nel suo Clan...
    Nonostante ciò, se avesse dovuto essere onesta, non avrebbe saputo dire cosa il colosso avrebbe voluto ottenere da ciò che definiva candidamente “raccattare i cocci” ed ebbe di che riflettere mentre tornava alla magione, affiancandolo nel più totale silenzio: voleva essere così folle da pronunciare il nome di Kuroro di fronte a dei genitori che solo da poco tempo sembravano essere scesi a patti con il loro cuore? Raizen non era un uomo sposato, né un padre di famiglia, ma non poteva credere che mancasse della più elementare forma di sensibilità concessa all'uomo...
    ...oppure voleva parlare di lei? Lo aveva già fatto in passato, quando fu del suo ritorno a Konoha dopo un anno di segregazione nel Paese della Roccia, per fronteggiare gli Uchiha che volevano sigillare il suo sangue, reputato troppo pericoloso perché privo d'educazione e rigore... ma di cosa, stavolta? Di cosa doveva parlare?
    Non aveva mai apprezzato le prese di posizione di Raizen sul suo Clan, il Kobayashi quantomeno, e per quanto si sentisse una parte di lui come sperava ancora bambinescamente lui si sentisse una parte di lei, non avrebbe tollerato, stavolta, una mossa troppo azzardata.
    Lei poteva sopportare tutto, aveva giurato di rendere le sue spalle forti, grandi abbastanza per permetterle di rimanere in piedi da sola di fronte a quel Villaggio per il quale si sarebbe sacrificata un pezzo dopo l'altro. In nome di una potenza che cominciava ad anelare in modo affamato e mai pago, aveva promesso che avrebbe protetto ciò che amava... e la sua famiglia era la prima a comparire in quella lista. Non avrebbe perdonato neanche a Raizen una parola di troppo, non ora che dopo tanto tempo i suoi genitori e i suoi nonni si stavano riprendendo, e soprattutto non ora che la sua condizione li aveva così profondamente e disperatamente...

    «OJOU-SAMA»



    ...distrutti.

    «SHIZUKA-CHAN!»



    Quando i due Shinobi compirono i primi due passi all'interno del giardino d'ingresso, due voci contemporanee, una maschile e una femminile, si infransero sul loro volto con violenza, e non ci sarebbe stato bisogno di chiedere a chi appartenessero poiché Ritsuko Aoki e Akihiko Kobayashi si alzarono di scatto dalla pedana rialzata dell'ingresso della magione e, la prima saltando giù con un'inaspettata agilità mentre il secondo quasi rotolando a terra, cominciarono a correre verso i due ninja.
    «OJOU-SAMA!» Urlò Ritsuko, gettandosi al collo della Principessa dei Kobayashi e stringendola talmente tanto che lei, per un attimo, temette di soffocare. «CI AVETE IMPIEGATO COSI' TANTO TEMPO! NON SAPEVAMO SE INTERVENIRE O MENO!» Gemette la domestica, improvisamente mettendosi a piangere. Parlava come se fosse sempre stata a conoscenza della posizione della giovane Erede, per quanto folle quello poteva apparire. «STATE BENE?! VOLETE RIPOSARE?! AVETE UNO SGUARDO COSI' PROVATO!»
    «Sto bene.»
    Si limitò a rispondere Shizuka, alzando con dolcezza le mani a stringere a sé la sua Kumori e accennando a qualcosa di molto simile ad un sorriso, per quanto tirato in una sorta di paresi dettata dall'abitudine. «Ho mangiato molto e ho addirittura fatto attività fisica.» Ammise la ragazza... ma per un attimo le sue parole parvero non essere udite.
    Immobile con le braccia sollevate, Ritsuko rimase come paralizzata, continuando a guardare di fronte a sé senza riuscire a dire assolutamente niente, un comportamento tutt'altro che consono alla giovane Aoki... ma non isolato, poiché se ella sembrò d'improvviso drenata della capacità di parlare, Akihiko Kobayashi, in piedi a qualche passo di distanza dal trio, guardò l'amata cugina come se si trovasse di fronte ad una benedizione inaspettata e immensa.
    Portandosi lentamente una mano leggera e affusolata alla bocca, l'esponente del ramo del Paese dell'Acqua della Casata Principale Kobayashi sentì i suoi occhi farsi colmi di lacrime e il suo naso prudere violentemente, e tutto con una tale incalzante rapidità, che quando sentì bollenti lacrime cadergli a solcare il viso non se ne stupì, non quanto Hisoka Aoki per lo meno, che invece, trasalendo e portandosi le mani ai capelli, non seppe se cominciare a muoversi nervosamente sul posto se per il miracolo cui stava assistendo o per il suo Padrone in preda a singhiozzi silenziosi.
    Per la verità parve che nessuno dei presenti sapesse precisamente come comportarsi, tanto che il gruppo rimase per qualche istante in quel modo, fermo e statico... fino a quando, improvvisamente, Akihiko non si voltò in direzione di Raizen.
    Benché fosse un ragazzo molto alto per lo standard conosciuto, circa sul metro e settantasei, il giovane nobile non arrivava che alle spalle del Colosso della Foglia, eppure, a dispetto di quanto si potesse immaginare, quella differenza di corporatura parve non sconsolarlo e lui, pulendosi il volto con una mano, si lisciò il kimono da uomo che indossava e poi...
    ...ponendo un ginocchio a terra, e poi subito dopo l'altro, si inchinò.
    La fronte si abbassò fino a toccare il suolo e Akihiko Kobayashi rimase così, immobile, inducendo solo a quel punto il movimento persino in Ritsuko che, girandosi a guardare sconvolta la scena, parve incapace di capire cosa fare. Un'esitazione che invece Hisoka non denotò perché, saltando letteralmente sul posto, si gettò immediatamente a terra accanto al suo Signore, prostrandosi a sua volta.
    «Grazie.» Sussurrò il nobile, con la voce rotta dal pianto. «Per tutto ciò che avete fatto, qualunque cosa abbiate fatto, grazie. Possa il nome di Akihiko Kobayashi essere per voi una luce nel bisogno, un supporto, un'alleanza.» Gemette. «La dislocazione del Paese dell'Acqua del Clan Kobayashi vi è d'appoggio.»
    «Il Clan Kobayashi ha sempre protetto e supportato Raizen Ikigami.»
    Disse allora Shizuka, di punto in bianco, guardando suo cugino a terra. Scostando leggermente Ritsuko da sé, la ragazza si avvicinò al sangue del suo sangue e con dolcezza posò una mano sui suoi lunghissimi capelli d'argento riversi al suolo, prendendo ad accarezzarli con una delicatezza che nasceva forse dall'incertezza. «Come Principessa ereditaria credi che avrei fatto mancare il mio appoggio alla mia altra metà?» Domandò la donna, sorridendo quel poco che il suo corpo le permetteva di fare. «Scusami, Aki-nii...» Esitò, alzando istintivamente lo sguardo in quello di Raizen, quasi cercasse in lui qualcosa. «Scusatemi tutti... Ritsuko, Hisoka...» Mormorò, abbassando gli occhi. «Chiedo perdono, io–...»

    «Fai bene a chiedere perdono.»



    Il suo passo era stato leggero abbastanza per impedire che gli astanti, ad eccezione di Raizen e probabilmente un'altra inaspettata persona, si accorgessero del suo arrivo. Eppure Toshiro Kobayashi non aveva agito con nessuna malizia, ma piuttosto con incuranza, come se si fosse ritrovato lì per caso: come spesso accadeva, sembrava sempre arrivare quando era giusto che arrivasse. Quasi fosse una magia.

    «Hai disubbidito ai miei ordini.
    Hai preteso di intraprendere la via dello Shinobi.
    Hai stipulato un contratto con il tuo stesso Clan pur di mantener fede alla tua testardaggine.
    Hai messo la tua vita a rischio più e più volte.
    Hai osato distruggere con la tua inettitudine il Villaggio della Foglia che l'Airone dei Kobayashi supporta da centinaia di anni.
    Ti sei persino permessa di tentare di morire mentre ti impegnavi tanto a proteggerlo come la stupida che sei.
    Sei andata in coma, hai perso il senno della ragione, hai permesso alla tua abilità innata di corromperti...»



    Avanzava a passo cadenzato, pesante, molto poco elegante.
    Alle sue spalle, silenzioso come un'ombra, leggero come una piuma, acuto come una fiera, Mamoru Aoki seguiva il capoclan dei Kobayashi con una concentrazione di cui, a quel punto, solo Raizen Ikigami avrebbe potuto percepire l'aura.
    Benché i due possedessero lo stesso titolo, paragonare Mamoru a Ritsuko sarebbe stata una forma di follia di sin troppo ampia portata, non sarebbe stato difficile per il Jonin della Foglia capirlo...

    «...E come se non bastasse, dopo tutto questo, ti sei azzardata ad andartene di casa senza chiedere il permesso.
    Hai usato l'appoggio di tuo cugino per andartene con quest'uomo.
    Hai di nuovo fatto solo e solamente il tuo interesse.»



    Toshiro Kobayashi era abbastanza vicino al gruppo, ora, per lanciare un'occhiata verso Raizen.
    Nonostante Shizuka non potesse notarlo a causa della sua posizione, la Volpe avrebbe visto che nei profondi occhi smeraldo del Capoclan dell'Airone, di quella dinastia di Principi nobili e puri, non vi era odio o un reale senso di irritazione, ma quiete profonda e imperturbabile.
    Se Shizuka era Fuoco ardente e indomabile, Toshiro Kobayashi era acqua che scorreva e vento che soffiava...

    «Otou-sama, io non...» Esordì Shizuka, facendo un passo indietro e poi subito uno avanti. «...c-credo di poter parlare ora...»
    «Ah davvero?»
    Rispose sardonico il Capoclan. «Dovrò vedere se avrò il piacere di ascoltarti. Per molto tempo, in questi mesi, ho udito il tuo silenzio. Le mie orecchie sono già sufficientemente ferite per esserlo ancora.» Sibilò, gelido.
    «Otou-sama...» Gemette la Principessa, guardando disperatamente di fronte a sé. Prima che se ne rendesse conto stava, stupidamente, già piangendo. «...ce l'ho messa tutta, ma ho fallito.» Urlò la ragazza, scoppiando a piangere con più vigore. «Ci ho provato, ci ho messo tutta me stessa. Volevo essere potente, ma non lo sono abbastanza. Non sono ciò che vorrei essere.» Singhiozzò, pulendosi il viso con il dorso delle mani, una dopo l'altra. «Volevo essere uno scudo per tutti voi, ma sono stata la breccia. Volevo essere un pilastro per Konoha, ma sono stata l'arma che l'ha distrutta. Ho fallito. Io ho fallito a proteggere ciò che amo.»
    Di fronte a lei, il Capoclan dei Kobayashi si fermò: lo splendido kimono maschile verde notte che indossava era fermato all'altezza dei fianchi da un obi color ambra ricamato minuziosamente a mano con puro filo d'oro. Sulle spalle di lui, ampie e solide -rese muscolose dai lavori di fatica che il Capo di una dinastia di mercanti, che faceva del viaggio la sua principale attività, ci si aspettava facesse in prima persona- recavano l'haori verde smeraldo del Clan, quello cioè che lo contraddistingueva come tale e che passava di generazione in generazione a chi si fregiava del titolo di “Primo Signore”. Questo, il più bel capo di lavorazione tessile mai visto in forse tutto il mondo conosciuto, era ricamato millimetro per millimetro da un filo cangiante che affondava le proprie radici nel colore dei boschi ma che sembrava incredibilmente cambiare colore a seconda della luce che lo baciava, rendendo l'effetto per chi guardava quasi un miraggio, dando dunque l'impressione che l'Airone che spiccava sul dorso dell'abito fosse realmente pronto a librarsi in volo verso il Sole. Un miraggio certo... quello che ci si sarebbe aspettati da un Principe, del resto.
    Si diceva che il Clan Kobayashi fosse una dinastia benedetta dagli Dei, e guardando in quel momento la figura di Toshiro, imponente, maestosa e quieta, nessuno avrebbe osato insinuare il contrario...
    «E' così.» Si limitò a dire il Signore della Magione, guardando la figlia. «Hai fallito.» Sentenziò, secco. «Sarebbe successo, prima o poi. Credevi che ti sarebbe sempre andata bene? Pensavi davvero che la tua vita non ti avrebbe mai riservato disperazione ed errori?» Sembrò ridere di quell'impotesi, inarcando un sopracciglio. «Hai fallito molte volte, come Principessa dei Kobayashi. Hai errato trattative e compravendite benché tu sia la più talentuosa erede dai tempi della terza generazione della nostra famiglia... credevi allora che, in un mondo in cui non sei nessuno, avresti potuto primeggiare senza drammi?» E adesso la sua voce tornò a farsi secca. «A renderti debole non sono i tuoi errori, ma la tua stupidità nel reagirvi. O meglio, nel non reagirvi.» Sibilò. «Tu sei l'orgogliosa Principessa della dinastia più potente del Paese del Fuoco. Alza il tuo volto, sciocca bambina, e porta onore prima di tutto a te stessa e poi alla famiglia che dici tanto di amare, e con essa al Villaggio per cui hai voluto sacrificarti. Il tuo fallimento ti porta onore, fintanto che lo hai compiuto anteponendo il bene altrui al tuo.»
    ...E poi, solo a quel punto, l'uomo parve sciogliersi.
    Fu una reazione invero sin troppo rapida per essere carpita nella sua interezza, troppo istantanea perché i presenti potessero comprendere il peso, la disperazione, la paura, la felicità, l'incredulità, l'aspettativa, l'orgoglio, la delusione, la speranza, il desiderio che Toshiro Kobayashi lasciò scivolare via da lui nel momento in cui si abbassò verso la figlia e, con una dolcezza senza precedenti, la strinse con forza a sé.
    Le mani di lui erano due volte quelle della ragazza che, sorpresa e incredula, non seppe in un primo momento come reagire: erano anni che non concedeva un abbraccio ai suoi genitori... stupidamente, più cresceva e più si impegnava a farlo vedere, imponendo una distanza che forse, nella sua mente, equivaleva all'indipendenza.
    «Sei stupida quanto tua madre.» Disse Toshiro, stringendo la figlia e avvolgendola con le sete del suo haori. «Sei uguale a lei quando era giovane... e anche ad ora, per la verità.» Ammise a bassa voce, quasi temesse di poter essere sentito (e gli Dei sapevano solo cosa gli sarebbe successo a quel punto). Shizuka rise, scuotendo la testa.
    «Okaa-sama era più brava di me!» Mormorò, a malincuore.
    «Tua madre è anche nata per essere ciò che tu stai tentando di diventare ora.» Rispose il Capoclan dei Kobayashi, solo a quel punto allontanando la Principessa da sé. Solo in quel momento Shizuka si rese conto di quanto provato fosse il volto di suo padre, segnato da occhiaie e rughe di concentrazione che, nemmeno in quel momento, sembravano volersi appianare. «C'è un tempo per ogni cosa, stupida figlia. Ti ripeto gli stessi insegnamenti da quando avevi tre anni, pensi di farmeli esporre ancora per molto?» Sospirò.
    Sistemando una ciocca di capelli alla sua erede, il Re della dinastia Kobayashi sorrise un'ultima volta e solo a quel punto, elegantemente, si voltò verso Raizen. I suoi occhi verde smeraldo sembravano improvvisamente aver acquistato un interessante vigore, proprio di chi ha una mente intelligente e guizzante.
    «Vi chiedo scusa, Raizen Ikigami-sama, se mi sono permesso di dare la precedenza a questa stupida ragazzina.» Disse l'uomo, inarcando un sopracciglio e ghignando, ironico, quasi si aspettasse che il suo interlocutore capisse perfettamente ciò che stava dicendo. «Immagino voi sappiate tanto quanto me quanto è ottusa in certe situazioni. Purtroppo richiede un impegno da parte di chi la cresce maggiore della media normale.» Affermò, mettendosi a braccia conserte. «C'è da ben sperare che tanto impegno venga prima o poi ripagato.» E così dicendo sorrise, quasi fosse sicuro di quel finale e, del resto, come non si aspettasse niente di meno. «Ma immagino che non sia il caso di insistere oltre su questo punto, dico bene?» Domandò educatamente. «Avete chiesto di me e di mia moglie. Avete me, ma la mia consorte si trova in questo momento a quietare gli esponenti delle dislocazioni del Clan e penso che non potrà sopraggiungere se non sia strettamente necessario...» Rimaneva un mistero come lui, invece, avesse capito di doversi alzare e dirigere lì. «...quindi lasciate che la mia maleducazione sia la vostra offesa, e lasciatemi chiedere: ciò di cui dovete parlare e che richiedete a gran voce, è ciò che potremmo chiamare “necessario”? Abbiamo bisogno di un buon saké e una sala privata, dunque?»
    A dispetto di quello che qualche sciocco ascoltatore avrebbe potuto immaginare non vi era, nella voce di Toshiro Kobayashi, nessuna forma di accusa o disgusto, ma anzi, una riverenza sincera e un reale interessamento, benché permeato da quella cautela educata tipica di chi è abituato a trattare come mercante e come uomo. Non era necessario che qualcuno lo facesse notare, il Capoclan stimava e rispettava Raizen, ed era giunto fino a lì proprio per evitare lui che il resto del suo sangue, ignaro di ciò che lui fosse per la Principessa ed Erede, lo aggredisse.
    Una sottigliezza molto raffinata quella, tipica, del resto, di un uomo di tanta squisita intelligenza...


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    Guardò Shizuka compassionevole, sorridendogli.

    Povera tapina, potrai saperne di politica, ed ho qualche riserva pure su questo, ma di sicuro sai molto poco di avidità e ingegno umano.
    Anche se a giudicare da come te ne vanti non sembra nemmeno che tu venga da una famiglia di zingari che vende straccetti per le quattro nazioni.
    Cuciti la bocca, e abbi la cura d’utilizzare il filo più resistente che la tua famiglia possa trovarti.


    Si voltò stizzito, incamminandosi in silenzio fino ad arrivare alla villa dove venne consumata una di quelle scenette che generalmente si sarebbe impegnato a canzonare, ma per buona creanza e forse un minimo di empatia tacque.

    Puoi alzarti.

    Commentò quando il ragazzo dei Kobayashi gli si inchinò ai piedi.

    I salamelecchi da rampolli sono imbarazzanti e al momento stai sfiorando il limite dell’omosessualità.
    Ma ti ringrazio.


    Aggiunse l’ultima parte con un sorriso bonario, dopotutto non poteva essere grato di uno dei rarissimi segni di gratitudine che gli venivano rivolti.
    Non poteva che assistere inerme anche alla giusta sfuriata di Toshiro, pensando che lui si sarebbe concesso almeno un ceffone, anche due. Shizuka ogni tanto aveva bisogno di un approccio più fisico per comprendere ciò che parole non riuscivano a farle comprendere.

    Otou SAMA?
    E lei si fa chiamare così?!?


    Era vero che il Colosso era all’oscuro delle più basilari regole che scandivano quel noioso mondo nobiliare, ma un titolo onorifico al proprio padre era decisamente fuori da ogni sua più raffinata fantasia.

    Non so cosa vi dica il vostro cervello-sama, ma è certo che abbiate annegato qualche rotella in una tazzina di sakè.

    Sollevò gli occhi al cielo lasciando cadere il discorso mentre scuoteva la testa debolmente, gli sarebbe piaciuto criticare più aspramente, ma non lo trovava il momento più adatto. Si consolò per cui della magra ed infondata convinzione che i problemi di tutto quel clan derivavano dalla distanza posta inconsciamente da quei titoli onorifici che molto probabilmente annullava quella limpida confidenza che ci sarebbe dovuta essere tra dei genitori ed una figlia.
    In quel momento Shizuka gli parve quasi un cavallo imbrigliato mentre veniva educato al trotto, era quasi triste per lei.
    Riprese parola solo quando interpellato, attendendo mentre si dondolava tra il tacco e la punta dei piedi.

    Le do ancora del lei, Toshiro-sama, perché vanta parecchi anni in più rispetto a me, ma la prego, inizi a ripagarmi dandomi del tu, avrà notato che sono insofferente all’etichetta.

    Disse con un sorriso di cortesia che non mancava di sincerità.

    Direi comunque che avremmo bisogno di tutto ciò che ho richiesto, perché si, è decisamente necessario.

    Si fece condurre nella sala ad aspettare che arrivassero le figure da lui richieste, aspettando di venir raggiunto dagli altri e declinando ogni richiesta di dialogo con una semplice stretta di labbra ed un chiaro segno del dito indice.

    Ne parleremo a suo tempo.

    Avrebbe aggiunto per cortesia di non rivolgersi al prossimo esclusivamente con i movimenti del corpo, adatti ad una bestia da soma più che ad un uomo, per quanto grezzo potesse essere.
    Una volta riempita la sala, avrebbe sospirato, cercando un modo per iniziare una delle più gravose discussioni della sua vita. Fallendo miseramente.

    Vi starete giustamente chiedendo perché vi ho portato qui, e la risposta è semplice, ma non giungerà rapidamente, prima è necessario un preambolo.
    Non voglio mettere bocca riguardo l’educazione che date ai vostri figli.


    Disse guardando Heiko e Toshiro, seppur non in maniera severa.

    O ai vostri nipoti.

    Spostò lo sguardo sui rappresentanti del clan Uchiha.

    Non questa volta almeno.
    Questa volta la situazione è molto più seria di una povera ragazza che viene rinchiusa chissà dove lontano dal suo paese e dalle persone a cui vuole bene.
    È da qui che partiremo: per quale ragione Shizuka era li?
    Ho continuato a chiedermelo per parecchio tempo senza riuscire a darmi una risposta totalmente sensata, fino a quando il caso non mi ha portato a unire più pezzi del puzzle, o meglio a guadagnarne di nuovi.


    Si spostava lentamente, avanti e indietro, troppo silenzioso nonostante la mole per non apparire minaccioso, le lievi ombre della stanza quasi parevano inghiottirlo per fargli la cortesia di celare un’arma mal riposta mentre vi passava accanto, ed i suoi piedi pareva poggiassero nel nulla, nonostante il tipico pavimento in legno dovesse produrre una gradevole nota propria di quel materiale quando era stagionato e curato al punto giusto.
    Tuttavia Raizen Ikigami, nonostante ciò che le regole naturali imponessero, si muoveva come uno spettro, un predatore silenzioso che per avvicinarsi alla sua preda non faceva che parlare.

    Il punto focale dei malanni di questa famiglia è Kuroro, e vi chiedo perdono se rievoco spiacevoli ricordi, ma sono qui perché venero la verità, ed un simile gioco di parole ha il suo peso nello spirito di un uomo.
    Da quando il ragazzo è scomparso questa famiglia è caduta in una spirale di caos difficilmente immaginabile, comprensibile si potrebbe pensare, è sparito il primogenito della famiglia dopotutto.
    Ma realmente è giustificabile tutto ciò che è accaduto dopo il dolore?


    Qualcuno avrebbe potuto dire che evitava gli sguardi degli Uchiha temendone il peso, ma se quel qualcuno fosse stato malizioso avrebbe compreso che in realtà li evitava proprio perché erano occhi da Uchiha.

    Nuovamente sarebbe stata comprensibile una madre che cerca il proprio figlio, ma… cosa c’entrano gli Uchiha in tutto questo?
    Azzeriamo la situazione.
    Un genin, si allontana dal proprio villaggio, e sottolineiamo che è libero di farlo soprattutto se i suoi occhi non portano ancora lo scarlatto tipico del loro clan, e potrebbe farlo anche in quel caso a meno di non divulgare le sue conoscenze, certo.
    Ma è avvenuto questo?
    No. Da qui è fuggito unicamente un neogenin con a malapena le capacità per non farsi divorare dalla prima bestia che passa.
    O almeno questo ha detto l’amministrazione, così come ogni singolo precedente caso di allontanamento da parte di un ninja, altrimenti, come sarebbe possibile che il Mizukage attuale abbia proprio origini konohaniane?
    L’imbuto si stringe.


    Ammise in tono quasi marziale.

    E ve lo spiego subito.
    Quando l’amministrazione reputa un ninja reo di tradimento manda autonomamente degli shinobi sulle sue tracce, poco gli importa di avvertire clan, famigliari o chi per loro. Agisce in quanto ha i poteri e le giustificazioni per farlo.
    E lo fa con shinobi addetti e specializzati.
    Cosa vuol dire?
    Che NON manda solamente esponenti del clan Uchiha ad inseguirlo, soprattutto non un gruppo di jonin, visto il ninja inesperto con cui si ha a che fare.
    C’è quindi un incongruenza, l’amministrazione non reputa Kuroro un traditore, giustamente, ed altrettanto giustamente non manda degli shinobi a perseguitare un giovane ragazzo anche perché ci sarebbe ben poca coerenza nel mandare degli shinobi a perseguitare un innocente che non fa altro che esercitare un suo diritto: quello alla LIBERTA’.


    Sottolineò l’ultima parola con un tono che lasciava trapelare un tocco d’ira.

    Ma supponiamo, irrealisticamente, di non sapere che l’amministrazione dichiara Kuroro un traditore, perché manderebbe esclusivamente degli Uchiha sulle sue tracce e non i suddetti shinobi specializzati?

    Si avvicinò al tavolo estremamente serio.

    Cosa Diavolo ci facevano gli Uchiha alle costole di quel ragazzo?
    Cosa Diavolo interessa agli Uchiha di questo clan?
    E di quali accordi si necessita per non dare la libertà a quella donna…


    Disse indicando Heiko.

    Di amare chi più ne reputa degno… O ai suoi figli?

    Ed indicò Shizuka.

    Perché gli Uchiha si sono presi la libertà di far apparire un innocente il peggiore dei traditori?
    E non pensate che non siano affari di un Jonin della Foglia.


    Avrebbe ringhiato, potendo, ma il suo sguardo fiammeggiante era sufficiente a far comprendere quanto peso avesse quella domanda. Nel SUO villaggio non aveva spazio per nidi di scarafaggi coperti da una sudicia coperta.

     
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    They were going away from whatever light there was, and striking deep into the woods,
    but their feet were familiar with the path,
    and it was no matter whether their eyes could see it or not.

    Kobayashi Clan




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    «...Hara?»



    Unico in tutto il Villaggio della Foglia a non aver neanche una volta denotato la benché minima inflessione del volto di fronte alla gretta invadenza e torbida maleducazione di Raizen Ikigami, il Capoclan dei Kobayashi sghignazzò, aprendo un ventaglio variopinto di fronte al viso. I suoi occhi verde smeraldo, tanto simili a quelli dell'unica figlia da apparirne la copia perfetta, si socchiusero con ironia. Più che irritato, sembrava divertito.
    «Siete tipo da giudicare il rapporto tra le persone per il modo in cui queste si chiamano?» Domandò, e adesso appariva stupito. Cambiava rapidamente, come la composizione delle nuvole del cielo in un giorno di vento. «Ahimé, è condanna delle famiglie aristocratiche rimanere vincolate a formalità da cui non è possibile liberarsi. Ma se l'educazione con cui siamo cresciuti addomesticasse anche i nostri cuori, io non avrei sposato mia moglie e lei non avrebbe scelto me. Mia figlia non si sarebbe permessa di disubbidire al quieto e regolare svolgersi della sua vita, e Akihiro non si sarebbe mai inginocchiato di fronte a qualcuno che non conosce l'affetto di un pettine di legno da diverso tempo.» Schioccò, rapido e incalzante.
    Una stoccata. Ma leggera. Impercettibile. Raffinata.
    A dispetto di quanto si sarebbe potuto credere in un primo momento, tuttavia, benché Toshiro Kobayashi fosse apparso ben lontano dalla bonarietà con cui era solito mostrarsi in veste privata ai suoi cari, non vi era freddezza o molestia nelle sue parole.
    Aveva semplicemente rimesso in riga il filo storto di un abito piacevole da osservare, di cui non aveva apprezzato la pendenza gravosa della fantasia.
    «Perché è per questo che siete qui, non è vero?» Domandò subito dopo, educatamente, il Capo dell'Airone; muovendo a quel punto di scatto la mano sinistra, che richiuse fluidamente il ventaglio azzurro. «Per parlare della mia famiglia.» Non era una domanda, quella, ma una dichiarazione che non necessitava di conferme. Socchiudendo gli occhi e reclinando leggermente la testa di lato, Toshiro Kobayashi sorrise con calma. «Immaginavo che sarebbe successo, la mia stupida figlia ha avuto di che indurre alla riflessione anche me. E come sempre quando lei soffre sulla linea di un cambiamento imminente, voi siete presente a difenderne lo spazio.» Chiuse gli occhi, sorridendo ancora una volta.

    Fermo al centro di quella circonferenza di vite e persone, Toshiro Kobayashi sembrava il Re di una dimensione della realtà molto lontana da quella che Raizen conosceva. Silenzioso, elegante, di quell'intelligenza tipica che è raffinata dalla sfida di anni di incertezze e scommesse contro se stessi, il prossimo e il fato, il Capoclan dell'Airone di Konoha era un uomo che sapeva trasmettere al prossimo il proprio stato d'animo con la semplicità con cui un bimbo beveva dalla fonte della spontaneità. Forte di quella sicurezza che nasce dal conoscere se stesso e il mondo in cui viveva, però, ciò che trasmetteva non era mai un sentimento di ansia, sottomissione o terrore. Di rado infatti Toshiro Kobayashi interveniva in una conversazione o influenzava in una circostanza con la sua presenza e ciò che questa rappresentava. Oculato nel parlare quanto nell'ascoltare, poiché il perfetto equilibrio della supremazia nasceva dal bilanciamento perfetto dell'una e dell'altra cosa, l'uomo dall'haori verde smeraldo non era niente di ciò che un nobile avrebbe dovuto essere. Era lontano dall'immagine dell'aristocratico opulento e sprezzante, gozzo della propria posizione e accecato dalla tracotanza che questa offriva...
    ...proprio come l'airone che risplendeva come simbolo della sua casata, la creatura che per eccellenza testimoniava l'avvicinarsi agli Dei, era leggero e posato, abile maestro nel camminare sul filo di ciò che sapeva potersi permettere e ciò, invece, che non voleva toccare. Manipolatore di vite e situazioni, operava il suo potere nel modo più saggio: non usandolo.
    «Mamoru.» Si limitò a dire il Capoclan, alzando una mano mentre si voltava verso la pedana rialzata della sua dimora. Alle sue spalle l'uomo con il pizzetto di circa la stessa età del padrone che serviva ma, suo contrario, vestito di un hakama scuro poco vezzoso, abbassò la testa in un cenno d'assenso.
    Fu quando Toshiro Kobayashi si voltò del tutto, facendo roteare il suo haori verde nel vento, che Mamoru sparì. Letteralmente.
    O almeno questo era ciò che avrebbero visto tutti, persino Shizuka. L'unico che si sarebbe accorto dell'istantanea sparizione dell'uomo, sarebbe probabilmente stato Raizen, il cui semplice spostamento d'aria di un tessuto di seta non avrebbe impedito ai suoi sensi di percepire ciò che gli occhi avrebbero avuto appena il tempo di scorgere.

    [...] Da quel momento in poi fu un lento susseguirsi di eventi, flemmatico e quasi irreale.
    Le porte del potente Clan Kobayashi si stavano aprendo di fronte a Raizen Ikigami, e quella era la prima volta in cui era permesso lui di azzardare un piede in una realtà molto distante da quella che gli era propria.
    Magione Kobayashi scorreva in una serie interminabile di sale e corridoi dal pavimento di legno, accompagnando Toshiro e la fila delle altre perle che formavano il quadro di tela di quell'avvenimento tra giardini fioriti e ben tenuti, in cui niente sembrava fuori posto...
    … e quando le tre domestiche che aprivano rispettosamente il corteo si fermarono di fronte ad una porta scorrevole di riso a doppia anta, decorata da una sobria fantasia verde acqua raffigurante aironi in volo su mari in tempesta, il Colosso della Foglia seppe che il momento era giunto.
    Non aveva mai visto il Clan Kobayashi al completo, o quantomeno le più alte cariche che lo formavano e gestivano, ma quando la terza delle domestiche entrò nella sala da sola e ne uscì qualche istante dopo annuendo e inchinandosi profondamente fino a toccare con la fronte il pavimento, mentre le altre due si ponevano ai lati opposti delle ante e iniziavano a far scorrere queste verso di loro, seppe che era arrivato il momento di affrontare faccia a faccia la più Potente e Influente dinastia del Paese del Fuoco...

    E così, le porte si aprirono.

    La Sala dell'Airone era la più grande di tutta magione Kobayashi, e dunque almeno sei volte una qualsiasi altra considerata normale nella realtà comune: le pareti chiare, decorate solo qualche quadro d'arte naturale e scrittura shodo, si rispecchiavano nel tatami verde pallido intrecciato a mano, illuminato della luce che filtrava dall'enorme porta scorrevole che affacciava su un giardino interno in cui vi era solo un laghetto delimitato da grandi pietre grigie e diversi cespugli di rose selvatiche di un accecante bianco. Nonostante quanto ci si sarebbe potuti immaginare, per il resto la Sala dell'Airone era pressocché vuota, poiché ad eccezione di un basso tavolo posto al muro sulla sinistra -su cui erano posate delle teiere di raffinata porcellana e dei vassoi ricolmi di ogni squisitezza, e accanto al quale sedevano sei domestiche vestite del medesimo kimono puntinato scuro-, vi era solo un tavolo di legno massello di radica di noce. Questo, posizionato nell'esatto centro della stanza, accoglieva attorno a sé ben otto persone di ogni età e ogni aspetto...
    ...ma quando Toshiro andò a sedersi lentamente a capotavola accanto alla moglie, e Akihiko prese posto nella parte sinistra, inginocchiandosi mentre alle sue spalle, diversi passi indietro, sedeva Hisoka, le persone divennero dieci. Mentre nove erano gli individui che sedevano, sei passi indietro, alle loro spalle. Questi, vestiti di splendidi ma sobri hakama o kimono, a seconda del gusto personale o forse più probabilmente di quello del padrone che servivano, uomini e donne dal più disparato aspetto erano inginocchiati silenziosamente dietro le figure dei membri di quella stirpe di principi che senza esitazione si voltarono verso le persone ferme sull'uscio, rivelando ciascuno un'espressione diversa.
    Era iniziata.

    «Cos'è questo abbigliamento, Himekimi?» Disse improvvisamente una donna di mezza età seduta alla parte destra del tavolo. I capelli bruni mossi, raccolti sulla nuca in una crocchia austera, erano fermati in posizione da fermagli che da soli avrebbero potuto acquistare il negozio del vecchio Tarou nella seconda strada di Konoha... e che richiamavano il colore dell'obi ricamato millimetro per millimetro, con gusto antico, di un kimono a tre strati tipico del mondo aristocratico. «E' il giorno della perdita della decenza e voi siete stata invitata come ospite d'onore, forse?»
    «Naoko-san, vi prego, non ritengo pregevole aggredire la Principessa in questo modo...»
    La interruppe subito un uomo di circa quarant'anni con un corti capelli di un castano quasi biondo e occhi verde scuro, alzando una mano di fronte a sé. Parlava con un forte accenno delle Terre del Fulmine che, per quanto sembrasse impegnarsi a nascondere, non poteva certo passare inosservato. «Shizuka Hime, ho piacere di vedere che la vostra condizione sia migliore di quanto ci era stata prospettata.» Disse ancora, sorridendo con dolcezza.
    «Ojii-sama...» Sussurrò di rimando Shizuka, compiendo un passo avanti con una visibile nostalgia dipinta sul volto. Sembravano anni che non vedeva quella persona. Anni.
    «Arata ha ragione, nee-sama.» Intervenne un'altra donna di circa cinquantaquattro anni e piuttosto corpulenta, con un pallido kimono nero e la testa coperta da una veletta di pizzo ricamato punto per punto con perle rosee. «La tua linguaccia è, come sempre, la tua peggior nemica.» Ironizzò divertita, interrompendo però subito la replica inviperita di quella che pareva essere la sorella voltandosi verso Shizuka, cui sorrise con contenuta posatezza. «Ben arrivata, Principessa.» Disse, voltandosi frontalmente rispetto all'interlocutrice. «E' molto tempo che non ho il piacere di vedervi. Il mio cuore è lieto di riempirsi di un'immagine più rassicurante di quella che mi era stata dipinta. Possa la benedizione degli Dei scendere sempre su di voi.» Continuò, tentando di inchinarsi... un gesto in cui però riusci a malapena. Il volto anziano, elegante e fiero, tradì per un istante una smorfia di dolore.
    «Obaa-sama, no, vi prego!» Intervenne a quel punto Shizuka, trasalendo e avanzando rapidamente per trattenere la donna. «Inchinarvi di fronte a vostra nipote non è necessario, apprezzo che–...»
    «Sua nipote è la Principessa e unica Erede del Clan Kobayashi, la dinastia in cui Mamiya-baa è nata e a cui ha devoluto tutta la sua vita. Non offenderla con la tua pietà. Il tipo di educazione che vedi è qualcosa che voi giovani non potete ancora conoscere, ma che dovete rispettare come sacro.»
    Sibilò improvvisamente un uomo seduto al capo opposto del tavolo, frontale rispetto alla donna ancora protesa verso il basso. Benché i capelli bruni fossero striati di bianco sulle tempie, l'uomo dai profondi occhi verdi, tipici del casato cui apparteneva, non poteva avere più di trentacinque o trentasei anni. Il sorriso affilato e pungente era quello tipico di chi non ha mai avuto piacere di sentirsi contraddire. «E' bene che questa donna si inchini visto che è stata lei a convocare questa riunione e tu sembri stare invece tanto bene.»
    Akihiko, avvampando di imbarazzo per qualche ragione, fece appena in tempo ad issarsi sui talloni, che Shizuka alzò la mano destra di scatto e repentinamente, in un modo che agli occhi di Raizen sarebbe apparso quasi la raffigurazione di una storia d'altri tempi, il silenzio cadde.
    «Satoshi...» Mormorò la ragazza, accompagnando con dolcezza la zia in eretta postura. «...Taci.» Ordinò infine, girandosi con flemma verso l'uomo che, a quel punto, non poté far altro che irrigidirsi. «Non osare rivolgerti a me in questi termini. Mai più.» Disse con dolcezza la Principessa, reclinando leggermente la testa verso sinistra. I suoi lunghi capelli castani, raccolti, scivolarono ad accarezzarle il collo nudo, smascherando la cicatrice di fronte a cui il mercante rabbrividì, inorridito. «La tua lingua deve imparare a sedere composta, o al pari di un passero prenderà il volo dalla tua bocca.» Fece osservare educatamente. Accanto a lei, in modo silenzioso, Akihiko si era spostato accanto alla donna vestita di scuro e stava massaggiando lei la schiena fissando il parente con irritazione.
    «Non penso che una Principessa che ha voltato le spalle al proprio Clan possa–...» Tentò di rispondere l'altro, rosso in volto di rabbia.
    «Shizuka Hime non ha voltato le spalle a nessuno, stolto ragazzino.» Intervenne come una frusta l'ultima donna sconosciuta agli occhi del Colosso della Foglia. I lunghissimi capelli di un castano ramato erano raccolti in una serie complicata di trecce di diversa dimensione, tenute ferme sulla testa con un diadema di puro oro. Sembrava avere la stessa età di Toshiro, ma il suo modo di mantenere gli occhi chiusi impediva agli astanti di osservarne i lineamenti nella loro pienezza e, dunque, di confermare quell'ipotesi. «La casata principale non apprezza questo genere di insinuazioni. Non dalla bocca di chi ha ottenuto così miseri risultati nel bilancio annuale precedente a questo, almeno. Porta pertanto rispetto a chi, con più di dieci anni di differenza, riesce a mantenere alto l'equilibrio economico di un Impero e non solo di una singola sede.»
    «Hara, Rie-nee, eri presente anche tu? Quasi non ti avevo vista.»
    Intervenne solo a quel punto allegramente Toshiro, probabilmente con l'unico scopo di smorzare un tipo di tensione che stava cominciando a farsi pesante come una coltre temporalesca nei cieli d'estate. Per tutta risposta qualcosa impattò contro la sua testa e un ventaglio chiuso gli finì in faccia facendolo gemere sommessamente.
    «Heiko cara, grazie...» Mormorò Mihoko Kobayashi, precedente Capoclan dell'Airone e nonna materna di Shizuka, con ancora la mano, vuota del ventaglio che aveva fino a quel momento stretto in pugno, protesa verso il suo unico figlio. «...sono sempre così lieta di poter contare su di te.»
    Heiko Uchiha, bellissima sopra ogni dire, di gran lunga la presenza più seducente e potente in quella stanza, si limitò ad annuire educatamente, con pudicizia, mentre tirava per il colletto il marito perché questo si rimettesse a sedere in modo composto.
    «Ah.» Si limitò ad intervenire Shizuka, guardando la scena dal capo opposto del tavolo, ancora accanto a Mamiya Kobayashi e di schiena a Raizen, da cui era poco distante.
    «“Dovevo sdrammatizzare” Mimò con la bocca Toshiro in direzione della figlia, facendo un cono di fronte ai lati del viso, quasi sperasse così che nessuno si accorgesse di cosa stava facendo. Proprio alla sua destra la donna chiamata con il nome di Rie abbassò lo sguardo, cercando di trattenere una risatina.
    «No, non dovevi. E' una riunione ufficiale questa, caro.» Sibilò irritata Heiko, strigendogli il colletto del consorte tanto da farlo gemere come un agnellino mentre una maschera d'orrore si dipingeva istantaneamente sia sul volto di lui che della figlia.
    «Oh cielo... legge la mente.» Stridette Shizuka, facendosi pallida. La sua espressione era pienamente condivisa da quella di Toshiro, che annuì terrorizzato quasi a darle ragione. «Raizen, legge la mente!» Continuò allora la piccola kunoichi, voltandosi verso il Colosso con gli occhi sgranati. «Da Jonin si possono fare queste cose?!»
    «Oh per l'amor degli Dei!»
    Sbottò Naoko Kobayashi, lasciandosi scappare un forte accento del Paese delle Risaie, alzando poi gli occhi al cielo mentre al suo fianco sinistro Mihoko –seduta accanto a Teru, il marito, che sembrava come al solito disinteressato da qualsiasi cosa che non fosse la tazza di pregiato tè bianco che aveva sulle ginocchia– si posava una mano sul volto con rassegnazione. Arata Kobayashi sembrava essere sul punto di mettersi sinceramente a ridere.
    «No, Shizuka-chan... credo fosse abbastanza evidente che...» Tentò di dire Akihiko, imbarazzato mentre Satoshi arricciava le labbra in una smorfia di disgusto, voltando la testa alla sua Principessa e alla scenetta che lei stava intrattenendo.
    «RAIZEN, POTETE FARE ANCHE QUESTO?!» Gemette però in quel momento l'Erede, letteralmente avventandosi addosso al Jonin, di cui avrebbe tentato di afferrare i lembi della divisa al livello del colletto.
    […] Non che fosse ben evidente l'intento, vista la differenza d'altezza che rese piuttosto pietoso il tentativo della ragazzina di scuotere il maestro, ottenendo invece l'inverso spettacolo di lei che gli zampettava attorno come un animaletto.
    Per tutta risposta Mimaya Kobayashi, vedendo la scena, parve farsi rigida e Naoko, impallidendo, assunse un preoccupante colorito cadaverico.

    «...Cosa diavolo sta succedendo qui?»



    Intervenne improvvisamente un'altra voce. Ma non era quella di nessuno dei presenti. No, per la verità non veniva nemmeno dalla Sala dell'Airone.
    «O-o-o-ojou-sama, ma cosa state facendo?!» Strillò improvvisamente Ritsuko Aoki, balzando dal corridoio alla sinistra di dove sostavano ancora Raizen e Shizuka, correndo rapidamente verso la sua Signorina, che tentò di strappare dalle “grinfie” del Jonin della Foglia lasciandosi alle spalle due uomini adulti, una donna con un ragazzino di circa sei anni, e due anziani.
    «Isamu-jii!» Esclamò Shizuka, sollevata letteralmente di peso da terra da Ritsuko con la stessa semplicità con cui questa avrebbe potuto spostare polvere da un mobile.
    «Shizuka nee-chan!» Strillò per tutta risposta il bambino, scattando avanti verso la Principessa. Indossava dei pantaloncini corti e un'abbondante maglia rossa recante il simbolo degli Uchiha... di cui non sembrava condividere però la compostezza, visto che si schiantò addosso a Shizuka, strizzandola senza ritegno.
    «Tatsuya!» Spirò la donna alle sue spalle, probabilmente la madre, portandosi le mani al viso con sconvolgimento, mentre l'anziana signora, sessantasei anni circa, vestita di un bel kimono giallo, si metteva a ridere teneramente guardando con premura i due nipoti giocare insieme.
    «Tuo figlio è un animale.» Osservò caustico Masamune Uchiha, stringendo tra i denti la lunga pipa intarsiata d'argento per poi lanciare uno sguardo irritato al figlio maggiore, tale Isamu, che si limitò però a sospirare sconsolato. Benché avesse ormai settantatre anni, Masamune preservava ancora quel genere di fisico che solo uno Shinobi dalla lunga carriera era in grado di avere a quell'età. Il volto, solcato da un'orribile cicatrice che dall'occhio sinistro finiva sotto la mandibola destra, sembrava perennemente tirato in un'espressione irritata.
    «Tatsuya, come va all'accademia?» Domandò Shizuka, stringendo dolcemente a sé il cugino che muoveva disordinatamente i piedi abbracciandola. Sotto i due Ritsuko Aoki iniziava ad assumere un preoccupante colorito violaceo dovuto al troppo peso, barcollando indietro e avanti come se rischiasse di cadere a terra da un momento all'altro.
    Senza curarsi minimamente della ragazza che portava il suo stesso cognome Mamoru Aoki scivolò lento come un'ombra di fronte a tutti i presenti, ignorando la scena per poi dirigersi, quasi sollevato da terra per il silenzio con cui si spostava, sei passi dietro Toshiro. Questo, dal canto suo, appariva divertito e allegro come un bambino, e guardava l'avvicendarsi degli eventi con una gioia che sembrava rara e sincera...
    ...ma che ebbe di che mettersi a tacere quando i membri degli Uchiha si portarono in corrispondenza della Sala dell'Airone poiché non appena gli haori recanti il ventaglio bicolore di Konoha fronteggiarono i ricami dell'Airone il silenzio cadde in modo brutale, istantaneo e pesante.

    Improvvisamente, nessuno parlò più.

    «Aniki, Junko-san, Ka-sama, Tou-sama.» Mormorò infine Heiko Uchiha, decidendo di alzarsi. Stranamente sembrava che i suoi movimenti si fossero fatti più lenti e goffi, quasi la Mononoke della Foglia stesse nuotando in un mare vischioso che le impediva persino di respirare, come diede ad intendere quando, avvicinandosi al sangue del suo sangue, parve quasi affannata. «Benvenuti.»
    Sorridendo, Isamu Uchiha annuì, inchinandosi poi brevemente...prima di accostarsi alla sorella quel tanto che bastò perché lei, irrigidendosi, chiudesse gli occhi e scuotesse la testa. Guardando il volto della matrona, il Jonin della Polizia di Konoha si limitò a ritrarsi con sdegno, sorridendo adesso in modo più lapidario.
    «Grazie.» Disse, freddo. Portandosi al suo fianco, la donna che era stata chiamata Junko, con corti capelli a caschetto neri e gli occhi scuri tenuti bassi, quasi fosse spaventata di alzarli sulla cognata e chi dietro di lei ancora sedeva, la chunin maestra d'accademia si inchinò profondamente. «Ci scusiamo per il ritardo. Siamo stati trattenuti sulla via d'arrivo.»
    Dentro la Sala dell'Airone, Satoshi Kobayashi, guardando gli haori purpurei e scarlatti calati sulle spalle dei nuovi arrivati, si stava intanto facendo profondamente rigido, e scattando di lato nel posare un piede a terra, quasi fosse pronto ad alzarsi da un istante all'altro, si girò verso il suo Capoclan...
    ...ma la sua espressione di profondo disgusto e sconcerto era solo una parte minima di quella che aveva bloccato gli altri presenti: Naoko Kobayashi sembrava essersi immobilizzata nell'atto di portarsi la tazza di porcellana di tè fumante alla bocca, Mamiya si era fatta rigida e sconvolta, mentre invece Arata Kobayashi si era limitato a premere le mani sul tavolo cui sedeva... fintanto che le sue dita non erano divenute bianche; e Rie, silenziosa più del solito, aveva preferito rimanere ferma, continuando a guardare con noncuranza di fronte a sé, quasi nessuno fosse appena giunto.
    «A-ah...» Balbettò Shizuka, annaspando nel silenzio che si era venuto a creare. «...e-ecco Ojii-sama ti ricordi di Raizen...?» Gemette, prendendo istintivamente la mano sinistra del colosso tra le sue. Sembrava essere sul punto di mettersi a tremare. «E' il Jonin che mi fa da “maestro”...cioè che mi faceva, ormai, sai, sono Chunin, non c'è più bisogno di...»
    «Chunin?»
    Intervenne per evidente istinto Naoko Kobayashi, stridendo in una risata. «Non sarete nient'altro che una sposa alla fine di questa riunione, Himekimi.»
    «Ohi, baba!»
    Ringhiò immediatamente il piccolo Tatsuya, partendo baldanzoso come solo un bambino poteva fare in una situazione quella. «Niente offese a nee-chan! Him...kimi... quello che hai detto vallo a dire a qualcun altro!»
    «Hara maa...»
    Mormorò Naoko, sghignazzando affilata. «...individui di raffinata educazione, gli Uchiha.» Ma era evidente che non si stesse riferendo al bambino.
    Afferrando il figlio per il colletto del maglione, Isamu Uchiha si voltò con rabbia verso la donna, socchiudendo gli occhi.
    «Abbassa quello sguardo, ninja!» Ordinò Satoshi, gelido. «Sappiamo cosa potete fare con la maledizione che vi condanna il sangue!»
    «Satoshi-sama, vi prego...»
    Esordì allora Heiko, mortificata, voltandosi verso l'esponente del Paese del Tè con le mani leggermente alzate. «Non è davvero–...»
    «Mi state minacciando, Heiko Uchiha?!»
    Rispose per tutta risposta, in uno sbotto, Satoshi. Dimostrandosi platealmente allibito l'uomo si ritrasse con una mano al petto, alzando una manica dello splendido hakama blu notte che indossava di fronte al viso contratto.
    Quella frase bastò perché un secondo uomo, seduto sei passi dietro a lui e vestito di un kimono di cotone bicolore, si muovesse lentamente sui talloni, portandosi una mano all'obi. Benchè avrebbe potuto sembrare che egli, chiaramente un Aoki, si spostasse con lentezza, a Raizen e gli altri Jonin Uchiha sarebbe bastato un istante per capire che i suoi movimenti apparivano solo a quel modo, ma agivano secondo un altro principio...
    Istintivamente Isamu si portò di fronte a sua sorella, gettando il piccolo Tatsuya tra le braccia della moglie che, sconcertata, fece appena in tempo a muoversi in avanti lasciandosi alle spalle Chizuru e Masamune Uchiha, contriti e silenziosi...

    ...che Toshiro Kobayashi sbatté con violenza il suo ventaglio sul tavolo di legno di noce cui era seduto a capotavola. Dietro di lui, con lo sguardo rivolto al pavimento ma una mano sollevata all'altezza della spalla corrispondente e puntata in direzione della vicenda, Mamoru Aoki sembrava essersi fatto quasi inconsistente. Per qualche strana ragione, era quella l'impressione che si aveva di lui.
    Sgranando gli occhi con un terrore che né Raizen né Shizuka le avevano mai visto, Ritsuko Aoki scattò rapidamente avanti rispetto alla posizione in cui si trovava, e aprendo un lembo dello scialle che teneva sulle spalle schermò con il suo corpo la Principessa dell'Airone. Il Colosso della Foglia, avendola parallelamente a sé sulla destra, avrebbe potuto vederlo distintamente: stava sudando e no, non era spaventata, era tesa. Quel tipo di tensione che precede il combattimento.

    «Chiunque offenda mia moglie merita l'estromissione dalla Dinastia che guido e governo come Capoclan.» Si limitò a dire Toshiro Kobayashi, alzandosi con flemma dal tavolo. «Chi siete voi, ospiti di una gentilezza accordata con fiducia, per entrare nella mia dimora e insultare le decisioni di mia figlia, l'onore di mia moglie e l'integrità della famiglia di lei?» E voltando lo sguardo verso Isamu, si fece più sottile. «Chi siete per giungere senza ascoltare, per rivoltare la mano verso chi l'ha sempre offerta con garbo? Ricordate tutti la posizione che ricoprite e mantenete decoro e contegno presso Magione Kobayashi.» Disse, puntando elegantemente il ventaglio verso i presenti. «...oppure sarò costretto a mettere a tacere tutto questo grande problema.»

    Poi fu solamente una frazione di secondo.

    Mamoru alzò il braccio e Ritsuko, al capo opposto del tavolo, sbatté con violenza un piede a terra. Istantaneamente un forte vento si levò, come raccolto dalle profondità dei polmoni del mondo, filtrando dal terreno stesso. Hisoka Aoki batté le mani al suolo, affiancando di scatto Akihiko Kobayashi, e tutti gli altri presenti, che fino a quel momento si erano mantenuti seduti compostamente sei passi dietro ai rispettivi padroni, sembrarono fare qualcosa: chi tracciare un simbolo nel vento, chi estrarre dagli obi di seta intrecciata coltellini da lancio e chi...
    ...componendo un sigillo.
    Isamu Uchiha schermò la moglie, il figlio e la sorella, portando le mani di fronte al volto e imponendo contemporaneamente il sigillo della tigre, mentre Masamune estrasse con una velocità sorprendente per quell'età un sigillo dalla manica del vecchio kimono striato, un Fuuinjutsu, ed era appena sul punto di lanciarlo quando improvvisamente... qualcosa batté.

    «Oh vi prego.» Disse improvvisamente Toshiro Kobayashi, sorridendo educatamente. «Stavo solo scherzando... sapete quanto io odi creare semplici discussioni in famiglia, non è vero?» Domandò, allegramente. E a quel punto, affilando lo sguardo, il Capoclan di quella dinastia di Principi che era uno scrigno chiuso, un tesoro nascosto, un enigma ancora tutto da risolvere... si voltò verso Raizen Ikigami con gentilezza. Non sembrava minimamente turbato né preoccupato, e benché fosse ormai evidente che quella stanza contenesse un tipo di energia che superava di gran lunga quella che era concessa a cittadini “comuni” Toshiro non sembrava dubbioso che il Jonin della Foglia potesse giungere ad un certo tipo di conclusioni. Sembrava, per la verità, che l'essere arrivati a quel punto non fosse niente di più di qualcosa che aveva già previsto.
    «Questa è la ragione per cui non sapete nulla del Clan Kobayashi, Raizen Ikigami. E scusate per la teatralità, purtroppo qualche scenata sembra essere doverosa, di tanto in tanto.» Disse il Capoclan, passandosi una mano tra i folti e ispidi capelli castani prima di sospirare sonoramente. «Come vedete abbiamo ancora qualche scaramuccia in merito alla faida che intercorre tra la mia famiglia e quella degli Uchiha.» Shizuka era impalata accanto al Colosso di Konoha, dietro Ritsuko, e adesso non c'era più bisogno che si supponesse niente: stava tremando. «Shizuka è stata molto brava ad appianare gran parte delle divergenze, ma vedete... anni di odio non possono mai del tutto essere dimenticati. Possiamo solo confidare nelle generazioni future e pregare che esse, sotto la guida di noi membri della vecchia, possano dirigersi nella giusta direzione.» Disse, sorridendo educatamente. «Il Clan Kobayashi esiste da centinaia di anni, Raizen Ikigami. Il primo membro della famiglia da cui discendo era presente quando Konoha venne creata. Esistevamo da prima che Konoha nascesse. Mercanti nomadi, scaltri venditori. Abbiamo contrattato di tutto e tutto con chiunque.» Continuò il Capoclan, portandosi il ventaglio chiuso a posarsi sul palmo della mano sinistra aperta. Sospirando reclinò leggermente la testa verso sinistra, e infine sorrise. Quelle movenze... quel tono di voce... molto, quasi tutto, richiamavano il carattere di Shizuka. Persino il suo modo di manipolare la situazione a suo vantaggio. «La verità sulla Dinastia dell'Airone è accessibile solo ai membri più importanti della famiglia, al Capoclan e al consorte di questo. Persino la Principessa ereditaria ignora ciò che il suo sangue serba.» Ammise, facendo spallucce. «...ma questo tu lo sapevi già, vero Shizu-chin?» Chiese con dolcezza, benché fu abbastanza evidente che non si aspettasse minimamente una risposta. Shizuka infatti, ancora paralizzata sul posto, sembrava essere incapace di capire perfettamente cosa stava succedendo. «Mi dispiace darti tanto di cui pensare dopo che ti sei appena rimessa in sesto, figlia mia. Ma Raizen Ikigami non è mai stato un uomo che apprezza l'educazione e le formalità, da dove viene, del resto, non sono doti richieste.» Spiegò, ma cosa significassero quelle parole solo Raizen stesso, probabilmente, avrebbe potuto saperlo. «Raizen Ikigami, la mia famiglia vi deve molto. Avete salvato nostra figlia più e più volte, ma non siete nella posizione per chiedere verità e porre domande. Avete la nostra riconoscenza, ma qualsiasi cosa voi sappiate, io la so allo stesso modo.» Abbassò leggermente la testa, in un inchino di scuse. «Perdonate la mia sfacciataggine.» Disse infatti con educazione. «Mia figlia Shizuka è libera di fare quel genere di esperienza che ha chiesto di poter fare. Ha stipulato un contratto con me e ciò che il mio nome rappresenta per farlo, e vive perciò della beatitudine che la sua ignoranza può offrirle. Come padre prima che come Capoclan, però, vedo ad un livello più alto di lei. I miei occhi scorgono dettagli che lei non ha ancora la maturità per soffermarsi ad osservare, e la posizione che rivesto, del resto, mi permette di vedere gli stessi sotto molteplici aspetti.» Disse, sorridendo. «Voi godete ai miei occhi, Raizen Ikigami, di quel genere di benedizione e rispetto che non mi è forse ancora possibile darvi come membro dei Kobayashi, ma che vi offro con il cuore di un padre che vede quanto avete fatto per la figlia che ama con tutto se stesso.» Benché il discorso fosse tutt'altro che a livello di una semplice spiegazione di circostanza, ma affondasse le radici in qualcosa di ben più profondo, in un terreno crepato ricco di insidie e, forse, di tesori, Toshiro Kobayashi era sincero in quel momento. Non era necessario usare nessuna abilità strabiliante per capire quanto davvero credesse nelle parole dette. «Per quanto io possa sapere... per quanto i miei occhi vedano lontano... io non posso interferire laddove mia figlia avanza, ma voi, invece, potete. E lo fate, sempre. Lei può non vedere, può non accorgersi, sciocca bambina ancora insicura dell'amore che riceve, ma i miei occhi e il mio rispetto sono devoluti a voi, Raizen Ikigami.» Heiko, alla sinistra del Colosso, chiuse gli occhi, congiungendo le mani in grembo per poi sorridere. Era forse la prima volta che Raizen vedeva la famosa Mononoke di Konoha sorridere con sincerità, e avrebbe forse potuto capire perché quella donna godesse dell'appellativo con cui era conosciuta: era davvero splendida. «La vita di mia figlia, il mio tesoro più prezioso, è nelle vostre mani da anni, e mai avete tradito la speranza egoistica e opportunista che ho coltivato gelosamente nei vostri confronti, e cioè che voi possiate supportarla e accudirla come io non posso fare. Ciò che dicono le persone che mi circondano, non mi interessa. Shizuka ascolta un richiamo che noi Kobayashi non possiamo udire e che risponde al nome di “Uchiha”, ma lo fa rimanendo una fiera e orgogliosa Principessa. E' la dualità del suo essere che ha spezzato il suo animo.» Affermò e di fronte a quelle parole metà dei presenti si fecero rigidi, vedendosi mancare sotto i piedi quella forma di omertà che nessuno aveva mai ammesso di supportare ma da cui nessuno sembrava capace di discostarsi. «Voi siete tutto per Shizuka e vi ringrazio per questo... ma entrare a far parte delle “Chiavi del Sapere” del Clan Kobayashi, è un discorso che esula da questo.» Ammise, sorridendo contrito per poi scuotere la testa. «L'Airone vola ancora troppo alto perché la Volpe possa prenderlo, Raizen Ikigami...» Un sorriso enigmatico. «...ma se questa fiaba della tradizione è vera come si dice, arriverà presto il momento per voi di conoscere la fine della storia.» Concluse con garbo. Evidentemente si stava solo riferendo a qualche storia per bambini... «...ma sono disposto a parlare con voi e con Shizuka in un'altra Sala, con la calma che si adegua ad un argomento simile. Una pregevole chiacchera con un così apprezzato amico è un piacere che posso permettermi dopo una così stancante giornata. Non ho altri impegni oggi, vero Mamoru?» Domandò allegramente, mentre le persone attorno a lui sembravano farsi come improvvisamente smarrite e stupite: stava sciogliendo la riunione? Stava forse osando affermare che la presenza di quelle persone non era più... gradita? «La Sala dei Germogli sarà perfetta!» Continuò il Capoclan, aprendo di scatto il ventaglio e portandolo di fronte al volto. I suoi occhi, ricondotti sulla figura di Raizen, sorridevano. «Gradite del tè o preferite del buon saké delle Terre del Fulmine...?»


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